domenica 31 agosto 2014

BREVE STORIA DELLE AUSILIARIE DELLA R.S.I.


 

L'ALTRA METÀ DI SALÒ BREVE STORIA DELLE AUSILIARIE DELLA R.S.I.


Furono più di 6.000 le donne che si arruolarono volontarie nella Rsi dopo l'8 settembre, inquadrate nel Servizio Ausiliario Femminile. Le loro testimonianze aprono non solo uno squarcio su quei terribili mesi ma sono uno strumento di analisi delle scelte politiche e della cultura femminili

Dopo l'8 settembre del 1943 si era formato nell'Italia del Nord un esercito femminile di sei mila volontarie, che, in quel momento lacerante, aveva scelto di battersi per Mussolini ed a fianco dei Tedeschi (primo esempio nella storia italiana di volontarie inquadrate nelle forze armate). Le donne che, per motivi di legami stretti con il regime e l'ideologia fascista, aderirono, con incarichi di ausiliarie dell'esercito, alla Repubblica Sociale Italiana, propongono di osservare da un'ottica diversa e difficile quegli anni: le loro testimonianze sono uno strumento di analisi delle scelte politiche e della cultura femminili. Erano animate da amor di patria, spirito di avventura, desiderio di sfuggire ad un ruolo femminile predeterminato, voglia di competere con l'uomo, maschio dominante, specie nell'universo fascista. Le ausiliare, lasciate le famiglie, indossarono la divisa ed appuntarono orgogliose il gladio sul bavero della giacca per andare incontro ad un destino che sembrava già segnato: molte morirono combattendo, moltissime altre subirono sevizie materiali e morali da parte di soldati alleati e partigiani. 


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Nel libro dedicato alle donne soldato degli ultimi seicento giorni di Mussolini, Ulderico Munzi ha riportato un colloquio avuto con Edda Ciano che definì lo spirito che animava le ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana "Femminismo fascista" e spiegò quello che le donne fasciste provavano nell'intimo quando erano impegnate nella difesa della Rsi: ricerca di una maggiore identità."La Patria è donna": secondo la contessa, le ausiliarie fasciste superstiti consideravano il passato come un tesoro conquistato, appunto la patria, un momento di paradiso sociale e politico in cui si erano riconosciute ed in cui avevano scoperto al forza della loro femminilità. La Rsi aveva costituito la loro grande occasione. "L'innocenza, vista la giovane età, era una garanzia di credibilità. Erano portate dall'onda della storia, si erano abbandonate al mare in tempesta della guerra civile. Il loro vissuto era più intenso di quello dei soldati. Portavano la stessa divisa, lo stesso grigioverde, erano pronte a dare la vita e molte la dettero. Ma percepivano la straordinaria sensazione d'entrare nella storia come donne", concludeva Edda Ciano. Nel culmine della guerra e nel suo tragico epilogo le donne diventavano protagoniste, la storia del fascismo non apparteneva più soltanto ai maschi. Le componenti del Servizio Ausiliario Femminile (SAF) erano dunque "prodotti" del fascismo. "Gli uomini scappavano; la monarchia sabauda con gli stati maggiori tradivano, una nazione veniva pugnalata alle spalle insieme all'alleato in guerra. Arrossimmo di rabbia e vergogna nel vedere gli uomini spogliarsi delle divise e fuggire a casa. Un richiamo echeggiava in Italia: abbiamo famiglia. Noi eravamo pronte a imbracciare i loro moschetti. La nostra libertà era realizzata nell'Italia fascista": queste le principali motivazioni raccolte da Munzi nelle interviste alle ex repubblichine. 

Al contrario delle partigiane (35.000 in tutto), spinte ad andare a combattere dal rifiuto delle ingiustizie e dal desiderio di costruire una società nuova, le ausiliarie si arruolavano per fedeltà ad un regime che consideravano immutabile e per un amore viscerale nei confronti di Mussolini. Il Duce era una specie di idolo, un padre-amante insostituibile. Spesso appena adolescenti, le componenti del SAF si lasciarono in qualche modo rapire dalla tentazione di una nuova emancipazione ed abbracciarono la causa con una passione estrema. È in questa atmosfera di grandi decisioni che la donna italiana volle e riuscì ad inserire la propria collaborazione nella realtà della Repubblica Sociale. Con uno slancio di volontarismo femminile mai visto prima in Italia, le repubblichine, senza alcuna condizione, si donarono per riscattare il disonore e la viltà di chi aveva tradito il Fascismo e la Patria in guerra. Il mito di Mussolini e della sua personalità, crollato dopo il 25 luglio, aveva continuato a sopravvivere nell'animo di queste donne. Se da un lato esse furono rapite dal fascismo e dal suo Duce, dall'altra furono le prime in Italia ad essere inquadrate in un corpo militare che le scioglieva da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole, esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione che già prima di loro intere generazioni di molti paesi del mondo avevano richiesto e, in alcuni casi limitati, ottenuto. In un articolo pubblicato ne "La Stampa" del 13 gennaio 1944, firmato dal direttore Concetto Pettinato ed intitolato "Breve discorso alle donne d'Italia", così si dava impulso alla costituzione d'un corpo ausiliario femminile nelle fila dell'esercito repubblicano fascista: "Un battaglione di donne: e perché no? Il governo americano si è impegnato a gettare le nostre figlie e le nostre sorelle alla sconcia foia dei suoi soldati d'ogni pelle. Ebbene, perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne, ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile a tracolla?"

Il Servizio Ausiliario Femminile venne istituito con Decreto Ministeriale N. 447 del 18 aprile 1944. Mussolini ritenne importante la creazione di un corpo speciale come quello delle ausiliarie che, seppure non rispondeva alle necessità primarie e vitali della neonata repubblica, forse in qualche modo appagava quel senso del folklore e dell'esteriorità che aveva connotato il fascismo. L'iniziativa mussoliniana riscosse un grande successo: presentarono domanda di arruolamento nel SAF oltre seimila donne appartenenti ad ogni ceto sociale e provenienti da ogni parte dell'Italia, erano in tante ragazze quasi maggiorenni, molte spose, parecchie madri. Lo stipendio oscillava tra le 700 lire del personale di concetto e le 350 lire del personale di fatica. Al SAF ogni dipendente era soggetta alla giurisdizione penale militare. Si trattava in sostanza di tre gradi filoni: il Servizio Ausiliario Femminile, le Brigate Bere e la Decima Mas, nella quale ci si poteva 

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arruolare anche avendo solo quindici anni. La X Flottiglia Mas ebbe il SAF autonomo da quello per l'Esercito e per la Guardia Nazionale Repubblicana; fu inquadrato alle dipendenze del sottosegretario alla Marina da Guerra Repubblicana. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921) che, in precedenza al luglio 1943, si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista e, dopo l'armistizio, divenne funzionario del Ministero dell'Economia Corporativa, ma poco rassegnata a vivere tra le scartoffie d'ufficio la sua esperienza nella Repubblica Sociale. Personaggio romantico, Fede Arnaud Pocek rimase al comando fino al 26 aprile del 1945 (dopo la guerra diresse una società di doppiatori cinematografici di attori americani come Clark Gable, William Holden, Gary Cooper). Nella Caserma S. Bartolomeo di La Spezia, il SAF della Decima (1° marzo 1944) anticipò di cinquanta giorni l'istituzione legislativa del Servizio Ausiliario e, durante il periodo della Rsi, arruolò 250 volontarie, che seguirono, a loro volta, i Corsi autonomi di addestramento denominati Nettuno, Anzio e Fiumicino che si svolsero a Sulzano (Bs), Orandola (Co) e Col di Luna (vicino al Cansiglio) con perfezionamenti nell'educazione fisica, in contegno e morale, nelle norme igieniche, di regolamento e disciplina, sino alla severità di un codice d'impegno che non consentiva deroghe. Alcuni reparti di ausiliarie (tra cui Fulmine, Nuotatori-Paracadutisti, Sagittario, Valanga e Nembo) della Decima erano armati, come nel caso del Barbarigo. Un nucleo di ausiliarie ha combattuto accanto ai marò (fanteria di marina) del battaglione Lupo per contrastare a Nettuno l'avanzata delle truppe anglo-americane che erano sbarcate ad Anzio. 

