lunedì 29 settembre 2014

ALEPPO / I CANNONI DELL' INFERNO



Blog politicamente scorretto contro la dittatura del pensiero unico.ALEPPO / I CANNONI DELL' INFERNO

 AVV. EDOARDO LONGO 


Intervista a padre Georges Abou Khazen, di Davide Malacaria
Ormai il 60% della popolazione ha abbandonato Aleppo, la città siriana che sta diventando il simbolo di questa guerra che dura tempo e che molti si ostinano a chiamare civile, ma che di civile non ha nulla. Simbolo perché la presenza cristiana è più numerosa che altrove in Siria, anche se ora è ridotta a un piccolo gregge. E perché ormai da anni resta in un tragico stallo che vede metà città occupata dai tagliagole anti-Assad che rendono impossibile la vita nei quartieri non occupati. I cosiddetti ribelli vi imperversano con bombardamenti continui, giorno e notte, e nei mesi scorsi hanno tagliato per ben due volte le tubature che rifornivano di acqua l’intera popolazione civile. Il vescovo di Aleppo, padre Georges Abou Khazen, racconta di quei giorni, quando flussi continui di gente si affollavano presso le fontane edificate vicino a chiese e moschee per tentare di limitare i danni di quell’atto terroristico che ha prostrato la città. Una penuria di acqua che ancora continua, nonostante il ripristino della rete idrica, aumentando i disagi di una popolazione stremata dai bombardamenti continui.

È a Roma il vescovo … E lo incontriamo alla Delegazione di Terra Santa, sua dimora provvisoria prima di tornare alla sua città che da poco, rivela, sta conoscendo un nuovo orrore: i cannoni dell’inferno, come gli jihadisti chiamano il loro ultimo ritrovato balistico. Si tratta di bombole di gas che i cosiddetti ribelli anti-Assad lanciano a grande distanza e fanno esplodere contro civili inermi, spesso modificati applicando sulla bomba artigianale pezzi si ferro e altro che, nell’esplosione, spandono all’intorno schegge, aumentandone la portata letale. Una sorta di bombe a frammentazione fatte in casa, vietate dalle convenzioni internazionali. Bombole di gas che probabilmente arrivano in Siria sotto forma di aiuti umanitari alla popolazione…

Inoltre, prosegue il presule, i miliziani hanno iniziato a usare i tunnel sotterranei che partono dalla cittadella, l’antica fortezza di Aleppo, per raggiungere le varie zone della città: in particolare per piazzare i loro ordigni esplosivi sotto gli edifici storici; ormai il suk, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, è un cumulo di macerie.

A monsignore chiediamo dell’Isis, che incombe a 20 chilometri da Aleppo. «Ora si parla tanto di Isis – risponde – e americani e altri vogliono intervenire per fermarlo. Ma temo che si stia ripetendo un tragico errore: ogni volta che gli americani sono intervenuti militarmente in una regione hanno solo alimentato il caos e le divisioni. A proposito di questo Isis c’è poi da ricordare che Hillary Clinton di recente ha detto che gli Usa si trovano a combattere ciò che hanno creato loro stessi. Già perché l’Isis fu creato per andare contro Assad… ».

Non che non serva intervenire, specifica monsignore, ma per fermare questo mostro serve ben altro che le bombe: «Anzitutto occorre fermare i finanziamenti e il flusso di armi verso questi miliziani: hanno armi sofisticatissime, chi gliele dà?». Gli diciamo che sui giornali italiani scrivono che questi armamenti sono stati saccheggiati dall’Isis all’esercito iracheno. Sorride ironico: vero in parte, spiega, e in parte no. «Poi bisogna smettere di comprare il petrolio dall’Isis», continua. Anche qui accenniamo a quanto riferiscono i giornali, secondo i quali sarebbe venduto ad Assad e agli iracheni. Sorride di nuovo: «Lo comprano le grandi compagnie petrolifere, a dieci dollari al barile invece che a cento…», afferma con sicurezza, come di cosa che in Siria sanno anche i sassi.

E invece continuano a rullare i tamburi di guerra. «Un intervento militare – prosegue il presule – aumenterà la destabilizzazione e renderà ancora più difficile la convivenza tra islamici e cristiani. E dire che questa è andata avanti per secoli, nonostante episodi critici. La Siria era esemplare in questo: c’era convivenza, pluralismo, rispetto. Una caratteristica che ancora dura, anche sotto le bombe cristiani e musulmani si sostengono a vicenda, si aiutano come possono. Questo anche perché per secoli il punto di riferimento degli islamici è stata l’Università di Al Azar, al Cairo, che propugnava un islam moderato. Oggi si sta diffondendo un islam più intransigente, quello wahabita dell’Arabia Saudita: i miliziani apportatori di morte e distruzione vengono da queste scuole, sono formati da muftì e imam di questo ramo islamico. Anche in Siria, quando arrivano, cacciano le autorità religiose locali e mettono le loro. E istituiscono i loro tribunali. Sono cose ignote all’islam della regione. E dire che l’Arabia Saudita sembra sia l’asse portante dell’alleanza che si sta formando contro l’Isis… ». Chiosa monsignore. Lo incalziamo, spiegando che in Occidente si pensa che siamo di fronte a una guerra tra islam e cristianesimo. Non è così, ripete: gli jihadisti ammazzano anche gli islamici che non la pensano come loro, buttano giù le loro moschee. Non è così, ripete.





Gli Stati Uniti, oltre a programmare l’intervento militare, hanno deciso di armare i ribelli moderati siriani. Chiediamo a monsignore cosa ne pensa di questa decisione. «Moderati? E quali sono? Ce lo dicano, noi in Siria non ne vediamo. Tutto il mondo ora parla dell’Isis, ma tutti i gruppi armati che stanno insanguinando la Siria fanno barbarie simili a quelle dell’Isis. Un tempo c’erano anche siriani tra i cosiddetti ribelli, ma oggi l’80% di questi sono stranieri. Non ci sono moderati in Siria. Tra l’altro lo stesso Obama ha detto solo un mese fa che parlare di ribelli moderati in Siria è solo “fantasia”… non ne verrà nulla di buono da questa decisione. Sono armi che vanno in mano a terroristi, ad Al Qaeda». Tra l’altro racconta dei tanti siriani che sono fuoriusciti dalle fila dei ribelli per tornare con Damasco. Un fenomeno carsico che ha interessato centinaia, se non migliaia di persone, del quale l’Occidente ignora l’esistenza.

