martedì 29 aprile 2014

UNA GIORNATA SENZA VANGELO - di Ida Magli -



EDITORIALI

Una giornata
senza Vangelo

di Ida Magli
ItalianiLiberi | 27.04.2014

  L
a giornata della canonizzazione dei papi è una giornata senza Vangelo e senza Gesù, contro il Vangelo e contro Gesù. L’esaltazione che la Chiesa fa di se stessa dichiarando “santi”, ossia perfetti seguaci di Gesù, i rappresentanti del potere della Chiesa incarnato nei Papi, è veramente degna della pompa medioevale, quando appunto erano i Re, i Principi, i Fondatori degli Ordini a essere immediatamente posti sugli altari in qualità di Santi, proposti alla venerazione dei popoli per le loro virtù nell’esercitare il potere. Ovviamente la maggior parte di coloro che si precipitano a Roma in questa occasione non conosce quasi per nulla i motivi che hanno spinto Ratzinger prima, e subito dopo Bergoglio, ad affrettare al massimo la canonizzazione di Roncalli e di Wojtyla; ma questi motivi sono quasi totalmente dovuti al bisogno di mettere fine, in modo che non fosse più possibile discuterne da parte di nessuno, ai dubbi che hanno accompagnato fino ad oggi le tesi del Concilio Vaticano II, Concilio voluto da Roncalli e avallato da Wojtyla (oltre che ovviamente da Ratzinger il quale è stato per oltre vent’anni, in qualità di Prefetto della Congregazione della Fede, il braccio destro e la guida teologica di Wojtyla). Il folto gruppo dei teologi tradizionalisti, moltissimi credenti cattolici, hanno dibattuto il contenuto del Concilio mettendone in luce tutti gli aspetti più contrastanti con l’interpretazione che la Chiesa ha dato nel corso dei secoli ai testi evangelici, come testimoniano anche gli innumerevoli libri di commento al Concilio che sono stati pubblicati nel corso degli anni. Le canonizzazioni chiudono violentemente ogni discussione: se sono Santi è perché sono stati “perfetti” seguaci di Gesù.

 Tuttavia, almeno per quanto riguarda Wojtyla, siamo tutti suoi contemporanei e ne conosciamo bene gli enormi difetti personali, il narcisismo che lo spingeva a “piacere” alle masse in tutti i modi possibili, a cominciare dalla storia a fumetti della sua vita, pubblicata dalla Marvel Comics Group (la stessa che ha pubblicato l’Uomo Ragno e tutti gli altri Supereroi della fantasia popolare) e autorizzata dal Vaticano per poi proseguire secondo un ben chiaro tracciato di “marketing religioso” con l’esibizione divistica della prestanza e del fascino del suo fisico, con l’insistere nel far identificare l’uomo Wojtyla con il Papa, tecnica precipua delle star, con i suoi viaggi planetari, che hanno radunato ovunque migliaia e migliaia di persone ma che dal punto di vista del cristianesimo non sono serviti a nulla, come dimostrano, senza possibilità d’ errore, le condizioni in cui Wojtyla ha lasciato l’Europa, l’ America, l’Occidente: privo d’anima, fondato sul denaro, senza famiglie, senza figli, annegato nella corruzione, nel vizio fino fra i suoi sacerdoti. Un fallimento totale. A Wojtyla è stato contestato infatti da tanti cattolici di non aver perseguito con il rigore indispensabile i casi di pedofilia del clero di cui era a conoscenza. Ma gli è stata anche contestata, dalle donne cattoliche sia d’America che d’Europa, una misoginia così radicata e profonda da dettargli, nella Mulieris Dignitatem, affermazioni del tutto erronee e fuori dalla realtà.

 Dipendevano soprattutto da questa misoginia gli eccessi imbarazzanti della sua devozione alla Madonna, eccessi molto vicini all’eresia e che infatti il Vaticano ha immediatamente tolto di mezzo con la sua morte. Le canonizzazioni di questi due papi celebrate da altri due papi sono la prova che ciò che resta del Papato è pura rappresentazione.



Ida Magli
Roma, 26 aprile 2014


                                                                                                                  

sabato 26 aprile 2014

LA MORTE DEL DUCE: UNA CATTIVA ABITUDINE DURA A MORIRE!

La morte del Duce e le tante invenzioni:
UNA CATTIVA ABITUDINE DURA A MORIRE!
di Giannetto Bordin
Nota della Redazione: Giannetto Bordin ha partecipato all'inchiesta condotta dal Camerata Giorgio Pisanò avente ad oggetto la morte del Duce. Ciò portò ad una preziosissima opera: "Gli Ultimi cinque secondi di Mussolini". Il Dott. Bordin dopo aver letto la recensione del libro tra le pagine del ns. sito vuole integrarla a dovere in quanto diretto interessato. A lui il nostro infinito ringraziamento. - La Redazione -
 
Sono trascorsi già parecchi anni da quando è stato dato alle stampe il libro conclusivo dell’inchiesta di Giorgio Pisanò sulla morte del Duce e di Claretta Petacci, “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini” (Ed. Il Saggiatore 1996) che, da subito, ottenne un grande successo di vendite e di critica.
Nonostante le documentate rivelazioni del suddetto libro, vi è ancora chi, cieco e sordo anche davanti all’inoppugnabile e mai smentita testimonianza oculare e alla serietà dell’indagine svolta, continua pervicacemente a dare, di quel tragico evento, la falsa versione dei fatti propalata dal PCI, con la quale per decenni si è voluto far credere che Mussolini e la Petacci vennero “fucilati” a Giulino di Mezzegra davanti al cancello di Villa Belmonte poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile 1945 da tale Walter Audisio, alias “colonnello Valerio”. Senza colpevolmente tenere in alcun conto gli storici e i giornalisti più attenti (da Bandini a Pisanò, da Zanella al partigiano Urbano Lazzaro) i quali, pur avanzando legittime ipotesi basate sulle loro conoscenze del momento in cui ne riferivano nei loro scritti, sono unanimi nell’escludere tale versione.

In ogni occasione in cui l’argomento viene trattato, sulle modalità e la dinamica di quell’assassinio, anche su alcuni periodici maggiormente diffusi nell’area di “destra”, si insiste a volte riproponendo al lettore la versione cara alla storiografia ufficiale imposta dal PCI.
Ciò sovente è dovuto a una purtroppo diffusa ignoranza in materia o ad un incomprensibile rifiuto di riconoscere fatti ormai accertati. Ma anche a una sorta di ingiustificabile pigrizia mentale.

Coloro che non avessero letto il suddetto libro/documento di Pisanò (sarebbe sconsolante constatare tra costoro pseudo storici, direttori e redattori di giornali, anche se solo saltuariamente s’interessano della materia) sappiano che, in seguito a quella laboriosa e molto difficoltosa ma appagante inchiesta, è emerso che l’assassinio di Benito Mussolini – perché di un vero e proprio assassinio a sangue freddo si trattò – avvenne tra le ore 09.00 e le 10.00 (cioè ben sei o sette ore prima di quanto afferma la versione “ufficiale”) nel cortile della casa abitata dalla famiglia De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, con Mussolini legato per un braccio al catenaccio della porta della stalla. Claretta invece venne falciata da una raffica di mitra che la raggiunse alla schiena dopo circa due ore, nella stessa via del Riale, a pochi metri dall’abitazione della famiglia Mazzola mentre, piangente e disperata, seguiva i due partigiani che trasportavano il cadavere del Duce sostenendolo in modo da far credere a chi vedeva la scena che si trattasse di persona ferita ma ancora viva.


Ciò è quanto emerso dalla testimonianza di Dorina Mazzola, a quel tempo una ragazza di 19 anni intelligente sveglia ed attiva e, al momento delle sue dichiarazioni - febbraio 1996 – un’anziana settantenne dalla mente lucidissima la quale, dal cortile della sua abitazione, protetta da materiale ferroso, oggetto di commercio del padre, ebbe modo di assistere a quanto accadeva, fatti che poi confidò alle pagine di un suo diario (copia del quale in possesso di chi scrive) con la minuziosa descrizione di quanto ebbe la ventura (o la sventura) di vedere in quel triste mattino del 28 aprile 1945.
Una testimonianza oculare, ma soprattutto “disinteressata”, che nessuno sinora ha potuto smentire o inficiare.

In seguito alla sua testimonianza, Dorina Mazzola, per questo suo coraggio, ebbe a ricevere dimostrazioni di solidarietà e di approvazione da parte di molte persone della zona, come lei a conoscenza delle stesse cose, che si sentivano finalmente “sollevate” dal peso oppressivo del silenzio loro imposto con la minaccia di gravi ritorsioni se ne avessero parlato.
Numerose furono anche le manifestazioni di solidarietà e approvazione, testimoniate dalle molte telefonate e lettere (copie di queste pure in possesso di chi scrive) che a Dorina Mazzola sono giunte da ogni parte d’Italia e dall’estero, per ringraziarla d’avere finalmente squarciato l’ormai inutile velo su di un fatto storico talmente importante e controverso.
Le Tappe dell'Inchiesta
 
Per chi avesse qualche dubbio sull’impegno e la serietà profusi da Giorgio Pisanò nel condurre la fase conclusiva di un’inchiesta che durava da un quarantennio, avendovi con lui collaborato, tenterò qui di riassumere le varie fasi e le tappe del suo svolgersi.

Durante le nostre “missioni” sul lago di Como, che ci impegnarono per giorni e giorni, distribuite nell’arco di mesi, ogni qualvolta ci trovavamo ad interrogare od anche semplicemente a chiacchierare con qualcuno dell’argomento, ero io stesso che prendevo le annotazioni sul colloquio. Annotazioni che riportavo su foglietti di carta che tuttora conservo. Una volta rientrati dal nostro viaggio potevamo cosi redigere un verbale, che ambedue controfirmavamo, per documentare il lavoro svolto e lasciarne traccia per il libro che poi sarebbe stato scritto.

Naturalmente in questi verbali citavamo solamente i nomi delle persone disposte a confermare in qualsiasi momento quanto dichiaravano, mentre tutto il resto rimaneva riservato nei miei appunti.
Spesso capitava infatti che qualche testimonio ci confidasse di tragici particolari di cui era a conoscenza, accaduti nella zona, ma che rifiutava di sottoscrivere nel timore (dopo oltre mezzo secolo ancora molto diffuso) di provocare ritorsioni nei suoi confronti.

Tali racconti, che spesso esulavano dallo scopo principale della nostra indagine, non sono quindi presenti ne “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”. Oltretutto avrebbero potuto distogliere l’attenzione del lettore da quello che era lo scopo del libro: dimostrare cioè come avvennero le uccisioni di Benito Mussolini e Claretta Petacci.