Luciana Cera, Tenente di vascello (capo nucleo) della Decima, mai iscritta al Partito Fascista, ha narrato di essersi arruolata nelle formazioni del principe Borghese per ragioni diverse da quelle di molte altre donne di Salò: "Non volevo essere un verme tra i vermi. Se Vittorio Emanuele III fosse andato al Nord e Mussolini al Sud, avrei seguito il re. Il fascismo era solo l'acqua in cui nuotavo serenamente". Questa forte rispondenza da parte di tante giovani donne va spiegata come la reazione di una gioventù che si era sentita infangata dal tradimento del re Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio. Dello stesso avviso Fiamma Morini (Decima Mas): "L'Italia traboccava di viltà. La donna poteva essere un simbolo. Dai banchi al grigioverde fu un passo naturale. Capii che ormai si trattava di sacrificarsi per qualcosa che ci aveva sempre sostenuto. Perché dovevo rinnegare il fascismo? Avevo vissuto bene sotto le sue ali. Intendo dire che ho vissuto bene spiritualmente. Le mie amiche ed io volevamo prendere il posto degli uomini che scappavano spogliandosi delle divise. On è possibile che tutti se la squaglino. Noi ragazze eravamo felici di indossare una divisa che non era macchiata di vergogna". Ma ci fu altro. Dando alle donne la possibilità di arruolarsi, Mussolini offriva loro la sensazione di potere diventare protagoniste della storia che, da quel momento, non apparteneva più solamente agli uomini. Le armi diventavano quindi fattore di emancipazione capace di conferire quel potere che il fascismo riconosceva di diritto alle donne attraendole così a sé. Una di loro, Carla Saglietti di 17 anni, ha raccontato: "Avevo bisogno di agire, di buttarmi nell'azione. Mi dicevo: Ehi Carletta, gli Americani salgono sempre di più, ora sono sulla linea gotica, un giorno te li troverai davanti senza aver fatto niente per il tuo Benito Mussolini tradito da un re di merda. Ero proprio una ragazzina fascista. Cos'altro avrei potuto essere? Ero stata impastata di quella fede. Mio padre, mia madre, tutti fascisti. Gente in gamba i miei genitori". Questa citazione esprime bene sia la voglia di sentirsi protagonista di questa, ma anche delle altre ausiliarie, sia la venerazione che esse provavano nei confronti di Mussolini. Carla Saglietti faceva parte delle "Volpi Argentate". Era un servizio speciale di guastatori, sabotatori ed assaltatori. Il loro nome nacque dall'insegna che era posta all'ingresso del comando di reparto a Milano: Allevamento Volpi Argentate del Dottor De Santis (colonnello che comandava il servizio, vera identità Tommaso David). Uno dei loro compiti era quello d'individuare l'entità e le caratteristiche delle forze alleate, specie per quanto riguardava mezzi motorizzati e corazzati. 

Alle ausiliarie venivano, inoltre, affidate vere operazioni di sabotaggio. Molti uomini e donne di questo corpo vennero, alla fine della guerra, fucilati o condannati a morte. Ancora la Saglietti: "Nel corso di addestramento presso i Tedeschi mi mostravano filmati, m'istruivano sulle divise del nemico, sul tipo d'armamento, sui carri armati, mi allenavano agli interrogatori, a rispondere sulle false identità, mi spiegavano come si reagisce alla tortura ed alle altre sevizie e come si può tentare un'evasione". Le "Volpi Argentate" e gli altri reparti dove trovavano impiego le reclute obbedivano ad un regolamento ferreo. 

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Secondo il decreto firmato da Mussolini, i compiti delle ausiliarie (che dovevano essere italiane, ariane, di età fra i 18 ed i 45 anni) erano modesti: pulitrici e cuciniere, dattilografe, infermiere, telefoniste. Questo non toglieva che il loro addestramento e la loro disciplina fossero militarmente duri, quasi punitivi. C'era nei confronti di questo esercito femminile l'ossessione della moralità, ai limiti della bigotteria. Così la divisa, panno grezzo grigioverde per l'inverno, tela kaki per l'estate, doveva avere la gonna a quattro teli "quattro centimetri sotto il ginocchio". La giacca aveva il collo ad uomo e tue tasche alla sahariana. Il gladio era il simbolo a cui le ausiliarie erano più attaccate. In testa portavano un basco grigioverde con la fiamma ricavata in rosso. Le calze erano lunghe e grigioverdi, il cappotto di tipo militare. Era proibito fumare, mettersi il rossetto sia quando si era in divisa sia quando non la si portava, indossare i pantaloni; era inoltre d'obbligo il "voi" che Mussolini aveva istituito in luogo del "lei". Non era nemmeno previsto che le ausiliarie avessero le armi come le partigiane. Ed a render più tragica la loro avventura c'era la convinzione di essere poco considerate, perfino dalla propria parte. Il rispetto della disciplina era considerato fondamentale ed il generale di brigata Piera Gatteschi Fondelli, a cui era stato affidato il comando delle 6000 donne, aveva personalmente elaborato un regolamento comportamentale simile a quello che osservavano le suore di clausura. 
Al SAF vi erano anche il Maggiore Enrichetta Jori quale aiutante di campo; il vice comandante Colonnello Cesarla Pancheri; la guida dei Servizi Sanitari, Colonnello Wanda Crapis; di quelli Amministrativi, Colonnello Italia Corbelli - Gigli; dei Logistici, Colonnello Paola Viganò, mentre il servizio Propaganda e Stampa era diretto dal Maggiore Lucrezia Pollio. 

L'episodio delle ausiliarie della Repubblica Sociale ha sicuramente una sua dignità storica, ma è indubbiamente, oggi, di difficile comprensione. Una totale abnegazione alla causa caratterizzò il generale delle ausiliarie. Piera Gatteschi era una nobildonna severissima e elegantissima. Fu tra le fondatrici dei Fasci femminili nel 1921 e partecipò alla marcia su Roma. Dopo un periodo trascorso in Africa con il marito, la contessa tornò in Italia nel 1939 e ricevette dal Duce la nomina a fiduciaria delle 150.000 iscritte ai Fasci Femminili di Roma. Dopo la caduta del fascismo nel 1943 si diede alla latitanza e nel marzo del 1944 assunse il comando del SAF con il grado di generale di brigata (il capo partigiano Cino Moscatelli tentò variate volte di catturarla). Nel suo testamento politico scrive: "La mia vita non è stata facile, ma comunque dedicata tutta idealmente alla patria, al fascismo nel quale ho creduto fermamente per la sua alta concezione di vita, fatta di giustizia sociale e di onestà. Andare verso il popolo. [.] Ho vissuto il periodo più bello della nostra Patria. Il ventennio di Mussolini. Ebbi l'onore della Sua fiducia e credo di aver fatto fino in fondo il mio dovere nel ricoprire gli alti incarichi che mi furono affidati, servendo l'Italia con onestà e fervore". In questa nuova esperienza che le vedeva protagoniste della storia, non più solo appannaggio dell'uomo, le giovani ragazze non soffrivano la sottomissione ad un regolamento rigido cui la vita militare le obbligava. Tutte hanno testimoniato che l'onore dato dall'appartenenza al corpo era in grado di cancellare ogni difficoltà. Un'occhiata equivoca ad un camerata poteva costare la camera di punizione. Lo affermano le stesse ausiliarie, come un articolo di Maria Pavignano, pubblicato su "Sveglia" del 3 dicembre 1944: "Niente rossetti; niente donne fatali; niente amori conturbanti; ma sorelle buone del soldato, ma utili donne della terra d'Italia, che se deve essere riscattata dal sangue degli uomini, deve essere vivificata dalla virtù delle donne". Raffaella Duelli, ausiliaria della Decima Mas, che aveva portato con sé il "suo bambolotto di pezza azzurra, compagno delle notti infantili", ha raccontato che "quando i colpi delle mitragliatrici si facevano vicini i ragazzi ci coprivano con il loro corpo, poi si alzavano, scusandosi, rossi in volto". Donne ed uomini si stringevano gli uni agli altri, le mani nelle mani, ma in quegli abbracci ed in quelle carezze di guerra non c'era sesso. 

I Corsi di addestramento organizzati dal Comando generale SAF di Piera Gatteschi furono sei (Italia, Roma, Brigate Nere, Giovinezza, Fiamma e 18 Aprile) ed ognuno veniva frequentato da circa trecento reclute che, preordinate alla loro missione e prestato giuramento, venivano dislocate nei Centri militari e nei Reparti per esse scelti. II 1° Corso 