Resta che Assad è dipinto come un tiranno sanguinario da tutti i media nostrani… «Non sarà la Regina d’Inghilterra, ma ci sono tanti regimi dispotici nel mondo arabo – risponde monsignore -. Parlano delle violazioni dei diritti dell’uomo da parte di Assad… guardino l’Arabia Saudita, dove alle donne è proibito praticamente tutto. Dove a chi non è wahabita è proibito anche pregare in pubblico… Avevano chiesto che il regime si aprisse: Assad ha aperto al pluralismo e nelle ultime elezioni c’erano diversi partiti. Nonostante la guerra sono state abolite le leggi d’emergenza. Ha dato vita a una nuova Costituzione. Alle elezioni il popolo lo ha votato in massa. Certo, non si tratta di una democrazia occidentale, ma ci sono regimi molto peggiori in Medio Oriente…», conclude. E aggiunge che dei cristiani non c’è più traccia nelle zone cadute in mano ai ribelli: le chiese sono state distrutte e non ci sono più sacerdoti né suore né fedeli. Una situazione particolarmente dolorosa per il vescovo. (…)

sabato 27 settembre 2014

UNIVERSALITA' DEL FASCISMO - (Autore: Eugenio Coleschi)

Universalità del Fascismo                                                
Autore: Eugenio Coleschi