Importanti Testimonianze

Nel corso della nostra indagine ebbimo a raccogliere (oltre a quella conclusiva di Dorina Mazzola che fu di riscontro alle altre) alcune importanti testimonianze.

La prima fu l’incontro con una distinta signora tra i 55 e i 60 anni che un giorno di ottobre del 1995, incrociammo, mentre bazzicavamo intorno alla casa De Maria, incuriosita dalla presenza di quelle tre persone (con noi c’era anche un disegnatore professionista, Gianluca Tirloni) estranee al paese, appresone il motivo, ci precisò che pur non essendo lei del luogo, vi aveva invece abitato la madre. Aggiunse quindi che la stessa era stata per anni in rapporti di amicizia con Lia De Maria, presso la quale si recava sovente in visita.

Alle nostre domande la donna incontrata (che, descritta a Don Luigi Barindelli parroco del paese, questi identificò in certa signora Gilardoni) ci riferì che sua madre le aveva più volte riferito quanto ripetutamente raccontatole dalla De Maria in occasione di quegli incontri, e cioè che in quel mattino del 28 aprile 1945, nella stanza dove erano tenuti prigionieri Mussolini e la Petacci entrarono due o tre persone a lei sconosciute, oltre al partigiano Moretti, dopo di che si verificò un terribile trambusto e furono sparati alcuni colpi di rivoltella. Un racconto che la De Maria aveva ripetuto in più occasioni alla madre della nostra interlocutrice.

Ci parve – come in effetti era- una testimonianza importante, degna d’essere presa in considerazione

Nel frattempo, dalla signora Savina Cantoni, moglie del partigiano Sandrino deceduto nel 1972), avevamo saputo che il marito, a suo tempo, aveva redatto un documento in cui raccontava dettagliatamente quanto era accaduto in casa De Maria quel mattino del 28 aprile 1945.

Ora il nostro scopo primo diventava quello di rintracciare quel documento/testamento che il partigiano “Sandrino” – detto anche “Me ne frego” aveva lasciato (e la moglie ce lo confermò in più occasioni) a futura memoria nelle mani di qualcuno. Un “qualcuno” che si rendeva necessario individuare. In tale documento il Sandrino dichiarava chiaro e tondo come erano andate le cose. Chi furono cioè gli esecutori di Mussolini, come venne ucciso. E probabilmente avrebbe potuto anche esserci scritto cosa esattamente avvenne qualche minuto prima nella stanza dove il Duce con la Petacci erano tenuti prigionieri, e cosa fu a provocare i due colpi di rivoltella che ferirono Mussolini.
Dell’esistenza del documento, pare che altre persone fossero a conoscenza. Per cui doveva pur essere in mano a qualcuno!

Verosimilmente il foglio redatto dal Sandrino (un contadino: scarpe grosse e cervello fino), gli aveva evitato di fare la stessa fine del partigiano Lino che con il Cantoni era montato di guardia alla stanza dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci, ucciso da ignoti mentre attendeva (Bill o Neri) a cui aveva promesso di riferire come erano andate le cose relativamente all’uccisione di Mussolini e quanto era accaduto in quelle ore in casa De Maria. Fatti di cui era stato testimonio, compresa certamente l’identificazione degli autori dell’omicidio!

Una volta eliminato il partigiano Lino la sua bocca era chiusa per sempre, ma nel caso dell’altro guardiano, il Sandrino, se anch’egli avesse prima o poi dovuto subire la stessa sorte, far sapere in giro che aveva lasciato in mani di qualcuno un documento che avrebbe parlato per lui, poteva essere una bella polizza assicurativa.
E’ noto che Sandrino fu per vari anni quasi perseguitato, minacciato e sempre pesantemente “invitato” a non parlare, tanto da doversi recare a lavorare in Svizzera per un certo periodo di tempo. Dal che si può appunto facilmente arguire che se non vi fosse stata la presenza di un documento compromettente, il Sandrino avrebbe certamente fatto una brutta fine.

Nonostante tutti i nostri sforzi comunque la ricerca del documento “Sandrino” fu infruttuosa.
Anche dopo la pubblicazione del libro “Gli ultimi cinque secondi di Mussolini”, con Pisanò, continuammo a chiederci quale fine abbia potuto fare e dove possa essere finito l’importante documento.

Vediamo ora cosa può essere accaduto.

“Me ne frego”, che sicuramente non aveva molta dimestichezza con la penna, è da presumere che abbia fatto redigere ad altri il documento con il racconto di quanto vide accadere il mattino del 28 aprile 1945. La persona cui Sandrino si rivolse fu un certo commendator Giulini, personaggio molto noto nella zona, persona nella quale riponeva la massima fiducia.
Il Giulini era infatti nella condizione di portare grande riconoscenza al Sandrino che a suo tempo gli aveva salvato la pelle da altri partigiani che avevano deciso di eliminarlo in quanto considerato “fascista” per avere avuto incarichi durante il regime.
In seguito il Giulini aveva a sua volta tratto dai pasticci il Sandrino, fornendogli i quattrini (un milione di lire) da restituire al quotidiano “Il Corriere della Sera” che glieli aveva anticipati per un’intervista che mai concesse. Il danaro fu dato dal Giulini al Sandrino a patto che il documento venisse a lui ceduto in “custodia”, come in effetti avvenne.
Un documento di tale importanza testimoniale che avrebbe potuto in qualsiasi momento essere reso di pubblico dominio, sbugiardando tutti i fantasiosi racconti sinora propinati, lascia supporre che il Sandrino lo abbia volutamente utilizzato come un ideale “giubbotto antiproiettile”, che lo avrebbe salvaguardato dalla stessa cattiva sorte incontrata dal suo antico compagno Lino Frangi.

L’accordo, secondo quanto ci riferì Savina Cantoni, vedova di Sandrino, prevedeva che se il Giulini, più anziano del Sandrino, fosse deceduto prima di lui, il documento avrebbe dovuto automaticamente rientrarne in possesso del legittimo proprietario.
Nel caso contrario, il Giulini avrebbe dovuto far sì che alla sua morte il documento venisse consegnato, come da sua disposizione, agli eredi del Sandrino, per i quali avrebbe potuto costituire una fonte di guadagno nel caso di cessione a qualche editore interessato ad un grosso scoop giornalistico.
Sandrino muore nell’ottobre del 1972, e il Giulini trattiene il documento senza restituirlo alla famiglia Cantoni, come stabilito da Sandrino stesso.

In varie occasioni, anche dopo la morte di Guglielmo Cantoni, a persone amiche (tra cui don Bianchi parroco di Gera Lario, la signora Adriana Scuri sua perpetua, e il notaio Casnaghi) il Giulini conferma di essere in possesso del documento "che verrà reso pubblico alla sua morte."
Il Giulini dunque, anche dopo la morte di Sandrino, continua a dichiarare di essere in possesso e continua a conservare il documento. Quando nel 1993 cessa di vivere però, nemmeno allora il documento finisce come dovrebbe, magari attraverso un notaio, nelle mani dei legittimi eredi Cantoni, e nemmeno viene reso pubblico, come il Giulini aveva ripetutamente dichiarato che sarebbe avvenuto, a testimoni insospettabili.

Considerando che il dichiarato possesso del documento da parte del Giulini è un fatto conosciuto da diverse persone, non possiamo certamente escludere che del fatto (ormai un segreto di Pulcinella) ne fossero a conoscenza anche il Moretti e, con gli altri “duri” del PCI, anche l’”apparato”.
Il Giulini muore dunque nel 1993. Il suo erede, Ugo Tenchio, interrogato, dichiara di non saperne nulla.

Il notaio Casnaghi di Como (al quale il Giulini aveva confidato di possedere quel "documento storico” importantissimo, sulla morte del Duce) non ne trova traccia tra le carte del testamento presentategli dal Tenchio per la pubblicazione.
Nemmeno tra i due quintali di documenti del Giulini messi a disposizione dal Tenchio e spulciati ad uno ad uno da Pisanò e Bordin in un gelido garage nei “giorni della Merla” del 1996, il documento viene alla luce.

L'erede Tenchio pare proprio che non ne sia in possesso, anche se Pisanò, contrariamente a chi scrive (vi furono lunghe discussioni tra noi a questo proposito), non ci crede.
Il documento sembra sparito nel nulla.
L'ultima persona certa a possederlo è stato il Giulini.

Cosa può essere accaduto?

Pisanò ipotizza che il Giulini, non ritenendo il Tenchio in grado di farne il giusto uso, lo abbia affidato a qualcuno (Ente o personaggio di sua completa fiducia) che avrebbe provveduto a renderlo noto dopo la sua morte.
Ma a chi avrebbe potuto cederlo? A un Istituto Storico della Resistenza? No di certo. Si sarebbe rivelato un grossolano errore in quanto il Giulini (praticamente un demoscristiano) sapeva benissimo che quegli organismi sono in mano a comunisti ed ex azionisti, proprio quelle forze politiche che conoscono la verità dei fatti e non la rivelano; e quindi mai avrebbero pubblicato il documento.

All'Archivio Storico Statale?
In questo caso potrebbe venir reso noto soltanto dopo molti anni quando, cioè le rivelazioni che contiene non avrebbero più le ripercussioni politiche di oggi (che d’altronde – siamo nel 2008 – vanno sempre più perdendo il loro valore).

Sono due ipotesi ben difficilmente accettabili, anche perché violerebbero le disposizioni testamentarie di chi lo aveva redatto.

L’omessa pubblicazione violerebbe inoltre anche la volontà (almeno quella diffusamente conosciuta) del Giulini il quale sempre andava dicendo che dopo la sua morte il documento sarebbe stato reso noto.
In più bisogna considerare che il Giulini non era uno sprovveduto, per cui sicuramente immaginava che un documento del genere avrebbe potuto fruttargli una cifra considerevole
E allora?
Vi è un’ipotesi che, personalmente, considero come la più verosimile.

Dato per scontato il possesso del documento da parte del Giulini,
Acclarato che molte persone erano a conoscenza di questo fatto,
Considerato che sicuramente tra queste persone vi erano anche i personaggi più intransigenti dei partiti più intransigenti, disposti a far rispettare ad ogni costo e con ogni mezzo la versione della finta fucilazione di Mussolini e della Petacci, ma principalmente ad evitare che venissero rivelati i nomi (Longo? Pertini?) sempre taciuti, di chi si macchiò di tale delitto.