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Italia del 1 maggio 1944 ed il 2° Roma del 1 luglio durarono 48 giorni, il 3° Brigate Nere 65 giorni e si svolse a Lido di Venezia, ma venne concluso a Como, dove si tennero poi il 4° Giovinezza del 5 novembre (43 giorni), il 5° Fiamma del 1 gennaio 1945 (58 giorni) ed il 6° 18 Aprile del 1 marzo (48 giorni). Anche le Brigate Nere realizzarono il proprio SAF tanto che Piera Gatteschi organizzò per loro il 3° Corso Brigate Nere, iniziato a Lido di Venezia e concluso a Como, durato 65 giorni con oltre 200 volontarie. Nel 1944 a Trieste nacque la Brigata Nera "Norma Cossetto" dal nome della studentessa di Parenzo uccisa dai partigiani jugoslavi di Tito. Le brigatiste indossavano la camicia nera con un teschio sul petto. Una di loro, Donatella Gila, nel raccontare l'esperienza in carcere a S. Vittore, ha dichiarato:"Ero orgogliosa di sentirmi donna italiana. La mia vita era meravigliosa anche nei giorni bui, nella paura, nella promiscuità della cella, nella sporcizia dei nostri corpi sudati". Le volontarie fasciste prestavano la loro attività "militante" negli ospedali e negli uffici, nei presidi e nelle caserme, nei posti di ristoro e nella difesa antiarea, come aerofoniste e marconiste. Seguivano le truppe al fronte e combatterono contro gli invasori anglo americani a Nettuno o sulla Linea Gotica, così come contro i partigiani titini nella Venezia Giulia. Tra i loro compiti c'era anche quello casalingo di tener in ordine e rammendare le uniformi dei combattenti. Il fascismo non voleva che si dimenticasse completamente il ruolo della donna di casa. Molto suggestivi i ritornelli di alcune loro canzoni: "O giovane ragazza che parti volontaria per fare l'ausiliaria ricorda che la vita non sarà sempre bella"; "Cara mamma parto volontaria dammi un bacio senza lacrimar". Una testimonianza molto intensa è stata raccolta da Ulderico Munzi che ha intervistato Giovanna Deiana, diciottenne divenuta cieca in seguito ad un bombardamento, che fece di tutto per essere arruolata tra le ausiliarie. Proprio Mussolini le fece notare la rilevanza della sua menomazione, ma lei, fieramente, rispose: "Quando alla patria si è dato tutto, si è dato poco". La repubblichina Alda Paoletti dichiarò che, in caso di morte, dovevano vestirla con la divisa estiva e "sopra la bara dovranno mettere la bandiera della Repubblica Sociale Italiana, la bella bandiera con l'aquila nera ad ali spiegate e sopra di essa dovrà essere poggiato il mio basco. Dio deve accogliere l'Alda in divisa"

All'impeto rivoluzionario delle istanze sociali della Rsi le donne fasciste non si sottrassero mai e lo segnalarono gli ispettori regionali di Piemonte (Giuseppe Solari), Lombardia (Paolo Porta), Veneto (Giuseppe Pizzirani), Trieste e comprensorio (Bruno Sambo), Emilia (Franz Pagliani), Liguria (Luigi Sangermano), nonché i comandanti Leoni (Ar), Utimpergher (Lu), Catanzi (Pi), Brugi (Si), Biagioni (Apuania) e Polvani (Fi). L'intervento delle volontarie della Toscana fu così incisivo da ridare alla penna di Mussolini il vibrante stile romagnolo di quando dirigeva "Il Popolo d'Italia". Con la "Corrispondenza repubblicana" del 15 agosto 1944 esaltò infatti l'ardore combattivo di venticinque "franche tiratrici" fasciste di Firenze contro gli invasori, descrisse la sorpresa della "Reuter" e del giornale "Daily Mirror" per il coraggio dimostrato dalle ragazze in Camicia nera, concludendo così la sua nota: "È una sferzante lezione per quegli uomini che non vogliono sentirla o che di fronte all'azione mettono in campo tutti i sotterfugi che la viltà può insegnare. Come più d'una volta, se pure non mai in modo tanto clamoroso, agli sbandati, agli immemori ed ai vili l'esempio viene dalle donne. Questa volta dalle gloriose donne di Firenze". Non ci sono dati certi sulle ausiliarie morte in guerra. Le fonti fasciste parlano di circa 300 uccise. Restano i ricordi delle repubblichine rapate ed indicate al pubblico ludibrio dopo la Liberazione. E restano alcune vicende strazianti di condannate a morte. Come la storia di Margherita Audisio, giustiziata il 26 aprile 1945 a Nichelino, che scrive alla sorella di morire serena perché aveva ottenuto "di essere fucilata al petto, come un soldato". Nessuna ausiliaria ha la pensione di guerra. Ma per loro c'era soprattutto la necessità di essere donne.




venerdì 29 agosto 2014

L'IDEOLOGIA DEL FASCISMO

L'IDEOLOGIA DEL FASCISMO



Che cosa è il Fascismo?

Una Ideologia Moderna e Rivoluzionaria che mira ad edificare un nuovo tipo di società alternativa a quella espressa dalle democrazie liberali e capitaliste. Il Modello politico di questo Ideale prende il nome di STATO ETICO CORPORATIVO.


Che cosa è lo Stato Etico?

Il Fascismo afferma il valore di in individuo inserito all’interno di una compagine sociale che è la comunità nazionale. Tale comunità si eleva a realtà etica diventando Stato, un ente Morale Superiore che ha il compito di realizzare il Bene Comune dei Cittadini. L’individuo identificandosi con lo Stato, quindi con la sua Comunità di appartenenza, raggiunge la vera libertà. L’etica che permea la morale dello Stato Fascista è il Corporativismo.

Che cosa è il Corporativismo?

Il Corporativismo è una concezione Morale ed Etica della Politica da cui deriva una concezione socioeconomica che mette l'uomo al centro della società, ritenendolo un Componente essenziale della Comunità nazionale. Il Corporativismo concepisce dunque la Comunità Nazionale come un Corpo Organico in cui ogni “parte” concorre e collabora per il Bene Collettivo. Compito dello Stato è di realizzare un armonico collettivo all’interno del quale non sono ammesse divisioni e lotte intestine, in nome della più pura ed autentica Democrazia Organica, totalitaria e corporativa. 


Il Corporativismo è anche un principio economico?

Si, anche l’economia rientra nello Stato, a differenza delle economie capitalistiche dove è lasciata all’egoismo individualistico di mercati e privati. Il Fascismo non ritiene che l'egoismo dei singoli sia fonte di benessere per tutta la società e mira alla creazione di una società solidale ed altruistica nella quale l'economia sia un mezzo per garantire il benessere materiale della società e nel quale il lavoro, assurgendo a valore morale, diventi non più l’oggetto ma il soggetto dell’economia.

Il Fascismo prevede la Partecipazione diretta del Lavoro nello Stato attraverso una Camera delle Corporazioni nella quale sono presenti i rappresentanti di ogni professione e delle diverse categorie produttrici, riuniti in sindacati di categoria che possano legiferare su questioni di loro competenza. Anche nelle aziende il lavoro partecipa alla gestione della “res publica” tramite una equa distribuzione degli utili.


Che differenza c’è tra Corporativismo Fascista e neocorporativismo anglosassone?

Il Corporativismo Fascista è qualcosa di completamente diverso dal sistema delle "corporates" americane, che sono singoli gruppi di potere che manipolano lo Stato per i propri egoistici interessi: nello Stato Etico Corporativo le corporazioni sono di fatto Organi dello Stato che concorrono al suo benessere e quindi al benessere della Collettività.


Il Fascismo è dunque una Dittatura Collettivistica?

Niente affatto, si tratta di indirizzare le iniziative private verso i bisogni della comunità realizzando quella sintesi armonica tra capitale e lavoro, individuo e Stato, libertà e autorità che è necessità vitale dell’epoca moderna. Questa impostazione rivoluzionaria dei problemi è il sigillo impresso di una nuova Civiltà. Lo Stato Etico Corporativo non solo è compatibile con il pluralismo, ma anzi lo esalta, valorizzando i singoli impulsi, senza che essi degenerino nell’antagonismo e nella frammentazione. Citando Ugo Spirito: “lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annientare l’individuo e vivere della sua distruzione: al contrario esso si potenzia col potenziamento dell’individuo, della sua libertà, della sua proprietà, della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con gli altri individui”.


Ma quindi il Fascismo è Democratico? 

Il Fascismo nega che i regimi liberali cosiddetti “democratici”, fondati sul monopolio del capitalismo finanziario, sulla dittatura dei parlamenti e dei partiti che non sono una libera espressione della volontà popolare, sulle clientele e sulla corruzione oligarchica, possano essere considerati regimi realmente democratici. Il Fascismo rivendica a se la pretesa di realizzare l’unica democrazia possibile, quella Corporativa, dove il Popolo partecipa attivamente e in maniera diretta alla vita dello Stato, in quanto Cittadino e Produttore, attraverso le diverse istituzioni e le Corporazioni. La democrazia fascista non è intesa in senso materialistico, come nei regimi liberali dove il popolo è visto come “numero”, ma spiritualmente come l’idea che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti.


Il Fascismo è una Civiltà Spirituale?

Il Fascismo respinge il materialismo che rende l’uomo una macchina dedita all’interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi economici e materiali ed esalta un modello di società Spirituale che riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo. il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, concepisce la vita come lotta, esalta quelle che sono le virtù etiche dell’uomo. 

Il Fascismo ha una concezione della vita religiosa in quanto richiede una fede cosciente, assoluta ed intransigente ai valori etici e morali che permeano la comunità. 

Questa Civiltà è solo italiana o Universale?