Una delle più importanti e significative manifestazioni che hanno accompagnato il decennale della Rivoluzione Fascista è da ricercarsi nell’interessamento rivolto da tutto il mondo civile,  non soltanto alle opere compiute del Regime, ma all’essenza del suo pensiero filosofico, politico, sociale. Il mondo si è rivolto a Roma, con un sentimento che è assai di più della semplice curiosità, e che anche sorpassa l’ammirazione dei visitatori della nuova Italia per gli edifici, le ferrovie, le strade, gl’Istituti creati dall’impeto rigeneratore del Fascismo.
Vi è nel riconoscimento del mondo qualche cosa di più. È la coscienza dell’eternità spirituale di Roma, che ritorna ai popoli travagliati di una vita più alta, e di un ordine più sereno, ansiosi di ritrovare le basi più forti per una società migliore e per una elevazione e una rigenerazione degli uomini che non può venire se non dalla fonte della civiltà, se non dalla origine più pura della luce intellettuale.
La Rivoluzione Fascista, la personalità del Duce, hanno diffuso in tutto il mondo un riflesso grandissimo. E fino dall’inizio, il movimento delle Camicie Nere è stato seguito dall’opinione pubblica dei Paesi più diversi e più lontani, con attenzione appassionata.
Migliaia di volumi sul Fascismo e sul Duce sono apparsi in tutte le lingue e con le più disparate finalità; e la stampa di tutte le Nazioni e di tutti i Paesi, si è largamente occupata dalla marcia su Roma e delle sue conseguenze, sia sotto il profilo interno della politica italiana, sia per quanto riguarda la politica internazionale.
Fare di una mèsse così vasta di giudizi, di opinioni, di studii, d’impressioni, una sintesi armonica, e raccoglierne le espressioni più significative, nel corso di tutto il primo decennio del Regime mi apparve cosa interessante, e sotto un duplice punto di vista anche sommamente utile; ma le difficoltà mi sembravano ardue.
Ho pensato peraltro che convenisse affrontare queste difficoltà. Mancava anzitutto in Italia, e anche all’Estero, una raccolta ove fosse possibile cogliere facilmente, non soltanto le caratteristiche ripercussioni del movimento fascista secondo l’indole, le tradizioni, le mentalità, le particolari circostanze politiche e le attitudini spirituali dei vari Paesi, ma anche secondo la coscienza e il pensiero delle più svariate personalità politiche, letterarie e filosofiche del mondo. Ed appariva altresì di somma utilità il poter seguire, in una raccolta ordinata, non solo per Paesi, ma per anni, l’evoluzione progressiva delle ripercussioni del Fascismo sull’opinione pubblica mondiale.
Organizzare una siffatta raccolta in modo completo era impresa non facilmente superabile, o per lo meno l’opera sarebbe stata così voluminosa da non renderne agevole la consultazione.
Comunque l’aver messo insieme circa un migliaio di giudizi dalle più disparate plaghe del mondo rappresenta una fatica tutt’altro che lieve. E debbo perciò rivolgere una meritata lode (che, meglio di me, confermerà la prevedibile diffusione del libro) al camerata Mario Sani, compilatore attento e sagace, che ha curato la raccolta, seguendo brillantemente le direttive che gli affidai, e dimostrando di saper lavorare con ordine, con acutezza, con diligenza, e soprattutto con sincera e fedele passione fascista.
È assai interessante considerare in questo libro come, col procedere degli anni, si sviluppa il concetto degli stranieri sul Regime Fascista. Si vede, anche da un primo esame complessivo, che i giudizi divengono sempre più frequenti, per culminare in una mèsse davvero imponente (e questo libro non ha potuto riportare che una piccola parte) col Decennale.
Prova questa, del sempre più vasto interesse suscitato dal Fascismo, quanto più si è venuta affermando, colla meravigliosa eloquenza delle realizzazioni compiute, la saldezza, la potenza, l’espansione dello Stato fascista, sempre più profondamente radicato nella fede, nella coscienza, nella volontà del popolo italiano. Ma anche il contenuto dei giudizi e delle impressioni del mondo si va modificando, in modo evidente, col procedere degli anni.
Le prime constatazioni, i primi consensi, sono per il Condottiero intrepido e forte che ha saputo restituire l’ordine, la disciplina, la concordia al suo Paese, ma che ha anche, nel contempo, stroncato il sovversivismo anarchico e bolscevico, il quale, se avesse attanagliato l’Italia, avrebbe costituito un pericolo gravissimo per l’Europa intera. Il Fascismo appare all’Estero, in questo primo periodo (dalla marcia su Roma fino all’affermazione totalitaria del Regime), come un movimento di difesa, come la reazione legittima e salutare contro un Governo debole per sostituivi un Governo forte e ordinato. Il consenso intorno al Fascismo è, nei primissimi anni, circoscritto alla solidarietà degli elementi moderati di ogni Paese contro le forze sovversive.
In questo senso, vi è stato chi ha riconosciuto la possibilità di una internazionale fascista. La parola non ci ha soddisfatto per l’ambiguo significato; ma soprattutto non ci piace che il carattere mondiale, universale del Fascismo debba rilevarsi in un lato secondario, transeunte, e diremo anzi nella fase della dottrina e dell’azione fascista puramente demolitrice. Il preteso internazionalismo fascista mette sullo stesso piano movimenti diversi, troppo contrastanti fra loro, e solo in apparenza simili a certe esteriorità primitive del Fascismo.
Vi può essere un internazionalismo sovversivo e un internazionalismo antisovversivo; cioè la somma delle forze disgregatrici della società e la somma delle forze che a tale disgregazione, caotica e materialista, senza ordine e senza legge, vogliono opporsi.
Ma anche a questo proposito, bisogna distinguere: vi sono delle correnti nell’Europa e nel mondo nettamente conservatrici, nemiche dichiarate di ogni innovazione e di ogni progresso, attaccate a vecchie formule e vecchi privilegi, schiave del mercantilismo plutocratico e della tirannia bancaria. Queste sono forze reazionarie e conservatrici; e poco importa che il loro nome, la loro etichetta le ponga sotto la luce di una falsa democrazia.
Con esse il Fascismo non ha avuto e non avrà mai assolutamente nulla in comune.
I reazionari e i conservatori ad oltranza, anche se camuffati da democratici, non possono aver compreso, del Fascismo, che un lato puramente episodico e passeggero, ma non hanno certo potuto cogliere subito l’intima essenza che non è demolitrice, ma creatrice; ed è soprattutto squisitamente rivoluzionaria; intendendosi, come noi la intendiamo, la rivoluzione, nel senso di rinnovamento completo, di elevazione, di progresso purificatore, di resurrezione e trasformazione profonda, non solo degl’Istituti, ma delle coscienze, delle anime, delle idealità.
La grandezza e  l’Universalità del Fascismo è appunto nella formazione di uno Stato nuovo, che, superando il liberalismo, la democrazia e il socialismo, si afferma come una nuova norma generale di vita, per un assetto migliore della Società umana, per la composizione dell’equilibrio sociale, per la formazione di una nuova coscienza europea, in un sentimento unitario, nella solidarietà di una più alta missione.
E questo concetto dell’unità e della universalità del Fascismo è appunto quello che si fa strada, sempre di più, nella coscienza del mondo, finché, col Decennale, diviene il convincimento più sentito della parte sana, studiosa e pensosa di tutti i popoli civili, costituendo così la base naturale per la nuova missione della civiltà romana. Civiltà che fu e sarà sempre imperialista; cioè mondiale, nel senso più alto e più puro della parola.
Imperialista coi Cesari, imperialista col Cattolicesimo e col Papato, imperialista con Mussolini: cioè propagatrice di una legge superiore e generale nel mondo. L’Italia di Mussolini ha posto col suo ordinamento corporativo, le basi di questa trasformazione della Società, ha eretto colla rafforzata coscienza dello Stato, dei pilastri alla evoluzione della economia mondiale.
Uscendo da una guerra vittoriosa, la nostra Patria non si è chiusa nel godimento di un egoistico vantaggio o nel beneficio della recuperata tranquillità. Ha continuato invece la sua inesauribile offerta d’amore.
Essa entrò in guerra per uno slancio spontaneo, per una offerta disinteressata, per un atto di sublime altruismo. L’unione di tutti i produttori, in un vincolo di superiore solidarietà di fronte allo Stato, che perpetua, nel tempo e nello spazio, la vita dei cittadini, costituisce una forza e un esempio soprattutto morale, e perciò, universale. Così nella rinunzia dell’immediato e più ristretto vantaggio, l’Italia si appresta a dare al mondo il tesoro unitario della sua concezione e della sua esperienza politica e civile, e la bellezza della sua idealità sociale, ove i principii umani della romanità eterna si fondono con le idealità divine della rivelazione cristiana.
Il privilegio di uscire dal dolore, dal sangue e dal sacrificio, moralmente più grande e idealmente più giovane, la ventura di aver compreso come dai popoli che si sono combattuti in guerra deve balzare una sola fiamma, per l’avvenire migliore di tutti; ecco il segno della forza vera e della più nobile superiorità. Non mai come nei tempi che attraversiamo, particolarmente gravi, delicati e complessi, l’Italia è risalita, di fronte al mondo, alla purezza del suo carattere essenziale, alla sua tradizione più genuina e alla sua funzione più alta.
La politica internazionale deve oggi trovare il modo di congiungere insieme, la necessità di una organizzazione pratica e di rimedi precisi, positivi e solidi, per fronteggiare la crisi economica, e un pensiero di sano idealismo, che è nemico tanto del conservatorismo egoista, quanto di quelle ideologie convulse e sfrenate che non sono temperate dalla consapevolezza realistica e dalla prudente esperienza del vero. Di queste necessità urgenti e universali, si è fatta interprete, sola ed eloquente, la nuova Italia. Essa ha detto le parole che tutto il mondo attendeva, e la sua politica si è delineata in un accordo insuperabile fra la realtà e l’ideale.
Il mondo ha dei palpiti primitivi, rudimentali, comprensibili a tutti, che sono l’espressione stessa della natura. Questi palpiti sorgono dal comune istinto, dalla comune aspirazione dei popoli in certi periodi particolarmente travagliati ed oscuri. L’Italia ha manifestato per tutti, questo sentimento primordiale, essenziale e profondo. Ha ormai riassunto in pieno la sua missione di Forza – direttrice, di Nazione – guida dei popoli.
L’orizzonte europeo è sempre oscuro. Ma prima o poi dovrà pur venire la desideratissima aurora. E il primo raggio che annunzierà questo giorno nuovo (il giorno che invocano tutti gli uomini di buona volontà sulla terra), uscirà, ancora una volta, dalla rinnovata forza d’Italia.
Indipendentemente dagl’incontri, dai convegni, dalle conferenze formali, vi è una finalità superiore a qualunque intrigo e a qualunque particolarismo, una finalità che si fa strada nel cuore di ogni popolo, come una grande corrente istintiva: quella di addivenire a un nuovo ordinamento nei rapporti fra le Nazioni che istauri una solida e duratura base per una più tranquilla vita europea.
La vecchia Europa non è ancora riuscita a mettersi risolutamente sulla via di stretta solidarietà d’interessi, che può costituire il substrato necessario per una solidarietà spirituale veramente profonda; di quella solidarietà che potrà sanare le piaghe ancora cocenti che vi hanno lasciato le angosce della guerra e le ingiustizie della pace.
Molti difensori si sono presentati innanzi alle platee delle angustiate folle d’Europa. Ma erano istrioni volgari, colla maschera del pacifismo bene accomodata sul volto e con le ali d’angelo della pace fatte di cartapesta dorata. Non saranno certo questi ciurmatori che porteranno i rimedi salutari. Noi abbiamo fede che questo declino apparente dell’Europa prometta una sfolgorante ripresa di civiltà. Ma sarà fatale e necessario che una Nazione europea sia destinata a elaborare ed attuare gli elementi etici e politici e civili del nuovo sistema europeo, del nuovo sistema mondiale.
E allora l’antagonismo fra Oriente e Occidente si trasformerà, come per un prodigio, nella fiamma di una nuova civiltà umana. Dall’Oriente all’Occidente, riconciliati e risollevati nell’impeto di una forza morale religiosa e politica mirante alla unità indistruttibile degli spiriti, sorgerà la giusta pace del mondo. Ecco la vera potenza creatrice dell’azione e della dottrina Fascista.
Il sistema politico e sociale, istaurato dalla Rivoluzione Fascista, è una grande cosa, ma vi è ancora qualche cosa di più grande. È la forza ideale, conduttrice, animatrice e unitaria di Roma, che si proietta naturalmente a coordinare tutta l’Europa. È la luce della verità, è la potenza dell’armonia che può disperdere le disgregate e convulse agitazioni e le incertezze e gli squilibri che minacciano di far crollare il vecchio mondo, nell’oscurità di una irrimediabile rovina. Rovina morale ed economica.
La crisi che l’Europa attraversa è da ricercarsi essenzialmente nella mancanza di un principio unitario. Bisogna che alla molteplicità, allo spezzettamento, al dissolvimento, alla frantumazione, si sostituisca una supremazia spirituale, una ispirazione unica e superiore, la quale sia la norma, la guida, la verità suprema.
Quello che il Duce affermò innanzi al Parlamento, con serena e severa fermezza, nella solenne seduta celebrativa del Decennale è ormai convincimento della più profonda coscienza europea. La salvezza non può che venire da Roma perché (come ha ben detto il delegato polacco al recente convegno Volta, S.E. Waclaw Grzybowski) Roma è l’unica città del mondo che ha l’aspetto e l’anima di Capitale.
Non basta l’ampiezza di una città a stabilire la vera funzione di Capitale, non bastano le sue ricchezze, non bastano i suoi monumenti. Non si domina in perpetuo, se non in virtù di un’idea immortale, se non con la forza di una civiltà inestinguibile. Ora questa eternità di una missione civilizzatrice e animatrice, forma una sola compagine con le pietre, con le vie, con le piazze di Roma.
Nel tratto della Via dell’Impero e nelle sue immediate adiacenze, ecco il Colosseo, il Campidoglio, la Chiesa d’Aracoeli, il Palazzo Venezia, l’Altare della Patria. Quanta storia! Quante epoche diverse! E quale meravigliosa continuità di grandezze eroiche, spirituali, morali, politiche! Non sono pietre queste, sono luci; non sono monumenti questi, sono Are. Il destino di Roma e il segreto arcano di Roma è in questa meravigliosa spiritualità, dominatrice e sovrana, che signoreggia la materia, che fa della materia una fiamma, e delle cose transitorie, una espressione di vita, di poesia, d’idealità che oltrepassa gli uomini e i secoli, e ha per confini la gloria di tutti i tempi.
Fra i più acuti giudizi sul Fascismo credo debbano essere annoverate le dichiarazioni di Sir Charles Petric. Parlando al Congresso Volta della civiltà, e dopo aver giustamente riconosciuto nell’Europa la sorgente di ogni vivere civile, questo Baronetto inglese, membro della Reale Società di Storia, affermò che la civiltà dell’Europa è quella di Roma ossia alla purezza delle origini, se si vuole aver ragione delle presenti difficoltà.
«Ancora una volta è a Roma – Egli disse – che il mondo civile guarda per ispirarsi. Il Fascismo è stato mirabilmente definito e riassunto come il senso comune applicato alla politica e alla economia; ma esso è qualche cosa di più, cioè è la restaurazione, in moderna terminologia, degli ideali che fecero dell’antica Roma la massima impresa della storia umana. In altre parole esso è la reincarnazione di quella civiltà romana sulla quale è basata la civiltà europea».
Ci sembra che si Charles Petric abbia meglio di ogni altro sentito ciò che vale e rappresenta oggi l’Italia mussoliniana. Il pensiero, ormai generale, la sintesi della concezione europea e mondiale sul Fascismo è appunto questa (e ciò si rileva agevolmente dalle pagine di questo libro): ciò che occorre oggi alla futura trasformazione del mondo, verso una più alta idealità, verso una potenza spirituale più duratura e più profonda, verso una organizzazione della Società europea più salda e completa, verso una più feconda concordia creatrice di fortuna e di gloria.
Nel periodo storico che attraversiamo, contro le forze disgregatrici, non può opporsi altro che l’unità. Il principio unitario è oggi espresso dal pensiero della nuova Italia. Il popolo italiano, erede e continuatore, come lo definì l’Alighieri, dei diritti imprescrittibili del popolo di Roma, ritenta eroicamente, da solo, la grande prova di ricondurre il mondo alla sua unità morale.
Non mai come in questo periodo di crisi angosciose, di difficoltà supreme, di contrasti acuti e profondi, nel convulso tormento di tanti interessi materiali, si ha la confusa sensazione che tutto il mondo ha bisogno di un respiro nuovo, d’uno slancio nuovo; si sente quasi, nelle profondità incerte dell’istinto, l’annunzio di un Regno dello Spirito che dovrà venire, che verrà.
E’ necessario il ritorno fatale di un ciclo unitario che riaffermi come assimilazione e comprensione delle diverse energie dei popoli europei nella unica sostanza della vera e duratura civiltà europea. Questa unità e questa sostanza non può che avere un nome, perché solo questo nome vive e si perpetua nei secoli, perché solo questo nome ha potuto resistere ai secoli.