Conseguenza logica e naturale è che dell’esistenza dello scottante documento, fossero venuti a conoscenza i vertici del PCI , cosi come quelli del PSI e del P d’ A., alcuni dei loro più alti rappresentanti, erano sicuramente coinvolti nell’assassinio.

In tale situazione vi è un grado talmente alto di probabilità tale da avvicinarsi alla presumibile certezza, che un bel giorno, il Giulini , ancora attivo, vivo, vegeto e in buona salute, sia stato avvicinato da emissari del PCI i quali, prima con le blandizie, poi con le minacce ma, non escluso, anche con l’offerta di denaro, lo abbiano costretto, volente o nolente, a consegnare loro il documento Sandrino.

Di fronte a una “proposta” del genere (della serie di quelle che “non si possono rifiutare”) come avrebbe potuto comportarsi il Giulini?

Inizialmente blandito, poi pressato e quindi velatamente (ma non troppo) minacciato dai suoi interlocutori, era forse in grado di reagire? di opporsi? di appellarsi all'autorità dello Stato per essere tutelato? Forse lo avrebbe potuto fare, ma sicuramente andando incontro a gravi rischi perché, come di regola, testimoni scomodi il PCI non ne lasciava facilmente in vita.

Gli stessi emissari lo avrebbero potuto facilmente liquidare mettendo in atto un piano già certamente predisposto in modo da farlo apparire come una disgrazia (si fa presto, specie su quelle strade, a finire sotto una macchina). E se il documento il Giulini l’avesse consegnato a un notaio, per lui nulla sarebbe cambiato. E il notaio, di fronte a delle minacce, cosa avrebbe potuto fare, l’eroe ? Vi è da dubitarlo.

Quindi, in ultima analisi, al Giulini, tra le cui doti non vi era certamente la vocazione al martirio, né aveva la stoffa dell'eroe, non rimaneva altro che cedere e consegnare il documento agli emissari degli ipotetici mandanti.
Non dimentichiamo che terminato il conflitto e normalizzatasi la situazione il Giulini, che durante il ventennio era stato fascista, non ebbe nessuna difficoltà a vestire i suoi veri panni, quelli cioè del demoscristiano, continuando cosi a rimanere sulla cresta dell'onda.

In buona sostanza, pur riconoscendogli sicuramente doti di umanità e disponibilità verso il prossimo, il Giulini fu indubbiamente anche un opportunista

Dopo aver ceduto (dietro minacce, dietro compenso ?) il documento non poteva certamente lasciar trapelare di non esserne più in possesso. Sarebbe stato molto pericoloso perché avrebbe dovuto confessare dov'era finito. Perciò continuò suo malgrado a sostenere, forse con ancora maggiore insistenza, d'esserne il depositario.
Si potrebbe obbiettare che il Giulini nel testamento avrebbe potuto rivelare dov'era finito il documento.

Ciò avrebbe però compromesso (il Giulini sapeva benissimo che le minacce dei comunisti si estendono sempre anche alla parentela del minacciato.) la tranquillità del suo erede Ugo Tenchio e dei suoi famigliari i quali, anche se legati da un vincolo di parentela non propriamente stretto, lo avevano assistito negli anni della malattia, per cui il Giulini si sentiva legato da un forte sentimento di riconoscenza, tanto da eleggerli, salvo qualche piccolo lascito, a suoi eredi.
Possiamo dunque scordarci il documento di Sandrino, che forse non riusciremo mai a vedere.

Nella migliore delle ipotesi, tra anni, la vera Storia riprenderà il suo ruolo, e dei diretti protagonisti di quei fatti si sarà persa la memoria e ne rimarranno soltanto dei nomi. Allora, quando il PCI, oggi camuffato sotto altre sigle, non sarà più il partito che è stato sinora, cioè una doppia organizzazione, quella ”ufficiale” e quella "ombra" della quale un certo numero di iscritti fa parte all'insaputa della massa, forse allora il documento, a meno che non sia stato distrutto (cosa non improbabile), potrà venire alla luce.

Cosi come forse saranno resi noti altri documenti gelosamente custoditi nei loro archivi, tuttora coperti da segreto, spesso per motivi ignobili.
Giannetto Bordin *Collaboratore di Giorgio Pisanò

                                   
                                                                                                                                                             

mercoledì 23 aprile 2014

Fidanzate con la morte. Storia delle ragazze della Repubblica Sociale Italiana.


Fidanzate con la morte. Storia delle ragazze  della Repubblica Sociale Italiana.

SAF4
E’ il 6 agosto 1936, a Berlino il cuore di una bella ragazza bionda di soli 20 anni batte all’impazzata. La finale degli 80 metri ostacoli la sta aspettando e lei è pronta ad affrontarla, mettendoci la grinta e il coraggio di cui sarà capace. Al via corre con tutte le sue le forze e primeggia. Ondina Valla, nata a Bologna nel 1916, è stata la prima donna italiana a vincere un oro olimpico. Al suo rientro fu poi ricevuta con tutti gli onori a Palazzo Venezia da Mussolini in persona e nel 1937 le venne riconosciuta una ulteriore medaglia d’oro al valore sportivo accompagnata da un assegno di cinquemila lire, cifra per allora di tutto rispetto.
Il Fascismo aveva operato una rivoluzione nel mondo femminile: in quegli anni la donna fu incoraggiata a dedicarsi allo sport, nonostante l’ostracismo della Chiesa e, nel 1929, un anno dopo l’inizio dei lavori per la costruzione del Foro, il governo fascista annunciava la nascita dell’Accademia di Educazione Fisica Femminile a Orvieto. Un provvedimento che rispondeva all’esigenza di formare nuove insegnanti per le scuole medie e per le organizzazioni femminili fasciste. Nell’Accademia di Orvieto e in altri Collegi, retti dal PNF, le ragazze “capaci e meritevoli”, segnalate dagli insegnanti, venivano fatte studiare gratuitamente, a spese non dello Stato ma del Partito stesso.
Tali “scuole” raggiunsero una notevole fama, anche a livello internazionale, per la serietà degli studi, la disciplina dello sport, lo spirito cameratesco fra le ragazze e la vita gioiosa e serena che vi si conduceva. Le organizzazioni femminili fasciste furono affidate esclusivamente alle donne e la Segretaria Nazionale rispondeva del suo operato soltanto al Segretario dei Partito, il quale esercitava esclusivamente vigilanza amministrativa e di coordinamento.
Il Duce in persona, con la sua politica rivolta al mondo femminile, fu il creatore del legame donna-fascismo. Il suo progetto politico mirò alla formazione di una “nuova italiana”: la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana che coinvolse sia gli aspetti più intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la sua formazione e l’inserimento sociale. Per la prima volta in Italia, la donna venne valorizzata e resa autonoma nelle sue scelte e nelle sue prospettive. Le fu affidato il settore più delicato e impegnativo, quello dell’assistenza all’infanzia e alle categorie disagiate e, in tale compito, ebbe piena autonomia e piena responsabilità. Le donne risposero con impegno e capacità inattese, era emancipazione, checché se ne dica.
In quel particolare clima spirituale, fatto di amore per la Patria, senso della disciplina, del dovere e del sacrificio è facilmente intuibile il motivo per cui dopo il tradimento dell’8 settembre, tante giovani donne per l’indignazione che vanificava lo sforzo comune di più generazioni si sentirono spinte a una scelta non soltanto politica, ma a difesa dell’onore stesso d’Italia. Anche le “giovani italiane” dell’ONB, come le sorelle maggiori, non esitarono ad abbandonare la casa, la scuola, gli affetti e le comodità, scegliendo una vita di disciplina e di sacrificio, pur di poter essere anche loro utili alla Patria. Esse vollero dimostrare in modo tangibile la loro ribellione all’ignobile tradimento e volontariamente si mobilitarono per schierarsi a fianco dei soldati italiani che combattevano nella Repubblica Sociale. Erano le donne di Mussolini, animate da puro ideale, spirito di avventura, fedeltà a un regime che consideravano immutabile e da un amore viscerale nei confronti dell’uomo che sentivano come un padre.
Una ragazza di Salò racconta l’incontro con il Duce e di quei “lacrimoni” versati per l’immensa gioia di essere passata finalmente sotto il suo sguardo: “quello che mi colpì del Duce fu l’espressione dei suoi occhi, che infatti non ho mai più dimenticato: sembrava che ci guardasse a una a una e che il suo stato d’animo, di fronte al nostro slancio, fosse di una gioia pensosa. Ciò che direi, oggi, è che il suo sguardo non aveva nulla del leader che insuperbisce alla vista di coloro che lo acclamano. Viceversa, era quello di un padre che è sì orgoglioso dei propri figli ma anche, in un suo modo segreto, preoccupato del loro avvenire; e preoccupato, anzi, assai più del loro destino che del proprio”.