Il Fascismo, in continuità con la tradizione civile e imperiale di Roma, propone un Modello di Cittadinanza che trascende la mera appartenenza geografica per elevarsi a costruzione di una coscienza unitaria universale. Per il Fascismo il concetto stesso di Nazione non ha carattere "materiale", come nel nazionalismo, ma Spirituale. Lo Stato Fascista, superando i limiti di una visione fin troppo angusta e materialista non si pone confini territoriali, bensì affratella popoli e nazioni, crea un ponte tra culture differenti ed instaura un modello superiore di Civiltà. Civiltà che fu e sarà sempre imperialista; cioè mondiale, nel senso più alto e più puro della parola.

Il Fascismo non e' dunque razzista? 

Esattamente. Il Fascismo, dottrina erede dell'universalismo romano, non è razzista e nemmeno antisemita. La sua concezione Spirituale supera il materialismo tipico della concezione naturalistica del razzismo ed afferma il sommo valore dello Stato che affratella etnie, popoli e nazioni all'insegna della Civiltà Imperiale del Littorio. Per il Fascismo la cittadinanza è data dall’adesione ai valori etici e culturali trasmessi dallo Stato, che con la sua azione etico-pedagogica è in grado forgiare il carattere ed il temperamento degli uomini dando vita ad una nuova "razza", a prescindere dall’etnia d’origine, che rappresenta l'Uomo Nuovo Fascista. Solo chi non vuole assimilarsi all’armonico collettivo fascista e mira invece ad intaccarlo ne viene coerentemente allontanato, a prescindere dalla sua etnia.



Il Fascismo è di destra o di sinistra?

Per il Fascismo Destra e Sinistra sono parole vuote e prive di significato, appartengono alla fraseologia da museo dei sistemi liberali. Il Fascismo non è né di Destra né di Sinistra in quanto mira all’unità del Corpo Politico e Sociale della Nazione.

Quindi il Fascismo non è di Estrema Destra? 

Non solo il Fascismo non è di Destra o di Estrema Destra, ma considera questa area politica come il principale ostacolo alla sua affermazione, sia perché si appropria illegittimamente del Fascismo, snaturandone l’essenza, sia perché idee e metodologie sono estranee al Fascismo e fanno invece comodo alla nomenklatura antifascista che vede identificati in essa gli stereotipi del fascista rozzo, violento, razzista e filonazista.

Può il Fascismo definirsi una forma di socialismo?

Il Fascismo ha superato le vecchie dicotomie Destra e Sinistra, così come ha ripreso e superato lo stesso socialismo. Partendo dal recupero di Mazzini e coniugandolo ad esperienze e concezioni successive (Sindacalismo Rivoluzionario di Sorel) il Fascismo definisce la sua Dottrina come UNICO SOCIALISMO POSSIBILE, permeato da una concezione Spiritualistica basata sulla “Rivoluzione Morale” della Cittadinanza. Il socialismo di Mussolini si ritrova nella Dottrina stessa, fondata sull'Etica, la Morale e la Giustizia Sociale. Una Dottrina che vuole il Sindacalismo Corporativo come base del Lavoro Nazionale. Si tratta quindi, parafrasando Mussolini, di un “Socialismo Nostro”, un socialismo etico ed anti-materialista. 


Hanno le religioni una particolare valenza per il Fascismo? 

Il Fascismo riconosce e rispetta le religioni di un determinato popolo e rispetta la libertà di culto dei singoli cittadini fintanto che non siano in contrasto con l’etica dello Stato. Il Fascismo, rigettando le battaglie anticlericali del materialismo, auspica una società fondata sull’armonico collettivo all’interno del quale si stabilisca una retta Laicità fondata sulla concordia e sulla giustizia: Stato e Chiese che lavorino in campi distinti e definiti, ognuno nel proprio ambito e per la propria funzione. 

Qual è il simbolo del Fascismo?

L’emblema del Fascismo è il Fascio Littorio, simbolo dell'Unità, della Forza e della Giustizia. L'unità del Corpo Sociale, le cui classi sono legate insieme dalle verghe che simboleggiano l’Unità, la cui forza, l'ascia, è garante della Giustizia.

Quale Partito oggi rappresenta l’Ideale Fascista? 

Nessun partito odierno rappresenta l’Ideale del Fascismo mussoliniano- gentiliano. In particolar modo i partiti cosiddetti “neofascisti”, inseriti nel sistema partitocratico della repubblica nata dalla resistenza, che vengono ingenuamente associati ad esso. 

mercoledì 27 agosto 2014

LIBERAZIONE?

LIBERAZIONE?

     La primavera del 1945, com’è ormai risaputo e accettato, fu caratterizzata dalla ferocia più disumana. Uccisioni, atroci torture, linciaggi, stupri, sadiche violenze, rapine, saccheggi.
     Prese particolarmente di mira le donne dei fascisti: madri, mogli, figlie e le ausiliarie, le eroiche volontarie che erano entrate nei ranghi militari della RSI.
     Ma uccisioni anche di sacerdoti, proprietari terrieri, imprenditori, si susseguirono per molti mesi, mentre uno Stato impotente e/o connivente lasciava fare.
      Sull’argomento è già stato scritto molto e chi volesse documentarsi, non ha che l’imbarazzo della scelta; perciò sorvolo su tante stragi a guerra finita, che hanno gettato una grondante placca di ignominia su tutto il popolo italiano[1].
     Era il frutto ineluttabile dell’odio senza limiti seminato dai rossi e dai loro complici nella guerra civile.
     Una barbara strategia, estranea alla civiltà europea, quella dei comunisti e di tanti altri antifascisti - utili e feroci idioti strumentalizzati dai primi - per conquistare  il potere  nello Stato che gli veniva regalato dagli “Alleati”.
    Secondo quanto ammette lo storico antifascista e partigiano Giorgio Bocca: « Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce » ( sic!)[2].
     La stessa feroce strategia fu continuata metodicamente e cinicamente, con sadica efferatezza, anche e soprattutto dopo la resa delle forze fasciste.  Infatti la teoria della guerra partigiana « incarna l’ostilità assoluta, perde la distinzione tra nemico e criminale[…..] cessa non con la pace negoziata , ma con lo sterminio[…..] si svolge in base al terrorismo» .[3]
     Mi si conceda una rapida pennellata per tratteggiare il clima, assurdo fino all’alienazione, di quell’epoca.
     Voglio accennare soltanto a qualche passo del libro di Ulderico  Munzi, Donne  di Salò,[4] dove si lascia  parlare un’ausiliaria che aveva conservato la sua verginità - come si usava ancora diffusamente a quei tempi - «fino a quegli infami giorni dell’aprile-maggio 1945».
     Dopo venti, forse trenta stupri, demenzialmente annientanti, si trattava ancora della costrizione allucinante, imposta da partigiani schierati in un cortile, in orrenda coreografia, con la pretesa di farsi baciare i loro membri «penduli, flosci, colore della vinaccia» da ausiliarie e donne fasciste, o ritenute tali, costrette a schierarsi di fronte a loro in ginocchio.
     La nostra ausiliaria, spezzata nel fisico, ma immarcescibile nell’animo, ci sputò sopra. E fu subito presa ferocemente a calci, rotolata per terra a calci, fino a perdere misericordiosamente i sensi, mentre gli “eroi” continuavano ad accanirsi contro quel mucchietto di cenci inanimato.
     Ostilità assoluta.
     Ci hanno spiegato, infatti, che l’ostilità dei comunisti e degli altri utili e feroci idioti, poteva finire esclusivamente con lo sterminio. E quando non si riuscì con lo sterminio fisico, si tentò con lo sterminio morale.
     E sterminio fu, per mesi e mesi.

     I giovanissimi sottotenenti dell’esercito repubblicano Gino Lorenzi e Walter Tafani furono crocifissi a Mignagola  (TV) e a Cavazze (MO), e tanti altri furono crocifissi in Romagna ai portoni delle stalle; in Liguria invece, spinsero la ferocia fino a gettare fascisti ancora vivi nei forni del pane  o in enormi caldaie di acqua bollente e negli alti forni, forse ispirandosi ai più feroci episodi della rivoluzione bolscevica o agli orrendi supplizi delle persecuzioni ai martiri cristiani.
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     E non mancarono i roghi, come avvenne, pure eccezionalmente fuori dell’area più interessata dalle stragi, a Francavilla Fontana (Brindisi), dove l’otto maggio del 1945 vennero gettati, ancora vivi  sul rogo preparato nella piazza principale del paese i due fratelli Chionna soltanto perché di fede fascista.

Vennero commemorati nel 1946, nel primo numero  del  periodico fascista  clandestino Alba di riscossa, edito a

Cisternino (BR).[5]
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     In provincia di Ferrara la famigerata banda di Portoverrara nel maggio 1945 assassinò tre uomini dopo averli evirati, aver loro strappate le unghie, i denti e spezzata la spina dorsale; un branco di megere linciò un uomo a Quartesana strappandogli gli occhi. Ma bisogna riconoscere obiettivamente che la banda di Portoverrara non era neanche una delle più feroci.