È il nome del Passato e del Presente.
È il nome del Futuro e dell’Eterno.
È il nome della Chiesa e dell’Impero.

È ROMA.                                                                  

Autore: Eugenio Coleschi



giovedì 25 settembre 2014

ECONOMIA FASCISTA! GIUSTIZIA SOCIALE!

                                    ECONOMIA FASCISTA! GIUSTIZIA SOCIALE!    
                            

 

 
                                                                                                                                
 NOI MARCIAMO DECISAMENTE VERSO IL POPOLO, PER IL POPOLO, CON IL POPOLO,
PERCHE' SIAMO LA RIVOLUZIONE IN MARCIA CONTRO L'INGIUSTIZIA E LA VILTA',
IL DISONORE E IL TRADIMENTO, LA DELINQUENZA LEGALIZZATA DA UNA PREZZOLATA
IMMUNITA'.

---------------------------------------------------------------------------------------------
ECONOMIA FASCISTA -
SOCIALIZZAZIONE
...in questa economia, i lavoratori diventano, con pari diritti e pari doveri,
collaboratori nell'impresa allo stesso titolo dei fornitori di capitali o dei
dirigenti tecnici. Nel tempo fascista il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni,
diventa il metro unico col quale si misura l'utilita' sociale e nazionale degli
individui e dei gruppi.