Nel gennaio 1944 il giornalista Concetto Pettinato scrisse su “La Stampa” un appassionato articolo “Breve discorso alle donne d’Italia”: “Un battaglione di donne: e perché no? Il governo americano si è impegnato a gettare le nostre figlie e le nostre sorelle alla sconcia foia dei suoi soldati d’ogni pelle. Ebbene, perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne, ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile a tracolla?”. A Milano, in Piazza S. Sepolcro, circa 600 giovani donne si radunarono spontaneamente a ribadire la loro volontà di partecipare in modo attivo al conflitto, chiedendo di essere arruolate. Situazioni analoghe si verificarono in altri centri della Repubblica Sociale italiana. Cominciarono così a costituirsi gruppi femminili in servizio presso i Comandi Militari. Data l’alta affluenza e la determinazione di tante donne si fece sempre più concreta l’idea di un arruolamento volontario femminile nelle file dell’Esercito Repubblicano.
Il Servizio Ausiliario Femminile venne istituito il 18 aprile 1944 e il comando fu affidato al generale di brigata Piera Gatteschi Fodelli già ispettrice nazionale dei Fasci di Combattimento Femminili, unica donna a rivestire un grado militare così elevato. Le volontarie erano divise in tre raggruppamenti: il Servizio Ausiliario Femminile per l’esercito, le Brigate Bere e la Decima Mas. Quest’ultima ebbe il SAF autonomo dagli altri due. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921) che, in precedenza al luglio 1943, si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista.
La divisa delle “ragazze di Salò” era costituita da giacca sahariana senza collo e gonna pantaloni, entrambe di colore kaki, camicia nera, basco, e fregi rappresentativi del corpo di appartenenza sul bavero e sulla fibbia del cinturone. La disciplina a cui venivano sottoposte era quella militare: le volontarie ammesse dovevano infatti frequentare corsi di addestramento che avrebbero cambiato totalmente le loro abitudini di vita. La giornata era scandita dallo squillo della tromba e iniziava con la sveglia, la pulizia personale, la colazione e l’alzabandiera, durante il quale le allieve recitavano la preghiera dell’Ausiliaria . Nello svolgimento dei loro compiti venivano adibite ai servizi ospedalieri come infermiere, ai servizi negli uffici militari, nelle mense nei posti di ristoro e alcune ausiliare vennero impiegate come ascoltatrici nella contraerea, come radiotelegrafiste e altre ancora furono attive nei reparti Sabotatori.
Comunque, per avere un’idea di quella che fu la portata di tale fenomeno e soprattutto della vastità dell’adesione che queste giovani donne diedero alla RSI, ricordiamo che “il 28 Ottobre del 1944, in una relazione che il generale Piera Gatteschi scrive a Mussolini, le ausiliarie del SAF in servizio nei vari settori erano 1.237, provenienti da sei corsi nazionali( …), e 5.500 le volontarie in addestramento nei ventidue Corsi Provinciali” (Dati raccolti dall’Archivio Centrale Dello Stato – Roma). Nei documenti dei mesi successivi, invece, risulta, addirittura, che si arrivarono a contare quasi 10.000 ausiliarie in servizio, tutte in un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. Provenivano da ogni ceto sociale e da ogni parte dell’Italia, erano in tante le ragazze non ancora maggiorenni, molte le spose, e parecchie anche le madri che si fecero ausiliare per andare incontro a un destino che sapevano già segnato. Alcune morirono, moltissime altre subirono sevizie materiali e morali da parte di soldati alleati e partigiani. Ciò che più lascia allibiti, infatti, è senza dubbio il tributo di sangue che queste giovanissime pagarono per difendere la loro fede.
Le prime ausiliarie che persero la vita furono le sei che morirono nell’attentato a Cà Giustiniano, a Venezia, il 26 Luglio 1944. Alla data del 18 Aprile 1945, invece, si contavano 25 cadute, 8 ferite, 7 disperse, 13 sottoposte a decorazioni. Ma non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che durante le tragiche giornate di sangue di fine aprile e maggio furono massacrate o trucidate selvaggiamente dopo essere state violentate, torturate, seviziate dagli ”eroici” partigiani. Infatti, il SAF fu il reparto che, in rapporto a quello che era il suo organico, registrò la più alta percentuale di caduti.
Dopo il 25 aprile, la sopravivenza o la morte delle ausiliarie furono dovute alla capacità e alla prudenza dei comandanti dei reparti cui erano aggregate, ma anche al caso e alla fortuna.
Chi cadeva nelle mani degli Alleati, generalmente, dopo un sommario interrogatorio, veniva posta in libertà. Chi, invece, cadeva nelle mani di partigiani non comunisti, finiva in campo di concentramento, in attesa di accertamento per eventuali responsabilità personali e poiché responsabilità personali non ce n’erano, dopo qualche tempo tornava libera. Non ci fu scampo, invece, per le sventurate cadute in mano ai partigiani rossi che restano gli unici responsabili del massacro di quele ausiliarie che non piegandosi all’odio comunista morirono con coraggio molto spesso dopo aver subito violenze, stupri e sevizie e, per crudeltà mentale, dopo aver dovuto sfilare nude, con i capelli tagliati a zero, tra ali di gente inferocita imbarbarita dall’odio fomentato dagli stessi aguzzini.
Un’idea precisa ed impressionante del clima in cui vennero a trovarsi le ausiliarie in quei giorni è resa da Antonia Setti Carraro, che ha narrato la sua testimonianza nel libro “Carità e Tormento” scritto nel 1982, quando, ancora quarant’anni dopo, non riusciva a dimenticare le scene spaventose alle quali aveva assistito. Uno spettacolo allucinante in una Torino in preda all’odio e al sangue, con cadaveri disseminati dovunque. Sul Po “L’acqua” scrive Antonia Setti Carraro “che era bassa e sembrava ferma, brulicava di cadaveri. A testa in giù, a braccia aperte, a gambe divaricate, a faccia in su, a pezzi o tutti interi, giovani, ragazzi, uomini, donne e fanciulle giacevano scomposti, aggrovigliati, ammassati, paurosi a vedersi, atroci nelle posizioni. Le ausiliarie erano impallidite in modo terribile”.
Questo racconto, che resta uno dei più sinceri, nella descrizione dell’odio demoniaco di cui sono stati capaci certi italiani e si conclude con la quasi miracolosa fuga delle otto donne catturate poiché i loro carcerieri erano troppo impegnati a gustarsi, nei minimi particolari, l’agonia di un fascista .
Non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che hanno perso la vita ingiustamente in quei giorni di follia omicida che colpì vigliaccamente le figure più fragili, si parla di 300 o di oltre un migliaio a seconda delle fonti, ma non conta quante furono, conta l’infamia del gesto che le colpì fosse anche verso una sola donna.
In conclusione citiamo alcuni esempi di fulgido eroismo delle ragazze che vissero quei giorni bui:
-Giovanna Deiana. Colpita al viso da una scheggia durante un bombardamento alleato, era rimasta cieca e nonostante questa menomazione, supplicò il Duce di essere accolta nelle volontarie del SAF, la sua richiesta fu esaudita e venne assegnata ai centri di ascolto della contraerea. Raccontano di lei le sue colleghe: “Attorno a sé rifletteva la serenità del suo spirito non piegato dalla prova. Era come se vedesse più profondamente di tutte.”
-Raffaella Duelli prima da ausiliaria della Decima poi da assistente sociale di bambini disagiati, fino al suo ultimo giorno di vita si è dedicata al prossimo: “Nell’opera di recupero delle salme dei combattenti e nella quotidiana attenzione per chi soffre − qualità essenziale nella mia professione − c’è la stessa forza dei valori. Quegli ideali di solidarietà e patriottismo che animavano la mia prima giovinezza li ho trasferiti nell’impegno per i bambini delle periferie romane. Una certa idea della Patria non può essere disgiunta da quella di solidarietà e di giustizia sociale”.


-Marilena Grill di 17 anni fu prelevata dai partigiani con la promessa ai genitori di riportarla a casa dopo un interrogatorio. Marilena volle indossare la divisa pensando che sarebbe stata uccisa, ma non venne fucilata, non subito, fu prima portata in un casolare di campagna dove fu ripetutamente violentata le straziarono il corpo infilzandole i seni con la lama della baionetta, la torturarono sessualmente con bastoni fino a farla sanguinare, alla fine le spararono un colpo alla nuca e mantennero la promessa fatta al padre: la riportarono indietro, buttandola cadavere davanti la porta di casa.
-La storia dell’ausiliaria Franca Barbieri, proposta per la medaglia d’oro, è quella di un soldato. Catturata dai partigiani, le viene offerta la vita a condizione di passare nei ranghi delle loro formazioni. L’ausiliaria rifiuta. Di fronte al plotone di esecuzione grida “Viva l’Italia” e cade sotto le raffiche dei mitra. Franca scrive nelle ultime righe consegnate prima della condanna a morte: “Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole.”
C’è un filo rosso che lega queste esperienze, una traccia comune che salda storie così diverse è il prezzo pagato dalle donne di Salò, che avevano servito l’Italia con fedeltà, spinte solo da motivazioni ideali , così delicate come un fiore e così forti allo stesso tempo da vestire con onore il grigioverde. 


lunedì 21 aprile 2014

25 APRILE


      Quando la Storia diventa dramma nella vita di un popolo, proprio allora non si puo'
       reprimere oltre l'ansia di riconquistare quei valori dello Spirito che le greppie, solo
       le greppie, riescono a narcotizzare.

                                                                                                                    
        
                     CENTO SCIACALLI UCCIDONO UN LEONE, NE DIVORANO
                      LA CARCASSA... DOPODICHE' SI PROCLAMANO "EROI".
                                                              25 APRILE                 

                                GLI SCIACALLI SI PROCLAMANO EROI !!!!!!!
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                    "I PIGMEI UCCIDONO I TITANI, PER NASCONDERE LA LORO
                    IMPOTENZA, MA SPESSO FINISCONO DI MORIRE ESSI STESSI
                    DANDO ETERNITA' ALLE PROPRIE VITTIME".                            


domenica 20 aprile 2014

Gli tolgono la cittadinanza onoraria: Mussolini risponde «me ne frego!» Enrico Galoppini

Gli tolgono la cittadinanza onoraria:
Mussolini risponde «me ne frego!»
 
Enrico Galoppini ((14 aprile 2014)    
 