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     A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile,  venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto; ma furono più feroci gli uomini delle   bestie  che lo straziarono per cibarsene.
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     E avvenne anche in altri posti, come a Grosseto, dove la Vedova e le figlie, bambine, del fascista Faenzi peregrinarono per anni per scoprire dov’era stato sepolto il loro congiunto, ucciso dai partigiani, incontrando un muro di ostilità, diffidenza e omertà fin nei più sperduti poderi, finché non riuscirono a scoprire che il corpo del Martire era stato lasciato divorare dai porci.
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     A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli. Quindi condotte vicino al cimitero furono sepolte vive.

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     Questo  era il clima della   “Rossa Primavera”.

     Dopo oltre 70 i Santoro, i Biagi e la “ridondante” schiera dei pennivendoli allineati nel politically correct, continuano il coro degli osanna, insensibili ad ogni resipiscenza. Vergogna!

      Il Papa ha chiesto scusa ai mussulmani per le violenze commesse dai crociati.

     Un capo di stato tedesco è venuto in Italia a chiedere scusa per la strage di Marzabotto (che pure era stata una rappresaglia contenuta nei limiti delle leggi di guerra, e coscientemente provocata dai partigiani, che non ritennero di impegnarsi poi nella difesa della popolazione inerme).

     Quando accadrà che un capo di stato italiano chieda scusa agli italiani per le stragi della “rossa primavera” e per l’ignominia che ne è ricaduta su tutto il popolo?
                                                                                                          Francesco Fatica


[1] Vedi Giorgio Pisanò su Gente anni 1959-1960, 18 puntate illustrate da 400 fotografie, poi raccolte nel volume Il vero volto della guerra civile, Rusconi, Milano, 1961; sempre di G. Pisanò, Sangue chiama sangue (Edizioni FPE, Milano1962 e successive edizioni) e ancora Storia della guerra civile in Italia 1943-1945 (CEN, Roma, 1965); Gli ultimi in grigioverde (CDL Edizioni, Milano, 1968); Il triangolo della morte (1992) e ancora Antonio Serena I giorni di Caino, Panda, Padova, 1990 e Gianni Oliva La resa dei conti, Mondadori, Milano 1999; Enrico Accolla, Lotta su tre fronti. Introduzione alla Storia della Repubblica Sociale Italiana, Greco & Greco Editori, Milano, 1992.
Si vedano anche i periodici: Nuovo fronte e L'ultima crociata, dell'Ass.ne naz.le famiglie dei Caduti e Dispersi della RSI.


lunedì 25 agosto 2014

GRANDE GUERRA " POLITICAMENTE CORRETTA" : MAI PARLARE DI VENEZIA GIULIA.....

Blog politicamente scorretto contro la dittatura del pensiero unico. E. LONGO

GRANDE GUERRA " POLITICAMENTE CORRETTA" : MAI PARLARE DI VENEZIA GIULIA.....

di Lucio Toth 
L’Italia – si sa – è il paese delle autocensure, delle mezze o doppie verità, dei sottofondi oscuri e melmosi, come le povere trincee della Prima guerra mondiale.
Il tartufismo ipocrita dei media e della storiografia ufficiale ha trovato un altro terreno di applicazione del politically correct. Parola d’ordine di qualche Minculpop segreto e ossequiosamente osservato è: mai parlare della Venezia Giulia quando si affronta il tema della Grande Guerra 1915-1918.
Per noi, italiani dell’impero austro-ungarico, quella guerra ebbe inizio nell’agosto del 1914, con la mobilitazione generale; la partenza dei nostri coscritti e richiamati per i vari fronti di allora (Serbia e Carpazi); gli espatri dei “regnicoli” – che nelle città di lingua italiana erano tanti – e degli irredentisti nostrani; l’internamento degli istriani, fiumani e dalmati di nazionalità italiana sospettati di “intelligenza” con il possibile nemico, all’incirca 60.000 persone, campo più campo meno, di ogni sesso ed età, tra la Stiria, la Boemia, l’Ungheria. Quando si dice il privilegio di essere “mittel-europei” !
Ma di tutto questo sulla stampa e in TV non si deve parlare. Del Friuli sì. Tanto ben pochi italiani sanno dove cominci e dove finisca questa regione. Del Trentino anche, perché oggi appartiene ancora alla nostra Repubblica, però senza specificare bene la sua estensione. Il Trattato di pace del 1947 ce lo ha lasciato, insieme all’Alto Adige. Altro tema da non toccare, dato che i sud-tirolesi sono in gran parte tedeschi e non attendevano nessuna “Redenzione”. Anzi da quasi cent’anni custodiscono nel cuore la perduta patria austriaca, con la sua bandiera a bande bianche e rosse appesa orgogliosamente a ogni albergo e ad ogni chiesa nei dì di festa. Già perché - a dirla tutta sinceramente – dal punto di vista linguistico, etnico, storico e del principio di autodeterminazione, abbiamo mantenuto ciò che non ci spettava e perduto ciò che ci apparteneva. C’è anche a Trieste, a Gorizia e a Trento qualcuno che quella bandiera rimpiange, alla luce del “dopo” che alla Finis Austriae è seguito (vent’anni di fascismo, una guerra mal cominciata e peggio finita, due occupazioni, questa volta veramente “straniere”, la tragedia delle Foibe e dell’Esodo di 350.000 cittadini).
Ed è in quest’ultimo recesso di storia nazionale che si annida la “ratio” del tabù “Venezia Giulia” quando si parla della prima guerra mondiale. Perché infatti, narrando di trincee e reticolati, di bombarde e di gas all’iprite, si ricordano il fronte trentino, gli altipiani delle Prealpi venete, il Carso di sfuggita, ma mai e poi mai si nomina l’Istria, Fiume, la stessa Trieste, per non parlare della Dalmazia, condannata alla “damnatio memoriae” ad ogni ricorrenza della storia nazionale.
E’ probabile che si parlerà delle undici “disastrose” battaglie dell’Isonzo (“O Gorizia, tu sia maledetta…”), dovute alla follia omicida dello Stato Maggiore italiano. Si parlerà di Kobarid-Caporetto e delle fucilazioni degli sbandati. Anzi si appalterà direttamente agli studiosi sloveni la storia di quel fronte. Tanto ne sanno più di noi, perché l’Alta Valle dell’Isonzo, conquistata dall’esercito italiano nel 1915-16, era abitata da popolazione slovena, che forniva all’Austria i soldati più fedeli, insieme ai croati e ai tirolesi. Se si parlerà dell’Istria e della Dalmazia sarà solo per condannare la megalomania imperialista degli interventisti e del Patto di Londra dell’aprile 1915, mercede offerta all’Italia dall’Intesa per il suo tradimento della Triplice. La motivazione più o meno recondita di questo atteggiamento culturale è di natura psicologica. Poiché questi territori (Istria, Fiume e Zara), acquisiti legittimamente nel 1920, furono perduti dallo Stato italiano nel 1947, di questa mutilazione non si deve parlare perché offusca il mito della Liberazione.
E se non si può parlare di mutilazioni territoriali e di esodi di massa di italiani è meglio tacere anche del fatto che essi siano mai esistiti e vivessero in quei territori da secoli, come popolazione autoctona, maggioritaria lungo la costa, che – loro sì – desideravano e attendevano la “Redenzione” per essere riuniti all’Italia, come le altre terre venete dopo la III guerra d’indipendenza. Quindi non si deve parlare dei loro volontari nell’esercito e nella marina italiani: Nazario Sauro, Fabio Filzi i fratelli Stuparich, Scipio Slataper, Francesco Rismondo, già strumentalizzati dalla propaganda nazionalista, e di altre migliaia di italiani che disertarono dalle forze armate austro-ungariche con il rischio, qualora catturati, di essere impiccati come traditori. Sentenze inoppugnabili sul piano giuridico in quanto un suddito imperiale non poteva passare dalla parte del nemico. Tutto questo verrà coperto da un velo di ipocrisia silenziosa, anche per non mettere in difficoltà i nostri vicini, sloveni e croati, cui quelle terre, ancorché abitate da italiani, furono consegnate nel 1947, in quanto vincitori della seconda guerra mondiale. Come se nascondere una parte della verità fosse un segno di rispetto nei loro stessi confronti.
Omissione anche disonesta perché offende la memoria di quei 600.000 italiani che nella Grande Guerra persero la vita.
Si ripete quindi quell’atteggiamento di censura che aveva coperto per sessanta anni le vicende delle Foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata. E’ imbarazzante infatti dover parlare di loro a proposito di quella guerra di cent’anni fa. Meglio ignorarli. Tanto “Trento e Trieste” – formula magica ammannita ai combattenti italiani, molti dei quali finirono per credere le due città unite da un ponte - sono rimaste all’Italia. Del resto ci si può anche dimenticare. Entité négligeable.
                                                                                                                                                 

sabato 23 agosto 2014

MA QUANTI DANNI FECE IL MALE ASSOLUTO?