(Mussolini 23 Marzo 1936)
 

-----------------------------------------------------------------------
"Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano." 
---------------------------------------------------------------- > STATO CORPORATIVO - SOCIALIZZAZIONE
> Che cosa significa questa piu' alta  giustizia sociale? Significa il
> lavoro garantito, il
> salario equo, la casa decorosa, significa la possibilità di evolversi
> e di migliorare
> incessantemente: non basta: significa che gli operai, i lavoratori
> devono entrare
> sempre più intimamente a conoscere il processo produttivo ed a
> partecipare alla
> sua necessaria disciplina.
> Mussolini

-----------------------------------------------------------------------------------
 UNA REALTA' INDISTRUTTIBILE
PERSEGUITATO, DEMONIZZATO, DATO PER MORTO DOPO LA SCONFITTA MILITARE
DEL 1945, IL FASCISMO E' RIUSCITO COMUNQUE A RESTARE PRESENTE NELLA REALTA'
NAZIONALE NON SOLO GRAZIE ALLA FEDELTA' DEI SUOI CONTINUATORI, MA ANCHE
PER LE INSANABILI IMPOTENZE E LE CONGENITE INSUFFICIENZE DELLA ANTISTORICA
UTOPIA ANTIFASCISTA, INCAPACE DI GOVERNARE LA NAZIONE: COME TUTTE LE
VERITA' NEGATE, IL FASCISMO E' COSI' INESORABILMENTE VISSUTO NELLA STESSA
NEGAZIONE CHE DI ESSO SONO STATI COSTRETTI A FARE GLI AVVERSARI
NELL'INUTILE TENTATIVO DI ESORCIZZARLO.


martedì 23 settembre 2014

STORIA VERITA' Come l'economia di guerra USA provocò l'attacco giapponese

STORIA VERITA'


Come l'economia di guerra USA provocò l'attacco giapponese

di Robert Higgs

Molte persone vengono ingannate dalle formalità. Per esempio, suppongono che gli Stati Uniti entrarono in guerra contro Germania e Giappone solo dopo che queste nazioni dichiararono loro guerra nel dicembre del 1941. In realtà, gli Stati Uniti erano in guerra molto prima di questa dichiarazione, una guerra con diverse forme.
Ad esempio, la marina militare americana aveva l'ordine di "sparare a vista" ai convogli [tedeschi] – a volte anche contro navi britanniche – nell'Atlantico del Nord, nel tratto dove passavano le spedizioni dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, anche se gli U-boat tedeschi avevano l'ordine di astenersi (e si astennero) dal cominciare attacchi contro le spedizioni statunitensi. USA e Gran Bretagna avevano accordi di intelligence, sviluppavano assieme armamenti, facevano test militari combinati e altre forme di cooperazione militare.

L'esercito statunitense cooperava attivamente con l'esercito britannico nelle operazioni di combattimento contro i tedeschi, ad esempio, quando avvistava i sottomarini tedeschi allertava la marina inglese così poi gli inglesi attaccavano. Il governo degli Stati Uniti si impegnò in molti modi per fornire assistenza militare ad inglesi, francesi, e sovietici che stavano combattendo i tedeschi. Il governo americano fornì armamenti ed assistenza, tra cui aerei e piloti, anche ai cinesi che erano in guerra con il Giappone. L'esercito americano si impegnò attivamente nel pianificare assieme agli inglesi, ai paesi del Commonwealth Britannico e alle Indie Orientali Olandesi future operazioni militari contro il Giappone. Molto importante fu il fatto che il governo americano si impegnò in una guerra economica, con misure sempre più stringenti, che portò il Giappone in una situazione molto difficile, che le autorità statunitensi ben compresero, li spinsero ad attaccare territori statunitensi e li forzarono a cercare di assicurarsi quelle materie prime essenziali nel Pacifico sulle quali americani, inglesi e olandesi (governo in esilio) avevano posto l'embargo.

Roosevelt aveva già portato gli Stati Uniti in guerra contro la Germania nella primavera del 1941 – una guerra su scala minore. Da allora aumentò via via la partecipazione militare statunitense. l'attacco giapponese del 7 dicembre gli permise di aumentare notevolmente la partecipazione ed ottenere una dichiarazione di guerra. Pearl Harbor viene rappresentata come la fine di una catena di eventi, con il contributo americano che riflette una strategia formulata dopo la caduta della Francia... Agli occhi di Roosevelt e dei suoi consiglieri le misure prese ad inizio 1941 giustificarono la dichiarazione di guerra tedesca contro gli Stati Uniti – una dichiarazione che non arrivò con disappunto... Roosevelt disse al suo ambasciatore in Francia, William Bullitt, che gli Stati Uniti sarebbero sicuramente entrati in guerra contro la Germania, ma dovevano aspettare un "incidente", e che era "fiducioso che la Germania ce lo avrebbe dato"... Stabilire una testimonianza in cui il nemico avesse sparato per primo era la tattica perseguita Roosevelt... [Alla fine] pare abbia concluso – correttamente, come poi risulterà – che sarebbe stato più facile provocare un attacco giapponese che uno tedesco.

L'affermazione che il Giappone attaccò gli Stati Uniti senza nessuna provocazione fu... tipica retorica. Funzionò perché il pubblico non sapeva che l'amministrazione aveva previsto che il Giappone avrebbe risposto con azioni militari alle misure anti-giapponesi prese nel luglio del 1941... Prevedendo la sconfitta in una guerra contro gli Stati Uniti – e in maniera disastrosa – i leader giapponesi provarono disperati negoziati. Su questo punto molti storici sono da tempo concordi. Nel frattempo, sono venute fuori le prove che Roosevelt e Hull avevano costantemente rifiutato ogni negoziato.... il Giappone... offrì compromessi e concessioni che gli Stati Uniti contrastavano con crescenti richieste... Fu dopo aver appreso della decisione che giapponesi sarebbero entrati in guerra contro gli Stati Uniti nel caso i negoziati si sarebbero "guastati" che Roosevelt decise di interromperli... Secondo il procuratore generale Francis Biddle, Roosevelt auspicava un "incidente" nel Pacifico per portare gli Stati Uniti nella guerra europea.