Evviva, giustizia è fatta! L'onta è stata lavata! Torino si è finalmente tolta un peso dalla coscienza …
Ma di che stiamo parlando? Forse del riconoscimento, a tutti i torinesi immigrati dal Meridione, di essere stati vittime di un piano ben orchestrato che li aveva trasformati, per sfruttarli a dovere, in "migranti" ante litteram?
O del ripristino di un livello accettabile di respirabilità dell'aria, visto che la Città della Mole è tra le più inquinate, se non la più inquinata, d'Europa?
Vuoi vedere che si tratta di un provvedimento che mette fine -aiutando questi sventurati- al miserevole e pietoso spettacolo degli anziani (e non solo) che, alla chiusura dei mercati, s'affannano alla ricerca degli avanzi e delle cibarie cadute dai banchetti rovistando e contendendosi simili leccornie con piccioni e scarafaggi?
Niente di tutto questo.
"La città" (nel senso: le sue "istituzioni") può andare orgogliosa di aver revocato la cittadinanza onoraria ad un signore morto nel 1945.
Un signore che si chiamava Benito Mussolini.
Pare che, scartabellando tra gli archivi del Comune, qualche solerte e, vien da dire, "militante" impiegato abbia scoperto lo "scandalo" e, prontamente riferitolo a chi di dovere, ha dato il via ad un processo al morto, l'ennesimo, per imbastire la solita polemica di chi del piccolo cabotaggio "antifascista" ha fatto l'unico motivo rilevante e capace di attirare un po' d'attenzione.
E così è stato: in un clima "surriscaldato" -ci riferiscono le agenzie- si è votato per sbarazzarsi di quest'ingombrante cittadino onorario, diventato tale all'inizio del suo incarico di capo del Governo conferitogli dallo stesso esponente di Casa Savoia che, con ogni evidenza, ci teneva a tenerlo sotto controllo, timoroso delle sue tendenze socialiste e perciò "sovversive", facendolo sentire "di casa" anche in Piemonte (Mussolini ricevette poi anche il ben più prestigioso Collare dell'Annunziata, un'onorificenza regia che lo rendeva un parente acquisito del Re).
Inutile spendere parole per descrivere il livello infimo dei promotori di quest'improrogabile iniziativa, tanto la cittadinanza ne sentiva il bisogno … Mi limito ad osservare che mette lo sgomento pensare a dei pubblici "amministratori" che passano il loro tempo a discettare di banalità di questo calibro.
Ma "l'antifascismo" è una religione, forse la più potente o addirittura l'unica rimasta in Italia, che tutti devono ‘professare' per far carriera.
Ed in questo quadro deprimente, che dà il polso di quanto sia allineata anche la cosiddetta "cultura" (nessuna voce tra quelle di rilievo si è alzata per sottolineare l'assurdità di questo provvedimento, dato che una cittadinanza onoraria è stata data a tutti, cani e porci), ci si sono messi pure quelli che hanno preso la palla al balzo per protestare contro il mantenimento, a tutt'oggi, di "Corso Unione Sovietica", rinsaldando le lancette dell'orologio della storia ai fatti di settant'anni fa e alla "guerra civile" permanente che ne è derivata.
E -cosa più meschina ed opportunistica (ammesso che se ne rendano conto dall'alto del loro acume)- ignorando che esistono anche "Corso Stati Uniti" e "Corso Inghilterra" (oltre a "Corso Francia"), che sono, guarda un po', gli altri vincitori della Seconda guerra mondiale che per legge dovettero essere eternati, a futura memoria dei vinti, sulle targhe delle grandi vie di scorrimento delle principali città d'Italia.
L'ennesima occasione persa, quindi, per ribattere con qualche "argomento", da parte di chi, piuttosto, s'è rinforzato nel consueto anacronistico "anticomunismo", come se "l'antifascismo" fosse una sorta di dottrina ufficiale a causa di un qualche Soviet Supremo che ce l'impone e l'instilla nelle menti dei più.
Si potrebbe naturalmente andare avanti parecchio nel commentare questo fatto marginale ma fortemente simbolico, dimostrando come la "scoperta" fatta in qualche archivio non sia affatto tale; come il Fascismo a Torino abbia fatto "male" solo a certi ben identificabili "poteri" economico-finanziari poi tornati a spadroneggiare dopo la guerra; come gli italiani si dimostrino -in specie nella loro cosiddetta "classe dirigente"- degli scimuniti senza dignità e autentica "memoria" che pur di compiacere il padrone arrivano ad imbastire l'inimmaginabile.
E come vi fossero -ed è cosa risaputa e nient'affatto "strana"- fior di ebrei torinesi fieramente italiani e fascisti, come il banchiere Ettore Ovazza, che proprio nella prima capitale d'Italia dirigeva "La nostra bandiera", organo degli ebrei fascisti ed antisionisti.
Pensiamo che ciò basti e avanzi per affermare che anche questa volta la politica "italiana", compresa la sua dimensione locale, ha perso l'ennesima occasione evitare la solita la figura di m…. Una "m" che non è quella di Mussolini, ma anzi ben si addice ai miasmi che emanano da quelle "stanze del potere" che il Nostro avrebbe davvero fatto meglio a trasformare, finché ne era in tempo, nei famosi "bivacchi di manipoli" che certo a tutt'oggi renderebbero un servizio migliore alla Nazione rispetto a quello offerto da gente senza cervello né senso del ridicolo per come prende sul serio bagatelle del genere.
Forse, però, se lo stesso diretto interessato fosse stato presente alla scena surreale che -in mezzo a tanto accalorarsi- lo vedeva involontariamente protagonista, avrebbe commentato con un goliardico ma solenne «me ne frego!».
 
Enrico Galoppini        

mercoledì 16 aprile 2014

ANNIVERSARIO


ANNIVERSARIO

Ancora una volta si sta avvicinando la data del 25 Aprile e, come al solito, le “istituzioni” di questa miserabile repubblica si affanneranno a celebrare, a commemorare, ad esaltare quello che avvenne nel 1945.
Noi non vogliamo qui ribadire quanto abbiamo già detto, scritto e letto in passato circa quella data funesta tanto è ben chiaro nella nostra e nelle vostre menti quale sia la verità vera, oggettiva, storica e non inventata da avversari indegni e spesso voltagabbana dell’ultimo minuto.
Certamente nei nostri cuori ricordiamo che senza l’aiuto dei cinque più potenti eserciti del mondo e senza la potenza economica ed industriale governata dal sionismo mondiale, la resistenza italiana non avrebbe potuto mai abbattere il Fascismo e che affermare, come viene fatto ogni anno che il merito sia da attribuire ai partigiani è una infantile forma di millantato credito ed una gigantesca menzogna.
Certamente, nei nostri cuori ricordiamo le ausiliarie stuprate, torturate ed assassinate, i nostri camerati massacrati dopo che gli si era promessa la vita per farli arrendere, lo sterminio programmato e premeditato dei fascisti o presunti tali che si prolungò sino al 1947, ma non è di questo in particolare che oggi vogliamo parlare, ma delle conseguenze che la sconfitta dell’Asse ha portato all’Italia ed al mondo per dimostrare che il festeggiare ancora il 25 Aprile è, non solo un anacronismo, ma una bestemmia.!
Il vero significato della sconfitta dell’Asse è stato quello che l’oro ha vinto contro il sangue e che il materialismo che dell’oro è figlio ha da allora imperato in tutte le manifestazioni della società trasformando in negativo ogni aspetto della vita di tutti noi.
Questa è d’altronde l’unica giustificazione al fatto che il capitalismo USA si fosse alleato con il Bolscevismo Russo nonostante l’antitesi esistente tra di loro, perché ciò che li univa, più dei contrasti, era la concezione profondamente materialista che li poneva contro la concezione spiritualistica del Fascismo e del Nazismo.
Il Fascismo aveva inventato e realizzato un modo di concepire lo stato e la società che risolveva i contrasti sociali e poneva l’uomo e non il denaro al centro della gestione del potere.
Questa novità aveva mostrato al mondo che il re del materialismo era nudo e che le tesi del capitalismo e del comunismo erano false e moribonde e ciò costituiva per esse un  pericolo mortale che andava eliminato ad ogni costo, pena la propria distruzione.
Questa è la verità vera e non tutte le ciarle che la storiografia ufficiale sta propalando sui media e nella scuola perché, come sempre, la storia la scrivono i vincitori falsando a proprio comodo la verità..!
Per il capitalismo mondiale, facente in larga misura capo al sionismo, le nuove ed innovative idee mettevano in pericolo il concetto del massimo profitto ottenuto tramite lo sfruttamento estremizzato dei lavoratori.
Per il comunismo erano la prova sperimentata che la sua concezione egualitaria che rendeva la società simile ad un formicaio e depotenziava la personalità individuale erano fallimentari, improponibili e stupide.
Questi i veri motivi della guerra scatenata a livello mondiale.
Il tentativo di ottenere la sopravvivenza di un mondo che è comunque destinato ad autodistruggersi così come è già avvenuto per il comunismo, imploso a causa delle sue contraddizioni interne e come sta avvenendo per il capitalismo per le stesse ragioni!
Il seme delle nostre idee è comunque gettato nella storia ed è destinato a germogliare nuovamente perché è nella logica delle cose e perché è l’unica soluzione ai problemi della società moderna..!
Lasciamo che i soliti guitti della politica festeggino il 25 Aprile.
Noi guardiamo al futuro certi della riscossa.
Loro sono il passato marcescente!
Noi siamo il futuro ..!!!

Alessandro Mezzano
                                                                                                                                           

martedì 15 aprile 2014

LEGIONE AUTONOMA MOBILE "ETTORE MUTI"








La Legione autonoma mobile Ettore Muti fu un corpo militare della Repubblica Sociale Italiana , composto principalmente da elementi del fascismo milanese, integrati da volontari della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che principalmente nella provincia di Milano e nel cuneese fra il 18 marzo 1944 ed il 27 aprile 1945.

Il reparto fu intitolato a Ettore Muti, pluridecorato della prima guerra mondiale, della guerra civile spagnola e della seconda guerra mondiale, assassinato nel 1943.

La Squadra d'azione "Ettore Muti"
L'11 settembre 1943, con la consegna da parte del generale Vittorio Ruggero, Milano venne occupata dalla Prima Divisione Granatieri Corazzati Leibstandarte "Adolf Hitler" della Waffen SS. Pochi giorni dopo, il 18 settembre 1943, fu costituita ufficialmente la "Squadra d'Azione Ettore Muti" inglobando altre quattro squadre formatesi precedentemente sotto il comando dell'ex squadrista Francesco Colombo. Le prime reclute furono arruolate tra fascisti di provata fede.
Quando Aldo Resega lo incontrò per la prima volta dopo la costituzione della RSI gli contestò la presenza all'interno della propria squadra di alcuni elementi di dubbia moralità e gli chiese di operare una selezione, Colombo gli rispose:
« Quando Garibaldi partì da Quarto per andare a liberare l'Italia non chiese ai suoi garibaldini di presentare all'imbarco sul Rubattino il 
certificato penale...Eppure fece l'Italia! Io, che tu definisci un balordo, con i miei balordi, farò piazza pulita dai traditori, dai gerarchi vigliacchi, dall'antifascismo...Li hai visti i gerarconi di allora aderire al nuovo fascismo repubblicano? No!... quelli non ci sono più: hanno tradito! Ma ci siamo noi ora, stà tranquillo, Resega, che ce la faremo! Tutti i giorni ci ammazzano e tu vuoi che si faccia la fine del topo? Quali forze abbiamo che facciano rispettare le nostre vite, le nostre famiglie e le nostre case? Ora provvederà lo squadrismo milanese! »
(Francesco Colombo rispondendo alle obiezioni del federale Aldo Resega)
Questa presa di posizione determinò la nascita di due distinte correnti nella città di Milano: quella "moderata", che faceva capo allo stesso federale Aldo Resega e poi a Vincenzo Costa e sostanzialmente alla maggioranza degli iscritti al Partito Fascista Repubblicano, e quella estremista, capeggiata dal comandante della "Muti" Francesco Colombo.
Le squadre si dispiegarono inizialmente in difesa delle sedi di partito che poco alla volta venivano riaperte. La prima azione compiuta dagli uomini di Colombo fu l'arresto di alcune persone che avevano favorito l'evasione di un imprecisato numero di prigionieri di guerra inglesi, e alcuni giorni dopo l'arresto di un borsanerista. A quest'ultimo fu sequestrato circa un quintale di riso che fu poi distribuito alla popolazione. Le uccisioni di fascisti isolati, effettuati dai GAP, come quell'industriale Gerolamo Crivelli il 25 novembre e dello squadrista Primiero Lamperti il 9 dicembre, acuirono i contrasti.