MA QUANTI DANNI FECE IL MALE ASSOLUTO?
Articolo che fa seguito alle infinite (perdonatemi l’espressione) stronzate del dottor (bah!) Pasquariello

di Filippo Giannini
   Alcuni lettori ricorderanno la mia risposta ad un malato di antifascismo pubblicata in uno dei numeri precedenti de Il Popolo d’Italia, nella quale avevo preannunciato un elenco parzialissimo del male che fece Benito Mussolini al popolo italiano.
   Ripeto ancora una volta che di economia ne capisco poco, ma quel poco mi induce a ritenere che la soluzione dei mali che attualmente ci rendono la vita impossibile, ebbene – e lo ripeto – la soluzione, o almeno una soluzione parziale si trova nel periodo del male assoluto (che sempre sia benedetto). Nonché un’altra soluzione, anch’essa almeno parziale, della disoccupazione si trova anch’essa sempre nel mai sufficientemente deprecato Ventennio (che sempre e ancora sia benedetto), con l’anarchia, cioè bastare a se stessi, promuovendo, esaltando e incoraggiando il lavoro italiano.
   Sia chiaro un principio: quel che faccio e quel che scrivo sull’ argomento non è per  nostalgia (pur avendo vissuto “uno spicchio” di un periodo esaltante e irripetibile), ma per contribuire alla giusta rivalutazione di un grande uomo quale fu Benito Mussolini.
   I lettori più attenti ricorderanno che in un mio precedente articolo mi impegnai a fornire una spiegazione sul motivo che spinse l’intellettuale Cesare Muratti a scrivere, nel 1983,  questa osservazione: <Diciamo finalmente la verità VERA (maiuscolo nel testo, nda): in un certo momento il 98% degli italiani era per Mussolini>. Con l’aiuto di Alessandro Mezzano e del suo meraviglioso saggio proverò a presentare la risposta.
   Quel che segue è un elenco “frammentario ed incompleto, ma significativo, di alcune leggi, riforme ed opere che furono realizzate dal Fascismo e che cambiarono il volto della società italiana, ottenendo al regime e a Benito Mussolini quel consenso popolare, quasi totale, che oggi la cultura e la storiografia ufficiale si affannano a disconoscere” (purtroppo riuscendoci).
    Quelli riportati più avanti sono provvedimenti concepiti e attuati dal Regime fascista. Prima del suo avvento di questi provvedimenti o erano appena abbozzati o, comunque mai trasformati in leggi, oppure addirittura inesistenti non solo in Italia, ma anche in Europa e negli altri continenti. In altre parole, per essere più chiaro, l’Italia fascista in campo sociale, e non solo sociale, fu all’avanguardia nel mondo, pronta a fornire, una volta ancora, al mondo intero, un nuovo RINASCIMENTO, IL RINASCIMENTO DEL LAVORO.
   Già il 24 maggio 1920, in un articolo dal titolo “L’epilogo”, Mussolini su “Il Popolo d’Italia”aveva scritto: <Vogliamo rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, insegnargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche>. E, salito al potere, non perse tempo per attuare i suoi programmi.
   Scrive Mezzano, in merito alla “Tutela lavoro Donne e Fanciulli”, legge promulgata il 26.4.1923, Regio Decreto n° 653: <E’ una delle prime leggi sociali del Fascismo: nasce solo sei mesi dopo la Marcia su Roma del 22 Ottobre 1922, ed è chiaramente indicatrice di quella che sarà la politica sociale degli anni futuri del regime. Negli anni e nei secoli precedenti né la Chiesa, né la borghesia, né i socialisti ed i sindacati erano riusciti a migliorare ed a rendere umana la condizione delle donne e dei fanciulli, che erano costretti a lavorare nelle fabbriche, nelle miniere o come braccianti nelle campagne>.
   “Assistenza ospedaliera per i poveri, legge promulgata il 30.12.23, Regio Decreto n° 2841.
   <Questa legge trasforma in diritto alle cure gratuite la discrezionalità caritatevole di associazioni benefiche, per lo più religiose, che fino ad allora aveva condizionato la vita o la morte delle persone che non disponevano di mezzi propri per accedere alle cure ospedaliere>.
   Che il lettore provi ad ammalarsi nella “culla della più grande democrazia: negli Usa” e compari l’attuale stato sociale vigente in quel Paese con quello di“quell’Italia” di quasi un secolo fa.
   “Assicurazione Invalidità e Vecchiaia”. Legge promulgata il 30.12.1923, Regio Decreto n° 3184.
   <La legge decreta il diritto alla pensione d’invalidità e vecchiaia tramite un’assicurazione obbligatorie, al cui pagamento concorrono sia i lavoratori che i datori di lavoro. Il lavoro, componente fondamentale del nuovo Stato fascista, è un dovere (altro che “diritto”, come si ciancia oggi, nda) per ogni cittadino, ma che lo riscatta da quella posizione di servitù in cui lo Stato liberale aveva messo il lavoratore, per trarlo in una posizione di libertà e di dignità che lo investe in quanto uomo, e non solo in quanto lavoratore, e per questo gli assicura la certezza del sostentamento alla fine di una carriera di lavoro>.
   “Riforma della Scuola (Gentile)”. R.D.L. n° 1054 del 6.5.1923.  
   <La volontà di modernizzazione, che fin dalle origini pervade il movimento fascista, spinge il nuovo governo a progettare la creazione di una numerosa e preparata classe dirigente, in grado di sostenere un vasto disegno di sviluppo nazionale: obiettivo, questo, non realizzabile senza una scuola moderna, razionale, dinamica, produttiva ed accessibile a tutti>.
   La scuola non doveva fare distinzioni tra le classi sociali, ma garantire il diritto di studio a tutti, anche ai figli appartenenti alle classi meno abbienti. Questa riforma  poneva le basi per una scuola più moderna. A quest’opera di risanamento culturale e morale ha fatto seguito, dalla fine della guerra, un rilassamento disgregativo fino a giungere - e i lettori lo ricorderanno - al demagogico assioma del “sei politico”, senza che i governi del tempo fossero in condizione di arrestare la conseguente “avanzata dei somari”. La riforma di Gentile poneva in evidenza la preoccupazione del legislatore a ravvivare una tradizione pedagogica nazionale con i maestri e i professori perno della vita della scuola: “La riforma vivrà, se i maestri la sapranno far vivere”. E con questo spirito veniva valorizzata,, di fronte allo studente, la personalità dei maestri e dei professori, ad ogni livello, dalle elementari all’università. Oggi il maestro e il professore sono privi di ogni autorità e lo studente si sente autorizzato anche a deriderli e a declassificarli. Questo nel nome di una presunta uguaglianza di intenti. Sicché se durante il fascismo la scuola italiana era considerata la migliore del mondo, oggi…
   “Acquedotto Pugliese, del Monferrato, del Perugino, del Nisseno e del Velletrano”.
   Valga per tutti quanto detto per l’Acquedotto Pugliese, ricordando che questo è il più grande acquedotto del mondo: <I primi progetti risalgono al 1904, quando l’Ente Autonomo Acquedotti Pugliesi ne affidò l’esecuzione alla società ligure del senatore Mambrini (sic) (…). I lavori avrebbero dovuto essere terminati nel 1920, ma nel 1919 solo 56 Comuni su 260 avevano avuto l’acqua, mentre le opere intraprese erano spesso abbandonate, incomplete e deperivano (…). Nel 1923, sotto il governo Mussolini, l’Ente fu commissariato e passò alla gestione straordinaria; improvvisamente i lavori vennero accelerati, furono superate tutte le difficoltà che sino ad allora li avevano bloccati e furono portati a termine nel 1939>.
   Nessuna meraviglia per gli uomini di “quel regime”: il denaro pubblico era sacro. Oggi, invece, che si favoriscono gli appalti degli appalti, le modifiche delle modifiche di un progetto, le tangenti, le tante, troppe “cattedrali nel deserto”. Vale quanto ripetutamente scritto: qualsiasi confronto fra questo regime e quello precedente risulterebbe insostenibile; questo è il vero motivo per il quale si è coniato il termine “Fascismo: male assoluto” e sono nati i tanti dottor Pasquariello.
   “Riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere, R.D.L. n° 1955 del 10.9.1923
   <Prima del Fascismo quasi tutto era lasciato all’arbitrio del datore di lavoro, che spesso, con il ricatto psicologico della disoccupazione, costringeva i lavoratori a orari massacranti e in ambienti di lavoro malsani e insicuri>.
   E’ facilmente comprensibile come questa serie di leggi sociali, se da un lato proteggevano i lavoratori dallo sfruttamento, dall’altra danneggiavano gli industriali, il grande capitale, gli speculatori: e questi divennero gli oppositori del regime. Tuttavia il cammino intrapreso dal Fascismo non si fermerà sino a quando le potenze plutocratiche mondiali non si coalizzeranno per abbattere un regime che stava diventando, per esse, pericoloso.