Questi fatti come numerosi altri che puntano nella stessa direzione non sono nulla di nuovo; molti di questi sono disponibili al pubblico già dagli anni '40. Fin dal 1953, chiunque abbia letto una raccolta di saggi molto documentati sui vari aspetti della politica estera degli Stati Uniti alla fine degli anni '30 e inizio '40, pubblicati da Harry Elmer Barnes, che mostravano i molti modi in cui il governo degli Stati Uniti sostenne la responsabilità dell'eventuale ingresso del paese nella Seconda Guerra Mondiale – mostravano, in breve, che l'amministrazione Roosevelt voleva portare il paese in guerra e di come lavorò d' astuzia su vari sentieri per arrivarci, prima o poi sarebbe entrato in guerra, preferibilmente in modo da riunire l'opinione pubblica nel sostenere la guerra facendo sembrare gli Stati Uniti una vittima di un’ aggressione senza provocazione. Come testimoniò il Segretario di Guerra Henry Stimson dopo il conflitto, "avevamo bisogno che i giapponesi facessero il primo passo."

Al momento, comunque, 70 anni dopo questi eventi, probabilmente non c' è un americano su 1000, anzi 10000, che abbia una vaga idea di questa storia. La fazione pro-Roosevelt, pro-americani, pro-Seconda Guerra Mondiale è stata così efficace che in questo paese l'insegnamento e la scrittura popolare sono totalmente dominati dalla visione che gli Stati Uniti si siano impegnati in una "Guerra Buona".

Alla fine del XIX secolo l'economia giapponese iniziò una rapida crescita ed industrializzazione. Dal momento che il Giappone ha poche risorse naturali, molte delle sue industrie in rapida crescita dovevano fare affidamento sulle importazioni di materie prime, come carbone, ferro, acciaio, stagno, rame, bauxite, gomma, e petrolio. Senza un accesso a queste importazioni, molte delle quali provenienti dagli Stati Uniti o dalle colonie europee del Sudest Asiatico, l'industria giapponese si sarebbe arrestata. Tuttavia, impegnandosi nel commercio internazionale, nel 1941 i giapponesi avevano costruito un' economia industriale piuttosto avanzata.

Allo stesso tempo, costruirono un complesso militare industriale per supportare una marina ed un esercito sempre più potente. Queste forze armate permettevano al Giappone di proiettare il suo potere in diverse zone del Pacifico e dell'Asia Orientale, comprendendo la Corea e il nord della Cina, proprio come gli Stati Uniti che usarono la loro industria in espansione per la realizzazione di armamenti che proiettarono il dominio statunitense nei Caraibi, America Latina, ed anche in paesi lontani come le Filippine.

Quando nel 1933 Franklin D. Roosevelt divenne presidente, il governo degli Stati Uniti cadde sotto il controllo di un uomo a cui non piacevano i giapponesi e nutriva un affetto per i cinesi dato che, hanno ipotizzato alcuni scrittori, i suoi antenati si erano arricchiti con il commercio con la Cina. A Roosevelt non piacevano neanche i tedeschi in generale, e particolarmente Adolf Hitler, e propendeva per favorire gli inglesi nelle relazioni personali e negli affari. Non prestò molta attenzione alla politica estera, finché il suo New Deal non cominciò ad esaurirsi nel 1937. In seguito si affidò molto alla politica estera per soddisfare le sue ambizioni politiche, come il suo desiderio di essere rieletto ad un terzo mandato senza precedenti.

Quando la Germania cominciò il riarmo e la ricerca del Lebnsraum (spazio vitale) in maniera aggressiva, alla fine degli anni '30, l'amministrazione Roosevelt collaborò con Francia e Gran Bretagna per contrastare l'espansione tedesca. Dopo che la Seconda Guerra Mondiale iniziò nel 1939, questa assistenza statunitense crebbe molto, includendo misure come il cosiddetto accordo dei cacciatorpedinieri e il programma dal nome ingannevole Lend-Lease. In previsione dell'ingresso in guerra degli Stati Uniti, il personale militare inglese e americano formulò piani segreti di operazioni congiunte. Le forze americane cercavano di creare un pretesto per giustificare l'ingresso in guerra, cooperando con la marina britannica, attaccando gli U-boat tedeschi nel nord dell'Atlantico, ma Hitler non abboccò all'esca, negando così a Roosevelt il pretesto che voleva gli Stati Uniti a tutti gli effetti un paese belligerante – una belligeranza che trovava l'opposizione della maggioranza degli americani.

Nel giugno 1940, Henty L. Stimson, che aveva servito come Segretario alla Guerra durante il mandato di William Howard Taft e come Segretario di Stato sotto Herbert Hoover, divenne ancora Segretario alla Guerra. Stimson era un leone anglofilo, faceva parte dell'elite del nordest, e non aveva nessuna simpatia per i giapponesi. A supporto della politica delle porte aperte con la Cina, Stimson favorì l'uso di sanzioni economiche per ostacolare l'avanzata giapponese in Asia. Il Segretario del Tesoro Henry Morgenthau e il Segretario dell'Interno Harold Ickes appoggiarono con forza questa politica. Roosevelt sperava che queste sanzioni avrebbero spinto i giapponesi a fare un errore avventato attaccando gli Stati Uniti, trascinando in guerra anche la Germania, dato che Germania e Giappone erano alleati.

L'amministrazione Roosevelt, mentre respingeva seccamente le aperture diplomatiche giapponesi per armonizzare le relazioni, imponeva una serie di sanzioni economiche sempre più stringenti. Nel 1939, gli Stati Uniti conclusero il trattato commerciale con il Giappone del 1911. "Il 2 luglio 1940, Roosevelt firmò l'Export Control Act, che autorizzava il presidente a concedere o negare le esportazioni di materiali di difesa essenziali." In base a tale autorità, "il 31 luglio, le esportazioni di carburante e lubrificanti per motori d' aereo, ferro e acciaio furono ridotte." In seguito, dal 16 ottobre, con una mossa contro il Giappone, Roosevelt decretò l'embargo "di tutte le esportazioni di ferro e acciaio non destinate alla Gran Bretagna e alle nazioni dell'emisfero occidentale." Alla fine, il 26 luglio 1941, Roosevelt "congelò gli asset giapponesi negli Stati Uniti, ponendo fine alle relazioni commerciali con il Giappone. Una settimana dopo Roosevelt vietò le esportazioni dei carburanti che ancora avevano mercato in Giappone." Inglesi e olandesi dalle loro colonie nel sudest asiatico seguirono a ruota, ponendo l'embargo alle esportazioni con il Giappone.

Roosevelt e i suoi collaboratori sapevano che stavano mettendo il Giappone in una posizione insostenibile e che il governo giapponese per tentare di sfuggire alla morsa sarebbe potuto entrare in guerra. Avendo decriptato il codice dei diplomatici giapponesi, i leader americani sapevano, tra le altre cose, che il Ministro degli Esteri Tejiro Toyda aveva comunicato il 31 luglio all'ambasciatore Kichisaburo Nomura che "Le relazioni commerciali ed economiche tra Giappone e paesi terzi, guidati da Inghilterra e Stati Uniti, sono diventate spaventosamente tese da non poter essere più sopportate. Di conseguenza, il nostro Impero, per salvare la sua stessa vita, deve prendere delle misure per assicurarsi le materie prime dei Mari del Sud."