I contrasti col Federale di Milano Aldo Resega
L'11 dicembre 1943, il direttorio del Partito Fascista Repubblicano, presieduto dal federale di Milano Aldo Resega, decise di epurare gli elementi più riottosi (di cui si decise di stendere un elenco) e di inquadrare poi gli altri elementi nelle fila della GNR.
Il 16 dicembre, come testimoniato dal vice federale Vincenzo Costa, si approvò nel corso di una riunione del PFR lo scioglimento della Squadra d'Azione:
« Resega aveva presentato un elenco di elementi dal passato turbolento, già espulsi dal vecchio partito e tra quelli da eliminare dalla vita politica del nuovo partito erano nomi noti, tra i quali Alemagna, vice comandante della squadra Muti, e l'avvocato Mistretta. Anche il capo della squadra politica aveva redatto un simile elenco che in qualche caso coincideva con quello di Resega. Lo scioglimento delle squadre d'azione avrebbe provocato certamente la ribellione di alcuni loro componenti, che avrebbero visto nei provvedimenti un cedimento che lasciava campo libero agli antifascisti; il questore Coglitore assicurò al ministro degli Interni che l'arresto dei designati all'epurazione sarebbe avvenuto da mezzanotte all'alba del 19 dicembre con un'operazione simultanea. »
(Vincenzo Costa nel suo diario in data 16 dicembre 1943)

Le uccisioni commesse dai GAP, di Piero de Angeli la sera stessa e la mattina dopo dello stesso federale Aldo Resega, fecero tuttavia prevalere momentaneamente la fazione di Colombo e della sua Squadra che portò a capo della federazione milanese Dante Boattini. Il questore Domenico Coglitore, che si era dimesso in seguito all'omicidio di Aldo Resega, fu sostituito con il colonnello Camillo Santamaria Nicolini. Il nuovo federale Boattini decise di non procedere più allo scioglimento della "Muti".



Battaglione Ausiliario della GNR
Nel periodo seguente la Squadra Muti assunse la denominazione di "Battaglione Ausiliario della GNR" anche se in realtà continuò a rimanere autonoma rispetto alla Guardia Nazionale Repubblicana.
La Muti fu impiegata nel corso degli scioperi iniziati il 1º marzo 1944 per ripristinare i servizi essenziali, in particolare conducendo i tram cittadini al posto dei tranvieri.
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti

Nasce la Legione
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti nacque ufficialmente il 18 marzo 1944:
« E' costituita con sede a Milano, la Legione Autonoma Mobile "Ettore Muti", che riassume nei suoi battaglioni permanenti e di riserva, i componenti delle ex squadre d'azione. La legione conserva e potenzia nelle sue formazioni lo spirito volontaristico e il mistico sentimento del sacrificio dello squadrismo, consacrato nelle lotte contro le forze del disordine e su tutti i fronti di guerra. »
(Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 16 marzo 1944)
Fu posta alla dipendenza del Ministero degli Interni e, essendo un reparto militare, ebbe la qualifica di "Forza armata di Polizia". Francesco Colombo ne divenne comandante e fu nominato questore dal Ministro degli Interni, grado corrispondente nell'esercito al grado di colonnello.
Il comando della legione

I comandanti furono:

Francesco Colombo, detto Franco: Comandante. Ex squadrista, fondatore nel 1943 della squadra d'azione Ettore Muti da cui, fusa con altre squadre d'azione, si sviluppò l'intera Legione "Muti".
Ampelio Spadoni: vicecomandante. Nato nel 1906, volontario in Etiopia nel 1936 con una Divisione di Camicie Nere, imprenditore ad Asmara e di nuovo combattente nella guerra di Grecia tra il 1941 ed il 1942. Fu promosso tenente colonnello da Colombo in quanto considerato la "vera anima militare del gruppo". Si occupò in particolare di coordinare tutti i reparti dislocati in Piemonte.
Luciano Folli: vicecomandante.
Gastone Gorrieri: responsabile ufficio stampa. Giornalista, nato in provincia di Grosseto nel 1894, curò la pubblicazione "Siam fatti così!".
La Legione Autonoma Mobile Ettore Muti fu suddivisa in due battaglioni permanenti intitolati a due dei caduti del dicembre precedente uccisi per strada dai gappisti, il pilota Piero de Angeli e l'ex federale Aldo Resega. I volontari della Muti assunsero l'appellativo di "Arditi della Muti":
il 1º Battaglione “Aldo Resega” di città, di stanza in Milano e operante in tutta la provincia, composto da 1.500 arditi.
il 2º Battaglione “De Angeli” di campagna, dislocato in Piemonte e nel piacentino, composto da circa 800 arditi.
La Compagnia speciale "Baragiotta"
A questi si affiancarono altri sette battaglioni "ausiliari" di limitata entità.
Nel luglio 1944 assunse la nuova denominazione di "Legione Autonoma di Polizia Ettore Muti" e fu posta sotto il comando del capo della provincia Piero Parini. I battaglioni "ausiliari" furono sciolti e ricostituiti in compagnie di circa cento uomini ciascuna. Fu costituito inoltre il Battaglione di riserva "Luigi Russo".
In Piemonte
Tra il 18 e il 23 marzo il 1º Battaglione “Aldo Resega”, il 2º Battaglione “De Angeli” e la Compagnia speciale "Baragiotta" furono dislocati nel cuneese di presidio ai piccoli centri. Qui si scontrarono principalmente con le formazioni partigiane. Tra il 25 marzo e il 2 aprile si svolse l'operazione Wien per contrastare le formazioni partigiane. Il 5 aprile morì in seguito alle ferite riportate l'ardito Luigi Russo, il primo caduto della Legione. Il 12 aprile si svolse l'operazione Stuttgart. Il 28 maggio partì l'operazione Hamburg, che si concluse il 3 giugno.
In seguito alla ristrutturazione della Legione "Muti", avvenuta nel luglio 1944, l'"Aldo Resega" fu sciolto e i reparti ricostituiti in compagnie. Queste, unitamente a una compagnia del Piero De Angeli, furono riuniti in un unico battaglione, il "Cuneo". A fine giugno anche il battaglione "Cuneo" rientrò a Milano ove fu sciolto. I presidi nella provincia di Cuneo e nell'astigiano furono rilevati dalla Compagnia "Savino" e dalla Compagnia "Figini", in seguito rinforzate da altre Compagnie. Il 30 agosto si concluse il ciclo operativo dalla Legione Autonoma Mobile Ettore Muti nel basso Piemonte e tutte le compagnie rientrarono a Milano (Compagnia "Domenico Savino", Compagnia "Umberto Bardelli", Compagnia "Plinio Figini", Compagnia "Francesco Tedeschi" e Compagnia "Gaetano Ferrara").
Il 10 settembre 1944 iniziò un nuovo ciclo operativo che interessò la Valsesia. Furono inizialmente dislocate le Compagnie "Domenico Savino", "Plinio Figini" e "Francesco Tedeschi". Qui si scontrarono principalmente con le formazioni comuniste. Le compagnie dislocate in Valsesia presero parte all'operazione Hockland che cominciò il 25 febbraio 1945. Nel corso delle operazioni fu scoperta una importante stazione radio e fu intercettato un grosso rifornimento di armi che aerei alleati avevano destinato alle formazioni partigiane. Il 16 marzo una reazione partigiana su larga scala pose in difficoltà le varie compagnie dislocate nel comprensorio tanto che il presidio di Romagnano Sesia fu costretto alla resa mentre il presidio di Borgosesia fu duramente stretto d'assedio.
Il 24 aprile tutte le Compagnie in Valsesia puntarono su Novara dove si unirono a quelle già in città. Il 25 aprile i reparti ancora in Piemonte, al comando del Tenente Colonnello Ampelio Spadoni, rientrarono a Milano. Mentre transitava nel centro della città, la colonna fu attaccata e bloccata dai partigiani. Il comandante Spadoni, nel tentativo di trattare la resa per tutto il raggruppamento con rappresentanti del CLN, fu separato dal resto dei suoi uomini e preso prigioniero dai partigiani. La truppa, privata del comandante, si arrese diverse ore dopo.
Il 1º battaglione città "Aldo Resega", poi Battaglione "Cuneo"
Il 1º battaglione "Aldo Resega" prese il nome dal federale del Partito Fascista Repubblicano che venne assassinato il 16 dicembre dai gappisti.
Il 23 marzo 1944 il Battaglione, al comando del maggiore Alessandro Bongi, si trasferì a Limone Piemonte. Si trasferirono a Cuneo anche il comandante Colombo e il vice Spadoni che stabilirono il comando a Cuneo. Presidi furono creati nei paesi dei dintorni.
Il 13 aprile 1944 i partigiani uccisero presso Borgo San Dalmazzo l'ardito Enrico Maggi e il meccanico Rinaldo Savi, rimasti in panne col proprio mezzo, e catturarono Ignazio Pagani, ardito di quattordici anni. Il giorno dopo furono effettuati rastrellamenti nell'area e in seguito anche nella zona di Entracque. Il 29 aprile, sempre ad Entracque fu ucciso dai partigiani il segretario del Fascio, seguirono rastrellamenti guidati da Spadoni. Il 17 aprile, a Demonte, dopo essere stato catturato dai partigiani, fu ucciso il diciottenne ardito della "Muti" Domenico Savino, cui sarà intitolata la 2ª Compagnia speciale.
Il 2 giugno i presidi di Ceva e Lesegno furono attaccati dalle formazioni partigiane. Il presidio di Ceva respinse l'attacco mentre il presidio di Lesegno dovette arroccarsi nel castello della città da cui partigiani non riuscirono a snidarli. Considerato troppo esposto il 7 giugno fu abbandonato il presidio di Ormea e gli arditi della "Muti" si trasferirono a Ceva. L'11 giugno i partigiani occuparono nuovamente Lesegno e uccisero alcuni civili iscritti al Partito Fascista Repubblicano. Fortemente ridotto negli effettivi il 21 giugno fu abbandonato anche il presidio di Ceva e tutti i reparti ripiegarono su Cuneo.

Alla fine di giugno il 1º battaglione "Aldo Resega" assunse la nuova denominazione di Battaglione "Cuneo" e incorporò una compagnia già facente parte del 2º Battaglione "Piero De Angeli" che era stata lasciata di presidio a Ceva. Il nuovo 

battaglione fu posto sotto il comando del maggiore Alessandro Bongi. Pochi giorni più tardi cominciò il rientro a Milano di tutti i reparti dislocati nella Provincia di Cuneo e furono sostituiti dalla Compagnia "Savino" e dalla Compagnia "Figini".