   “Opera Balilla e Colonie marine per ragazzi”.
  <Con questo provvedimento>, scrive Mezzano, <il Fascismo attuò una rivoluzione significativa sottraendo alla Chiesa, anche al di fuori della scuola, l’educazione della gioventù che divenne di pertinenza dello Stato>.
   La “Gioventù Italiana del Littorio” fu un’operazione colossale, mirante alla protezione dei ragazzi che vennero sottratti ai tanti pericoli che li minacciavano. L’attività ginnico-fisica, inculcò un’istruzione civile e sportiva. La Chiesa non perdonerà mai al Fascismo questo “strappo” che si trasformerà poi in avversione e sostegno al nemico in occasione della guerra ’40-’45.
   “Opera Nazionale Dopolavoro”
   Quasi in parallelo a ciò che per i giovani  era la GIL, nasce per i lavoratori l’OND. Questo organismo ha il compito di portare cultura e svago tra la classe operaia, che nel passato era stata costretta ad una vita esclusivamente di lavoro, di sacrifici e d’ignoranza>.
   Le strutture dell’Opera raggiunsero, in poco meno di un decennio, un livello unico al mondo. Alcune cifre significative: 1227 teatri, 771 cinema, 40 cine-mobili, 6427 biblioteche, 994 scuole di ballo e canto, uno stabilimento idrotermale, 11.159 sezioni sportive a livello dilettantistico con 1.400.000 iscritti, 2700 filodrammatiche con 32.000 iscritti, 3787 bande musicali e 2130 orchestre con 130 mila musicisti, 10 mila associazioni culturali. Con l’avvento delle “40 ore lavorative settimanali” i lavoratori e le loro famiglie possono viaggiare sui cosiddetti “treni popolari”, il costo del biglietto è ridotto del 70%. A guerra finita le strutture dell’OND confluiranno nella “Case del popolo” di matrice comunista e il PCI farà propri i principi ispiratori dell’OND facendoli passare (furbescamente) come proprie iniziative.
   “ Reale Accademia d’Italia, RDL n° 87 del 7.1.1926.
     <Nel quadro del progetto di risollevazione della Nazione da quello spirito di rassegnata sudditanza e di provincialismo culturali che avevano contraddistinto secoli di storia  prima e dopo l’unità, fu fondata l’”Accademia d’Italia” allo scopo di dare lustro e dignità all’ingegno e all’arte italiane>. L’Accademia venne poi soppressa, con Decreto Luogotenenziale del 28.9.1944, solo perché era una creazione del Fascismo. <Dopo la sconfitta e con l’avvento della Repubblica resistenziale, rifiorirono il servilismo e il provincialismo: l’Italia borghese, clericale e anticomunista volle essere colonia culturale, politica ed economica degli USA, mentre la sinistra comunista avrebbe voluto un’Italia satellite dell’URSS>.
   In merito all’Enciclopedia Treccani il giornalista Franco Monaco ha scritto: <In Inghilterra esisteva da duecento anni una Enciclopedia Britannica, ma in Italia nessuno aveva mai pensato che si potesse farne una italiana. Proprio Gentile la suggerì all’industriale Giovanni Treccani>.
   Treccani si mise immediatamente al lavoro. Sotto la direzione di Gentile lavorarono oltre 500 redattori e collaboratori selezionati nei vari rami della cultura italiana. Per espresso ordine di Mussolini fu adottato lo stesso principio che vigeva per l’Accademia d’Italia: la selezione doveva avvenire in base alla validità professionale e culturale del candidato, accantonando ogni preclusione di indole ideologica. Così all’Enciclopedia collaborarono anche noti “oppositori” e perfino alcuni firmatari del “Manifesto” di Croce. Il lavoro si svolse con velocità, capacità e puntualità miracolose. Il frutto di tutto ciò fu che l’Enciclopedia Italiana sopravanzò, come mole e valore culturale, sia la “Britannica” che la “Francese”. Nel 1937 l’Enciclopedia Italiana presentò il risultato del proprio lavoro: l’Enciclopedia era costituita di ben 35 volumi; i collaboratori erano stati in tutto 3000, <ossia tremila cervelli che Giovanni Gentile aveva amalgamato e ridotto all’osservanza di quei concetti generali di obiettività, precisione, chiarezza e concisione che l’Enciclopedia si era imposti> (Franco Monaco).
   “Bonifiche dell’Agro Pontino, dell’Emilia, della Bassa Padana, di Coltano, della Maremma Toscana, del Sele, della Sardegna ed eliminazione del latifondo siciliano”. RDL 3256 del 20.12.1923.
   <Nel 1923, solo un anno dopo la Rivoluzione fascista, Benito Mussolini amplia i poteri dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti) e le affida il compito tecnico amministrativo di realizzare la bonifica dell’Agro Pontino, che non sarà un mero risanamento idraulico dei terreni, ma una vera e propria ricostruzione ambientale, secondo il piano di Arrigo Serpieri, Sottosegretario alla bonifica (…). Oltre alle dimensioni dell’opera di bonifica, che non ha avuto eguali in Italia in tutta la sua storia, è da sottolineare il rivoluzionario concetto che la ispira e che va sotto il nome di “Bonifica integrale”, sottolineato e riportato nell’intestazione delle leggi che vi si riferiscono>.
   Il progetto prevedeva una serie di interventi che andavano dalla sistemazione e dal rimboschimento dei bacini ai lavori di sistemazione degli alvei dei corsi d’acqua, alla trasformazione colturale e alle utilizzazioni industriali, sempre secondo una coordinata e armonica pianificazione del territorio. Dal suolo bonificato sorgono irrigazioni, si costruiscono strade, acquedotti, reti elettriche, opere edilizie, borghi rurali e ogni genere di infrastrutture. Dalle Paludi Pontine sorsero “in tempi fascisti” vere e proprie città: Littoria, inaugurata l’8 dicembre 1932; Sabaudia (indicata da tecnici stranieri come uno dei più raffinati esempi di urbanistica razionale), il 15 aprile 1934; Pontinia, il 18 dicembre 1935; Aprilia, il 29 ottobre 1938; Pomezia, il 29 ottobre 1939. Nell’Agro Pontino furono costruite ben 3040 case coloniche, 499 chilometri di strade, 205 chilometri di canali, 15.000 chilometri di scoline. La “Bonifica integrale” continuò nell’alto Lazio, in Campania, in Sardegna, in Sicilia e così via in tutta Italia, ma non solo in Italia: non si possono dimenticare le grandi opere realizzate in Somalia, in Eritrea, in Libia, in Etiopia. Tutto questo, come si è detto, “in tempi fascisti” e senza alcuna ombra di “democratiche tangenti o mazzette”. La risposta a queste opere colossali proveniente dagli uomini dei “diritti e della libertà” è stata (e non sto scherzando) che le bonifiche integrali furono “un danno ecologico“. Oppure, come ha scritto Piero Palumbo (“L’Economia italiana fra le due guerre”, pag. 84: <Duole (!) ricordarlo: i primi ecologisti indossavano l’orbace>. Un’osservazione che è un pugno nello stomaco al “Verde” Onorevole Pecoraro Scanio.
   “Opera Nazionale Maternità e Infanzia, RD n° 718 del 15.4.1926.
    <Nella nuova società la cura e l’importanza delle donne e dei fanciulli, implicita nella dottrina fascista, assume l’importanza di istituzione mediante la fondazione dell’”Opera Nazionale Maternità e Infanzia”. L’ONMI vuole dare e darà un concreto supporto a quella fondamentale cellula umana e sociale che è la famiglia, intesa non quale generatrice di forza di lavoro e di consumo, come è nella concezione materialistica del capitalismo e del marxismo, ma quale culla e nucleo vitale delle tradizioni, della storia e del futuro della Nazione e dello Stato. Centro vitale della famiglia è, per il Regime fascista, la madre (…)>.
   Con questa legge lo Stato si fece carico dell’assistenza e dell’aiuto alle madri, volgendo particolare attenzione alle cure per le madri-lavoratrici. Questa legge, anticipatrice dei tempi è, quindi, una delle innovazioni più prestigiose del regime fascista. Furono istituite in ogni provincia le “Case della madre e del bambino”, gli asili nido, i dispensari del latte: tutte organizzazioni che giunsero ad accogliere circa 2 milioni di assistiti. Tutto questo era integrato da una assistenza medica e da una propaganda igienica. L’”Ente Opera Assistenza” curava la gestione delle Colonie estive e invernali, istituite per assistere soprattutto i bambini di famiglie meno abbienti. Gestiva, inoltre, speciali scuole e Colonie per la terapia dei colpiti dalla tbc”, i convalescenziari e centri per la cura dell’anemia mediterranea. Oggi tutti possono vedere in che stato si trovano gli ospedali per la cura della talassemia e quelli pediatrici che furono costruiti sul litorale da Rimini a Riccione “Assistenza agli illegittimi, abbandonati o esposti, legge dell’8.5.1927, RDL n° 798.
   Mezzano: <Con questa legge lo Stato si assume la responsabilità di provvedere a quei bambini non desiderati che erano prima senza tutela ed alla mercé della carità privata e quindi considerati persone di seconda categoria>.