Dato che i crittografi americani avevano decodificato anche i codici della marina giapponese, i leader di Washington sapevano che le "misure" giapponesi includevano un attacco a Pearl Harbor. Ma non diedero queste informazioni ai comandanti nelle Hawaii, che avrebbero potuto fronteggiare l'attacco o almeno prepararsi. Che Roosevelt e i suoi generali non abbiano suonato l'allarme ha perfettamente senso: dopo tutto, l'attacco imminente era quello che cercavano da tempo. Come confidò Stimson nei suoi diari dopo l'incontro del Gabinetto di Guerra del 25 novembre, "La questione era di come avremmo potuto manovrarli [i giapponesi] per farli sparare per primi senza danneggiarci troppo." Dopo l'attacco, Stimson confessò che "il mio primo sentimento fu di sollievo... la crisi era venuta nel modo che avrebbe unito il nostro popolo."

Fonte:Come Don Chisciotte


                                                                                                                          

domenica 21 settembre 2014

I COMBATTENTI DELLA RSI, ULTIME SENTINELLE DELLA TERRA


Italia - Repubblica - Socializzazione

I combattenti della RSI, ultime sentinelle della terra


Premessa necessaria
Il primo fra noi a parlare di resistenza fu il prof. Carlo Alberto Biggini, ministro dell’educazione nazionale prima del 25 luglio e durante la RSI, con un articolo pubblicato dal "Popolo di Roma" del 21 aprile 1943. Dopo pochi giorni, infatti, con la caduta di Tunisi, si concluse l’ultimo atto della nostra tragedia africana. Lo scritto del ministro Biggini, additando ad insegnanti e studenti la consegna ad impegnare tutte le energie nel fronteggiare l’imminente sbarco del nemico sulle nostre coste, suscitò un clima di alta tensione patriottica; la quale raggiunse il suo acme con il discorso di Giovanni Gentile pronunciato dal Campidoglio il successivo 24 giugno, in cui, come italiano e «non gregario di un partito, che divide», egli auspicò la concorde unione di tutte le forze per la difesa della Patria, che stava per essere invasa. Così parlò il ministro: «Questa grande ora della nostra storia non può non essere viva nella coscienza di ogni docente, perché viva fu, in circostanze simili, nella coscienza dei nostri padri (…) Oggi la loro voce ha nelle aule scolastiche un timbro che non ebbe mai; da Dante a Mazzini tutti i grandi italiani diventano testimoni della certezza che alla più nobile delle nazioni spetti il più nobile destino (…) La scuola ha sempre rivendicato a sé il diritto di essere la prima custode dell’integrità spirituale del Paese, ora più prezioso di questo non vi ha, per fornire di questo suo privilegio il segno più austero (…) insegnare non può avere oggi altro significato che insegnare a resistere (…) Oggi il nostro lavoro non può essere che lotta, affinché la nostra pace sia una Vittoria». In quel frangente gli italiani percepirono di vivere un momento cruciale della loro storia. Poi la lotta ci fu e, sciaguratamente, fu anche fratricida. La cui analisi, però, esige una preliminare reinterpretazione critica delle sue non poche anomalie, prima fra tutte quella che, pur avendo essa assunto le caratteristiche di vera e propria guerra civile, a motivo di attività militarmente irrilevanti (Eisenhower), è stata contrabbandata come guerra di liberazione nazionale. Anche la sentenza n° 747 emessa dal Tribunale Supremo Militare in data 26.04.54, nel generoso intento di eludere che: «… al cospetto delle altre nazioni» si formasse «una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano», gettò un pietoso velo sopra una amara realtà, affermando che: «… la guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta». Ciò corrisponde al vero solo in parte, perché –come è stato dimostrato in sede storica- la guerra civile fu propiziata dal nemico ancor prima dell’8 settembre 1943; nemico che non combatteva il fascismo in quanto tale, bensì mirava a fiaccare in ogni senso i popoli europei, per meglio dominarli in seguito.