Il 2º battaglione provincia "Piero De Angeli"
Il 2º battaglione "Piero De Angeli" prese il nome da un pilota collaudatore dell'Aeronautica Nazionale Repubblicana che venne assassinato, poche ore prima del federale di Milano Aldo Resega, sulla porta della sua casa di Cusano Milanino il 16 dicembre 1943 a causa della sua fede fascista.
Il 20 marzo 1944 il Battaglione "Piero De Angeli", forte di circa 800 effettivi, al comando del maggiore Luciano Folli, partì per il Piemonte e si acquartierò a Cuneo nella ex sede della GIL.
Il 5 aprile, nell'ospedale della città, morì l'ardito Luigi Russo, gravemente ferito due giorni prima in un'imboscata presso Demonte: è il primo caduto della Muti. Il 1º maggio furono costituiti presidi anche a Ormea, Ceva e Lesegno. Ai primi di giugno i presidi di Lesegno e di Ormea furono rilevati dal 1º Battaglione "Aldo Resega" mentre Ormea viene abbandonata.
Tra il 28 maggio e il 3 giugno il 2º battaglione provincia "Piero De Angeli", ad eccezione della compagnia di presidio a Ceva, partecipò all'operazione "Hamburg" che contemplava rastrellamenti nel Vercellese. Una colonna di arditi della "Muti", attaccata dai partigiani subisce perdite. Cadono il sergente Plinio Figini e sei arditi. La colonna fu costretta a riparare in un'abitazione a Sellaret dove fu stretta d'assedio finché non ricevette soccorso da reparti germanici. Al termine delle operazioni il "De Angeli" rimase a presidiare il Canavese e il Biellese.
Alla fine di giugno il Battaglione fece ritorno a Milano dove fu sciolto, tranne la compagnia dislocata nelle Langhe che unita al Battaglione "Aldo Resega" costituì il Battaglione "Cuneo".
Compagnia "Domenico Savino"
Ai primi di luglio la neo costituita Compagnia "Domenico Savino", al comando del capitano Osvaldo Esposito, si attestò nel presidio di Canelli nell'astigiano. Già il 3 luglio 1944 la compagnia fu impiegata nei
primi rastrellamenti nell'area circostante. L'8 luglio fu inoltre costituito un presidio presso il viadotto ferroviario di Villafranca d'Asti. Il 14 luglio la vettura del capitano Esposito fu fatta oggetto di un attacco partigiano. Nel corso della sparatoria cadde un partigiano mentre fu ferito lievemente il capitano Esposito.
Il 18 luglio la Compagnia "Savino" fu rinforzata dalla Compagnia "Plinio Figini" e il 28 luglio rientrò brevemente a Milano per rientrare in zona d'operazione 5 agosto.
Il 10 settembre 1944 la Compagnia iniziò un nuovo ciclo operativo che interessò la Valsesia. Il 2 ottobre, dopo essere stato preso prigioniero dai partigiani fu ucciso il tenente Curzio Casalecchi che fu, dal governo della RSI, decorato con la medaglia d'argento alla memoria. Il 25 febbraio 1945 la Compagnia prese parte all'operazione Hockland, poi si dislocò a Borgosesia. Quando si scatenò l'offensiva partigiana la Compagnia "Domenico Savino", unitamente alla Compagnia "Francesco Tedeschi" fu cinta d'assedio. Nell'assedio cadde il comandante della Compagnia Amadio Martinelli e un altro ardito. L'assedio fu rotto da un nucleo di dieci arditi della "Bardelli" che al comando del sergente Vitali, rimasti isolati dal proprio reparto per l'attacco improvviso, si diressero presso il comando a Borgosesia su di un blindato a cercare informazioni. Giunti nel paese si trovarono casualmente alle spalle dei partigiani intenti ad attaccare riuscendo così a disperderli.
Il 24 aprile la Valsesia fu abbandonata e la Compagnia si unì a tutte le altre raggiungendo Novara.
Compagnia "Plinio Figini"
Il 3 luglio 1944 la neo costituita Compagnia "Plinio Figini", al comando del capitano Primo Galeazzi rinforza la Compagnia "Domenico Savino".
Il 23 luglio la compagnia, nei pressi di Villafranca d'Asti, fu sorpresa da un bombardamento Alleato. La Compagnia riportò sei caduti, numerosi feriti e la perdita di alcuni automezzi; pertanto il 28 luglio rientrò a Milano.
Il 10 settembre 1944 la Compagnia iniziò un nuovo ciclo operativo che interessò la Valsesia. Il 25 febbraio 1945 la Compagnia prese parte all'operazione Hockland, poi si dislocò a Varallo Sesia.
Il 24 aprile la Valsesia fu abbandonata e la Compagnia si unì a tutte le altre raggiungendo Novara.
Compagnia "Francesco Tedeschi"
Il 25 febbraio 1945 la Compagnia prese parte all'operazione Hockland, poi si dislocò a Borgosesia. Quando si scatenò l'offensiva partigiana la Compagnia "Francesco Tedeschi", unitamente alla Compagnia "Domenico Savino" fu cinta d'assedio.
Il 24 aprile la Valsesia fu abbandonata e la Compagnia si unì a tutte le altre raggiungendo Novara.
Compagnia "Bardelli-Bardi"
Il 22 luglio 1944 la neo costituita Compagnia "Bardelli", al comando del capitano Schieppati sostituisce la Compagnia "Tedeschi" nel presidio di Alba. Due giorni dopo un rastrellamento nei pressi di Alba portò ad un abboccamento con le formazioni partigiane. Il 26 luglio la Compagnia intercettò una formazione partigiana infliggendo diciassette perdite e il 15 agosto altre sette. Il 13 agosto furono catturati diversi partigiani. Altri nove partigiani caddero nel corso di un ennesimo rastrellamento a Bene Vagienna il 30 agosto. Nel novembre parte della compagnia prese parte alle operazioni che portarono allo smantellamento della repubblica partigiana proclamata ad Alba.
Il 3 gennaio 1945, a Grignasco, dopo essere stato preso prigioniero dai partigiani, fu ucciso il tenente Leo Bardi che, dal governo della RSI, fu decorato alla memoria con la Medaglia d'oro al valor militare. In suo onore la compagnia assunse il doppio nome di Compagnia "Bardelli-Bardi".
Il 25 febbraio 1945 la Compagnia prese parte all'operazione Hockland, poi si dislocò a Coggiola. Quando si scatenò l'offensiva partigiana i quindici arditi di presidio si trovavano in perlustrazione e riuscirono a ricongiungersi con il presidio di Romagnano Sesia tenuto dai paracadutisti della "Mazzarini". Qui furono stretti d'assedio dalle formazioni partigiane. Si trattò quindi la resa e alle formazioni fasciste fu permesso, disarmati, di ricongiungersi con le proprie truppe. Il presidio di Romagnano fu abbandonato definitivamente. Il 24 aprile la Valsesia fu abbandonata e la Compagnia si unì a tutte le altre raggiungendo Novara.
Compagnia Speciale "Baragiotta-Salines"
La Compagnia Speciale "Baragiotta", intitolata al brigadiere Celestino Baragiotta della Guardia Nazionale Repubblicana caduto il 23 dicembre 1943 a Pray nel biellese, fu costituita in marzo, al comando del maggiore Italo Salines. La compagnia fu anch'essa destinata al Piemonte e costituì presidi a Caraglio e a Piozzo. Salines fu ucciso a Carrù durante uno scontro a fuoco coi partigiani il 15 giugno 1944. Salines fu insignito dal governo della RSI della medaglia d'argento alla memoria e in suo onore la compagnia assunse il doppio nome di Compagnia Speciale "Baragiotta-Salines".
Ad agosto la Compagnia Speciale "Baragiotta-Salines" fu impiegata a Cortemaggiore e in altre località del piacentino. Il 14 agosto la Compagnia partecipò a un rastrellamento in provincia di Pavia a Varzi appoggiata dalla Compagnia mezzi pesanti "Pietro Del Buffa". Le due Compagnie sono direttamente comandate dal comandante Francesco Colombo. Il rastrellamento in località Pietra Gavina incontrò una forte resistenza che immobilizzò momentaneamente la colonna. Impossibilitata a proseguire la colonna ripiegò su Varzi. Il 16 agosto l'operazione fu sospesa e la Compagnia rientrò a Piacenza. Il 12 settembre la "Baragiotta-Salines" concluse il proprio ciclo operativo e rientrò a Milano.

In seguito all'uccisione del nuovo capo della provincia di Torino Raffaele Manganiello e della sua scorta, il 18 settembre 1944 lungo l'autostrada Torino-Milano la compagnia fu inviata a presidiare l'intera autostrada costituendo presidi nei vari caselli autostradali. Il 24 ottobre, al casello autostradale di Rondissone fu ucciso il sergente Arrigo Varvelli.