  Oggi, in “regime democratico”, molti fanciulli vengono abbandonati ai pedofili e alla droga. Le donne reclamano la libertà sessuale e il “diritto all’aborto”, sanzionato e garantito addirittura dallo Stato. E quando lo Stato non interviene il povero lattante è abbandonato come immondizia, in un cassonetto. D’altra parte, come disse Luciano Violante, “Questo è lo Stato dei diritti e della libertà”.
   “La Carta del Lavoro, Pubblicazione sulla “Gazzetta Ufficiale” n° 100 del 30.4.1927.
   <Puntualizza il rapporto fondamentale tra Fascismo e mondo del lavoro. Dichiara, istituzionandoli, i principi basilari a tutela dei lavoratori, nonché la preminenza, nello Stato Fascista, dell’interesse prioritario che lega gli obiettivi dello Stato a quelli del lavoro e dei lavoratori>. La “Carta del Lavoro” intendeva portare a confronto, su uno stato di parità, secondo un progetto di collaborazione e solidarietà che superasse la rovinosa filosofia materialistica della lotta di classe, due tradizionali antagonisti sociali: il capitalismo e il lavoro. Sarebbe troppo lungo elencare tutti i vantaggi per i lavoratori previsti in questa legge rivoluzionaria. Ne elenco solo alcuni: obbligatorietà della stipula di Contratti collettivi di categoria; istituzione della Magistratura del Lavoro; diritto alle ferie annuali; istituzione della indennità di fine rapporto; istituzione degli uffici di collocamento statali; assicurazione sugli infortuni sul lavoro; assicurazione per la maternità; assicurazione contro le malattie professionali; assicurazione contro la disoccupazione; Casse mutue per le malattie eccetera.
   L’antifascista Gaetano Salvemini scrisse: <L’Italia è diventata la Mecca degli studiosi della scienza politica, di economisti, di sociologi, i quali vi si affollano per vedere con i loro occhi com’è organizzato e come funziona lo Stato corporativo fascista (…)>. Oggi, invece, quotati giornali stranieri si affollano per denunciare la mafia politica e la pletora di deputati e senatori che siedono in Parlamento, pur essendo stati condannati dalla giustizia per reati vari. Non c’è che dire, anche oggi, siamo “studiati”.
   “Esenzioni tributarie per le famiglie numerose RDL n° 1312 del 14.1.1928 e
   “Assegni familiariRDL n° 1048 del 17.6.1937.
   Mezzano scrive: <In coerenza con la dichiarata importanza che il Fascismo attribuiva alla famiglia come cellula fondamentale della società, era importantissimo sgravare dalle spese fiscali quelle famiglie che già avevano impegni finanziari onerosi a causa dell’elevato numero dei componenti>.
   Grazie a queste leggi lo Stato riconosceva agli operai che si sposavano entro il venticinquesimo anno un assegno nuziale di 700 lire. Inoltre, se i coniugi guadagnavano meno di 1.000 lire lorde al mese, veniva loro concesso un prestito senza interessi compreso tra le 1.000 e le 3.000 lire. Alla nascita del primo figlio, il prestito si riduceva automaticamente del 10%; così, gradualmente, sino alla nascita del quarto figlio, il prestito veniva condonato. Il capofamiglia con prole numerosa (sette figli) godeva di privilegi particolari: Mussolini inviava, o consegnava personalmente, 5.000 lire, oltre una polizza di assicurazione. Una tessera  gratuita valida per tutti i mezzi pubblici cittadini giungeva al capofamiglia tramite la locale sezione della  Federazione fascista. Altri privilegi per queste famiglie numerose erano: la possibilità di contrarre prestiti a tasso bassissimo, sconti nell’affitto degli appartamenti, assegni familiari ragguardevoli. E ancora: per gli operai con un figlio, lire 3,60 la settimana; lire 4,80 per quelli con due o tre figli; 6 lire per quelli con quattro figli e oltre.
   “Legge sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali e legge istitutiva dell’INAIL, RD. n° 928 del 13.5.1929 e RD. n°264 del 23.3.1933, “Legge istitutiva dell’INPS (Istituto Nazionale Previdenza Sociale)”, RDL n° 1827  del 4.10 1935.
   <Nel quadro della ristrutturazione del mondo del lavoro e nei rapporti tra i lavoratori e lo Stato, queste due leggi risolvono l’annoso problema delle conseguenze negative che situazioni accidentali potevano procurare a chi lavorava in particolari settori>.
   Il Regime fascista nel suo “programma politico e sociale per l’ammodernamento e l’industrializzazione del Paese”, come osservato anche da James Gregor, non poteva eludere una globale politica previdenziale. La competenza dell’INPS andava dall’invalidità e vecchiaia alla disoccupazione, dalla maternità alle malattie. Altre assicurazioni coprivano, praticamente, la totalità dei prestatori d’opera, garantendo così all’Italia un altro primato mondiale. Sulla scia dell’INPS sorsero, sempre negli anni ’30, l’INAM, l’EMPAS, l’INADEL, l’ENPDEP, tutti enti che permetteranno poi, anche se fra scandali, ruberie e arroccamenti di potere politico, all’Italia post-fascista di tutelare i lavoratori.
   “Istituzione del Libretto di Lavoro”.
    <Proseguendo nel perfezionamento delle norme a tutela dei lavoratori, per contrastare fenomeni come il lavoro nero, lo sfruttamento illecito di categorie deboli come donne e fanciulli, gli abusi sull’orario di lavoro e l’evasione dei contributi lavorativi e previdenziali e per far sì che, in generale, fossero rispettate tutte le leggi emanate a difesa del mondo del lavoro, viene istituito il Libretto di Lavoro>.
   Per avere solo una idea del maltrattamento subito dalla verità dopo la caduta del Fascismo, ecco come lo “storico” Max Gallo riporta la notizia in “Vita di Mussolini”, pag. 118: <Si crea un libretto di lavoro obbligatorio per meglio sorvegliare gli operai>. Come si vede il dottor Pasquariello non è solo.
   “Riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali” RD. n°1768 del 29.5.1937.
   Mezzano: <Non appena le condizioni generali dell’economia e dell’industria italiane lo permettono, il Fascismo continua la marcia intrapresa sin dal 1923 in direzione della riforma globale del mondo del lavoro, investendo parte del vantaggio economico nella ulteriore diminuzione dell’orario di lavoro e sottolineando il principio che il lavoro e il profitto debbono essere strumenti e non fini della società>.
   Questa legge (poi meglio conosciuta come “sabato fascista) era già prevista nel programma fascista del 1919 e si inserisce con naturalezza nell’obiettivo di forgiare lo “Stato del Lavoro” nel quale la figura del lavoratore si trasforma sempre più da salariato in protagonista e compartecipe dell’impresa.
   Legge istitutiva dell’ECA (Ente Comunale di Assistenza). RDL n° 847 del 19.6.1937.
   Sempre Mezzano: <Viene istituito, in ogni comune del Regno, l’”Ente Comunale di Assistenza”, allo scopo di assistere individui e famiglie in stato di necessità e di controllare e coordinare tutte le altre associazioni esistenti che abbiano analogo fine>.
   E’ superfluo commentare questa legge, tanto è palese la sua finalità. I più bisognosi non vengono più assistiti da opere misericordiose, ma tramite una legge specifica dello Stato.
   Mi fermo qui perché, come ho scritto all’inizio, potevo presentare, per ovvi motivi di spazio, solo un elenco “frammentario ed incompleto” di alcune leggi sociali concepite dal Regime fascista. Tante altre tutte di spiccato valore sociale, uniche o prime nel mondo, arricchiranno la Storia del Fascismo. Una fra queste, <la più rivoluzionaria, la più geniale, la più popolare delle riforme del Fascismo, fortemente voluta da Benito Mussolini fu realizzata nella Repubblica Sociale Italiana>. Mezzano si riferisce alla “Socializzazione delle Aziende”: una riforma che avrebbe portato alla completa “Socializzazione dello Stato”una riforma che fu vanificata solo perché la plutocrazia mondiale volle mettere fine al Regime Fascista che, come disse Mussolini, <aveva spaventato il mondo>. Intendeva, ovviamente, “il mondo dell’usura e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
   Mussolini e i suoi seguaci realizzarono uno Stato sociale, nonostante le difficoltà create lungo il loro cammino, decisamente all’avanguardia coi tempi, e questo senza aver avuto la possibilità di alcun esempio precedente. La validità di “quel sistema” è convalidata dal fatto che “quelle innovazioni”, come ha scritto Vittorio Feltri: <durano fino ad oggi, e sarebbero durate ancor più se l’inefficienza, l’incapacità e la disonestà dei Governi dei giorni nostri non le avessero distrutte>.
   Come concludere? Nella rovina di cui siamo investiti, solo un miracolo ci può salvare, e allora innalziamo una preghiera al Signore invocando per la tomba di Predappio lo stesso prodigio che ridette vita a Lazzaro.