Il 15 novembre 1944 la Compagnia prese parte all'operazione "Koblenz" che terminò a metà dicembre e interessò la provincia di Vercelli e di Asti.
Nel 1945 la compagnia si attestò in Valsesia. Il 25 febbraio 1945 la Compagnia prese parte all'operazione Hockland e il 16 marzo, si attestò a Crevacuore. Il 23 aprile 1945 la compagnia rientrò a Milano. La fine della guerra la sorprese a Cernobbio in Lombardia. L'ultimo caduto della compagnia fu l'ardito Gustavo Labò fucilato a Varallo Sesia il 19 maggio.
Impiegata in tutti i teatri di operazione, fu considerata "l'unità di punta" della Legione "Ettore Muti".
A Milano e provincia
A Milano la Muti era acquartierata in cinque caserme, la caserma del comando era in Via Rovello, nei locali del dopolavoro del comune di Milano. In quella struttura vennero organizzati tutti i servizi (fureria, armeria, autorimessa, ecc). Presso la caserma della Legione di via Rovello, fu creato un magazzino per la distribuzione di alimenti e vestiario da cui potevano attingere le famiglie più povere. In provincia le caserme di rilievo furono quelle di Monza, Melzo e Cornaredo. Il compito principale della Legione Muti a Milano era quello di garantire alcuni servizi essenziali e preservare l'ordine pubblico (a questo fine furono attuate spesso operazioni di polizia).
Il 27 agosto fu fucilato il partigiano Giuseppe Pozzi sorpreso con indosso una divisa della Legione "Muti".
Il 15 ottobre 1944 gli arditi della "Muti" parteciparono ai soccorsi in seguito al bombardamento del quartiere milanese di Gorla che causò una strage in una scuola.
Il 17 dicembre 1944 Mussolini, in visita a Milano, si recò al comando della Legione "Muti" in via Rovello dove rese omaggio alla lapide con tutti i nomi dei caduti della Legione. Poi, da un balcone della stessa, tenne un breve discorso ai legionari e alla popolazione accorsa:
« Ognumo di voi deve sentirsi un soldato e fare sua questa consegna: tutto e tutti per l'Italia. »
(Benito Mussolini dal discorso del 17 dicembre 1944 presso la caserma della Legione Muti di via Rovello)
Il 4 febbraio 1945 un attentato nella mensa del "Leon d'oro" provocò la morte di alcuni militi tedeschi e fascisti di cui due arditi della "Muti". Nello scoppio trovarono la morte anche i cinque partigiani che, con imperizia, avevano innescato la bomba.
Il 15 marzo 1945 la Legione "Ettore Muti" fu decorata con la Croce di guerra al valor militare.
Il 25 aprile 1945 parte dei legionari della "Muti" scortarono Mussolini fino a Como. Colombo, dopo aver inutilmente atteso i reparti provenienti dal Piemonte, partì per Como il 26 aprile con i circa 200 legionari rimasti ancora a Milano ricongiungendosi con la colonna. Avendo perso Mussolini, nel frattempo ripartito per Menaggio, la colonna fascista stipulò un accordo con il CLN per avere libero transito, ma il mattino del 27 aprile, contravvenendo agli accordi, i partigiani bloccarono la strada presso Cernobbio intimando la resa. I reparti fascisti si arresero e si sciolsero. Anche Colombo si risolse a sciogliere i reparti della "Muti":
« Ragazzi, è finita. Abbiamo tenuto duro fino in fondo. Ci siamo battuti, duramente, perché nessuno pensasse che la nostra sconfitta fosse dovuta a viltà; perché l'onore è necessario ad un popolo per sopravvivere; perché l'Italia riprendesse quel posto segnato da millenni di storia. Ma ora ho il dovere di impedire inutili spargimenti di sangue. Mi hanno assicurato che quelli che non si sono macchiati di gravi reati saranno lasciati liber. Questo è il momento più brutto della nostra vita, ma dobbiamo sopravvivere. Per il domani, una volta raggiunta la pace, vi sono speranze. Forse molte più di quanto non immaginiamo. E' necessario riaffermare il valore sacro dei nostri principi, i principi del Fascismo. Dovremo denunciare i futuri falsificatori della Storia, indicandoli come dei servili mercanti. La storia della nostra Legione è stata breve ma intensa. Non disperdiamone il seme. »
(Francesco Colombo scioglie i reparti della "Muti" giunti fino a Como)
Battaglione di riserva "Luigi Russo"
Il Battaglione di riserva "Luigi Russo" fu costituito il 1º luglio 1944 e, intitolato all'ardito Luigi Russo, fu posto al comando del capitano Carlo Bonomi. In luglio, a seguito allo scioglimento di tutti i battaglioni "ausiliari" in esso confluirono tutti gli arditi che non intendevano smobilitare in attesa di essere destinati ad una compagnia operativa. Si occupò dell'ordine pubblico a Milano creando presidi stradali.
Compagnia presidiaria "Roberto Muzzana"
La Compagnia presidiaria "Roberto Muzzana" fu costituita 1º luglio 1944 e posta al comando del capitano Pasquale Cardella. Si occupò prevalentemente dell'ordine pubblico a Milano e della scorta ai mezzi di trasporto con i generi alimentari.
Il 15 novembre 1944 aliquote della Compagnia, insieme a elementi della Baragiotta, presero parte all'operazione di rastrellamento, "Koblenz", che terminò a metà dicembre e interessò la provincia di Vercelli e di Asti. Gli uomini della Legione vennero inquadrati nel I° Bataillon/SS-Polizei-Regiment 15, sotto diretto comando tedesco.
Compagnia "Alfiero Feltrinelli"
Costituita il 18 luglio 1944 per inquadrare i giovanissimi volontari (tra i 15 e i 17 anni) non prese parte a nessun combattimento e si sciolse il 30 ottobre 1944.
Reparti "Ricostruzione e Rinascita"
L'iniziativa di creare i nuovi reparti ottenne l'avvallo dell'arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster che vi distaccò due suoi emissari Monsignor Corbella e Monsignor Bicchierai che entrarono a far parte del direttorio.
Compagnia mezzi pesanti "Pietro Del Buffa"
Il 2 luglio 1944, venne istituita una nuova compagnia di supporto: quella motorizzata, che doveva coordinare i mezzi utilizzati, data in comando al tenente Bonacina. Il 29 luglio veniva creato un plotone di mezzi pesanti agli ordini del capitano Bonomi.
L'8 agosto nasceva ufficialmente la Compagnia mezzi pesanti "Pietro Del Buffa", che incorporava tutte le precedenti ed aveva il compito di fungere da unità di supporto d'attacco. Infatti non operò mai autonomamente.
Il 14 agosto una parte della nuova compagnia venne inviata a Varzi dove dovevano contrastare i partigiani del luogo insieme alla Compagnia Speciale "Baragiotta-Salines". Nel febbraio 1945 furono aggiunte altre 3 nuove compagnie a quelle esistenti: mortai, mitragliere e pezzi d'artiglieria di vario calibro.
Ufficio di polizia politica
Alla guida dell'ufficio politico, locato nella caserma di via Rovello, fu nominato il maggiore Alceste Porcelli. L'ufficio politico condusse una dura lotta contro la criminalità comune e contro il fenomeno partigiano nella città
Si occupavano invece di effettuare i fermi i membri della squadra mobile guidati dal capitano Arnaldo Asti.
L'8 dicembre 1944 fu arrestato Giorgio Peyronel, importante leader del CVL. Le informazione date dall'ex capo del GAP Giuseppe Piantoni, catturato il 30 novembre, portarono all' uccisione, il 9 dicembre 1944, di Sergio Kasman, Capo di Stato Maggiore del Comando Piazza di Milano delle Squadre di Azione Patriottica nelle file di Giustizia e Libertà. Kasman, intercettato nel Duomo di Milano ove aveva un appuntamento con l'ex gappista si diede alla fuga ma fu raggiunto da un colpo di pistola. Piantoni oltre a rivelare numerose informazioni diede appuntamenti agli ex compagni di lotta in luoghi già concordati con l'ufficio politico della "Muti" provocando numerose catture.

Il 24 gennaio, in seguito ad una soffiata, la squadra mobile catturò i partigiani Dante Tarantino, Umberto Giaume, Maria Cantù, Arnaldo De Wolf e Angelo Finzi. Quattro furono fucilati nei giorni seguenti e i corpi abbandonati nella periferia milanese. Arnaldo De Wolf, ancora minorenne, fu graziato e in seguito si mise al servizio dell'Ufficio politico provocando la cattura di altri partigiani. Nella abitazione di Maria Cantù furono sequestrati circa due milioni di lire più 800.000 lire trovati addosso a Vito Finzi. Non fu mai chiarita la posizione di De Wolf, se fosse una spia o se avesse semplicemente accettato di collaborare.

Il 20 febbraio 1945 fu ucciso Giuseppe Romanò che, arruolatosi nella Legione aveva svolto opera di spionaggio per le Brigate Matteotti, aveva poi disertato. Il 24 febbraio furono catturati due ex arditi che, dopo aver disertato, rapinavano i negozianti di viale Abruzzi indossando la divisa della "Muti".
Il 2 marzo 1945 fu arrestato Giuseppe Canevari mentre affiggeva volantini antifascisti. Il 2 aprile furono arrestati tre gappisti in compagnia di tre ragazze all'interno dell'albergo Broletto. Due gappisti riuscirono comunque a liberarsi e a scappare, quello rimasto fu immediatamente passato per le armi.
Nell'autunno fu aperta anche una "sezione staccata" presso la caserma Salines guidata dal maggiore Celestino Cairella noto anche come Conte di Toledo.
Ufficio di polizia giudiziaria
Questo ufficio fu diretto da funzionario di Pubblica Sicurezza Ferdinando Pepe inviato direttamente dalla Questura di Milano. Ha come compito principale di mantenere i contatti con la Questura di Milano e di ufficializzare gli arresti.
I caduti della Legione
Secondo le più recenti ricerche il numero documentato dei caduti fra gli arditi della Legione è di 314. Di questi solo 161 al 26 aprile incluso, data in cui tutti i reparti si arresero e consegnarono le armi. I restanti furono sommariamente fucilati e spesso anche assassinati nelle convulse giornate che seguirono la caduta della Repubblica Sociale Italiana. Tra il 1946 e il 1949 furono assassinati dalla Volante Rossa quattro arditi (Bruno Sestini, Giuseppe Celpa, Igino Mortari e Felice Ghisalberti). Felice Ghisalberti, assassinato il 27 gennaio 1949 fu l'ultimo caduto della Legione.
Il processo del 1947 all'ufficio politico della "Muti"
Nel 1947 si svolse un processo che vide imputati quattordici reduci della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti. Quasi tutti appartenevano all'ufficio politico e alla squadra mobile oltre al vice-comandante Ampelio Spadoni. Poiché la Muti non era un corpo militare regolare, le azioni di polizia furono considerate come reati comuni. Le carcerazioni di partigiani furono considerate sequestri, le fucilazioni furono considerate come omicidi e i sequestri di beni come furti.
« Quando ieri mattina gli aguzzini della Muti sono entrati nella gabbia degli imputati, un grido si è levato dalla folla in attesa da alcune ore: "Assassini! A morte!". Ma gli assassini hanno rivolto uno sguardo sprezzante verso il pubblico, hanno alzato le spalle, qualcuno ha sorriso. »
(Articolo sull'Unità (organo ufficiale di stampa del Partito Comunista Italiano) il 25 marzo 1947)
Alceste Porcelli fu condannato a 30 anni di reclusione di cui 10 immediatamente condonati, mentre il vicecomandante Ampelio Spadoni a 24 anni di cui 8 immediatamente condonati. Entrambi ottennero infatti le attenuanti. Arnaldo Asti e altri due membri della squadra mobile furono condannati a morte, le condanna furono poi tramutate in ergastoli.

CUNEO I LEGIONARI DELLA MUTI A UNA MESSA DA CAMPO






MILANO APRILE 1945-PAVOLINI ACCOMPAGNA MUSSOLINI NELLA VISITA ALLA LEGIONE MUTI IN VIA ROVELLO