La guerra civile in Italia
L’Esercito italiano entrò in guerra nel ‘40 senza alcuna preparazione alla guerriglia-controguerriglia; la classe dirigente fascista –anche durante la RSI– mostrò una spiccata tendenza alla regolarità-legalità; lo scontro Ricci-Graziani e le difficoltà che incontrò la costituzione delle BB.NN., la dicono lunga nel merito; la stessa Wehrmacht, erede del «grande S.M. prussiano», elaborò le prime disposizioni per la controguerriglia nel maggio del 1944. Anche nella resistenza, soltanto pochissimi dirigenti comunisti, che avevano assorbito i concetti leninisti riguardanti l’inimicizia assoluta, la inseparabilità della guerra partigiana dalla guerra civile e la ineluttabilità della rivoluzione violenta, possedevano cognizioni di guerra rivoluzionaria. Ciò li indusse in errori gravissimi: non tollerarono il biunivoco rapporto che li legava (unico fattore l’antifascismo) agli altri partiti componenti il CLN, il quale registrò nel suo interno drammatiche tensioni ed eccidi, molti dei quali attribuiti ai fascisti o insabbiati; combatterono, come nemico di classe, un esercito costituito da lavoratori e da figli di lavoratori; infierirono selvaggiamente, dopo il 25 aprile ’45, su fascisti giovanissimi, che, in buona fede, avevano deposto le armi.
Difatti, salvo rarissime eccezioni, da entrambe le parti contendenti non emersero personalità autenticamente rivoluzionarie, dotate di forti convinzioni, d’indipendenza di giudizio e di vocazione alla lotta anche nella solitudine. Tant’è che ben presto gli italiani si divisero in attivisti della NATO e in quelli del Patto di Varsavia, così palesando tutto il proprio servilismo nei confronti dei «padroni del vapore», USA-URSS-Vaticano. Si deve però aggiungere che, come sostiene Pacifico D’Eramo con il suo libro di perenne attualità "La liberazione dall’antifascismo", c’è: «… incompatibilità tra l’abito mentale e morale fascista e la guerra partigiana, per quanto ciò significa di bene e di male. Mancanza, da parte fascista, di una tradizione e di uno spirito rivoluzionari, della volontà di opporsi al potere costituito, ma anche necessità di agire a viso aperto, di battersi per i propri ideali sul campo di battaglia e non mediante l’insidia, il colpo alla nuca, la premeditata provocazione dell’odio, l’uccisione di connazionali inermi. Non di meno, è attuale anche la riflessione di C. Peuy: «Le mani più pure della guerra straniera sono più pure delle mani più pure della guerra civile».
L’attività della resistenza italiana fu diretta:
1) ad uccidere proditoriamente fascisti e tedeschi, anche secondo le direttive giornaliere di radio Londra;
2) a molestare le formazioni militari di uno Stato italiano de facto, che tuttavia: «… emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l’autorizzazione dell’alleato tedesco», rispetto quello de jure, che: «… esercitava il suo potere sub condicione nei limiti assegnati dal comando degli eserciti nemici» (pag. 35 della sentenza), e dava luogo ad una fiera ed efficiente difesa contro il nemico sui confini di terra, di mare, di cielo. I partigiani, invece, agirono d’appoggio alle truppe nemiche e sostennero (i soli socialcomunisti) persino la pretesa di Tito di portare il nostro confine orientale fino a Cervignano. Conclusa la pace, i partigiani R. Pacciardi e P. E. Taviani concessero rispettivamente l’installazione delle basi americane in Italia e la "Zona B" del Territorio Libero di Trieste alla Iugoslavia;
3) a disturbare le truppe non di un esercito occupante (non dimentichiamo che fu lo S.M. di Badoglio a sollecitare presso i tedeschi l’invio in Italia di 16 divisioni), bensì quelle di una Nazione alleata. Ciò la distingue nettamente dalle formazioni partigiane operanti in altri paesi contro eserciti realmente invasori.
4) tale resistenza fu contraddistinta da completa dipendenza dagli eserciti nemici (e che fossero nemici lo conferma il più alto Organo della giustizia militare dell’Italia attuale), i quali la diressero, la finanziarono e armarono. Lo dimostrano: il Promemoria di accordo fra il CLNAI e il Comando supremo alleato sottoscritto a Caserta il 07.12.1944, la presenza di un capo militare designato dagli Alleati nella persona del gen. R. Cadorna, la occhiuta missione militare alleata con sede in Svizzera, e le altre commissioni paracadutate nelle zone in cui si verificavano deviazioni dai compiti loro assegnati;
5) i partigiani italiani, per altro, furono riconosciuti del governo c.d. legittimo mediante provvedimento del 28.02.1945, con grave pregiudizio giuridico delle azioni precedentemente compiute.
In Italia, quindi, le resistenze furono due:
* quella della RSI, nel corso della quale circa 800 mila italiani, subendo con profonda ripulsa ed amarezza la guerra civile, combatterono tenacemente contro gli angloamericani e contro le bande slave che premevano sul confine orientale. Questa perse la guerra con onore e acquisì il diritto di risorgere nell’avvenire;
* quella dei partigiani degli angloamericani, i quali -malgrado la volontà contraria di taluni suoi protagonisti pensosi del bene della Patria– agì in funzione di finalità opposte agli interessi del popolo italiano. Questa non ha saputo vincere la pace ed è responsabile della degenerazione morale, politica sociale e religiosa del popolo italiano.

Carenze semantiche del termine "partigiano"
Al centro delle varie interpretazioni del "partigiano" si colloca, per acutezza e completezza d’indagine storico-giuridico-filosofica la "Teoria del partigiano" (Il Saggiatore, Milano 1981), pregevole opera del noto filosofo del diritto e dello Stato, Carl Schmitt, alla quale, in questa sede, ci riferiamo solo di sfuggita. Come è noto, le convenzioni internazionali dell’Aja e di Ginevra individuano nella irregolarità e illegalità i precipui caratteri distintivi dell’azione partigiana, e quelli accessori nella mobilità, impegno politico, carattere tellurico, clandestinità e oscurità. Però, dal momento che nel corso di eventi bellici non sono da escludere azioni malavitose e mercenarie, adottando soltanto questi parametri, si corre il rischio di raccogliere sotto la medesima categoria più soggetti diversi e fra loro antinomici e, omettere l’elemento fondamentale della prassi rivoluzionaria, la sorpresa. Ciò deriva dall’abusato sofisma che presenta la guerra rivoluzionaria come minore, rispetto a quella regolare vista come maggiore. Nondimeno, potendosi la prima valere degli aspetti più complessi della psicologia (si pensi alle innumerevoli varianti della prassi cui può dar luogo il volontarismo soggettivistico, secondo il quale le situazioni non sono valutabili se non dal modo in cui il singolo soggetto le percepisce) è da considerarsi arte più sottile e creativa della seconda. Comunque sia, è assurdo comprendere la nozione e il carattere della guerra partigiana come contemplata in un orizzonte in cui appaiano una pluralità di situazioni tutte ordinate –come in teologia– ad unico fine. Senza cioè tener conto che è la volontà autonoma individuale a guidare le azioni umane, e, quindi, che le finalità ad esse sottese non possono che essere giudicate, secondo situazioni operative oggettivamente e soggettivamente diverse.
Esaminiamo ora due personaggi esemplari, J. G. Tupac Amaru e R. Bentivegna. Il primo, dopo circa 300 anni di massacri e di orrende nefandezze perpetrate dagli spagnoli nella sua terra e ai danni della sua gente, si ribellò e in fine, legato a quattro cavalli, venne cristianamente fatto squartare nella piazza di Cuczo. Il secondo, in assenza di altrui massacri, ne compì un primo al fine di provocarne un altro più grande contro i propri concittadini. Uccise poi, a sangue freddo, un suo compagno di partigianeria perché, in un unico disegno criminoso, aveva strappato un manifesto comunista. Non venne squartato. Anzi, gli venne concessa una ricompensa al V.M.. Questi due uomini tanto diversi posso essere davvero accomunati nell’unica definizione di «partigiani»?
Il termine «partigiano», usato come sostantivo o come aggettivo, fatto derivare da Parteiganger (=adepto di un partito) o da un vago «prender partito», non potendo assumere sempre un significato univoco, atto a caratterizzare l’insieme delle azioni partigiane, necessita pertanto di una più consona ridefinizione. La medesima lacuna è avvertita anche da Schmitt quando ammette che: «I diversi tipi di guerra partigiana possono ben mescolarsi e assomigliarsi nella pratica concreta, tuttavia nel fondo continuano a differenziarsi così profondamente da diventare il criterio secondo cui si vengono a formare certi schieramenti politici».
A nostro avviso, per addivenire ad un appropriato criterio assiologico, s’impone quindi una più precisa focalizzazione delle motivazioni su cui si fonda ogni singola azione partigiana. In altri termini, escludendo le azioni meramente malavitose, il significato di partigiano non può non implicare una radicale discriminazione fra:
* formazioni armate che agiscono a scopi mercenari;
* franchi tiratori;
* spie e sabotatori;
* gruppi di rivoluzionari che, seguendo un progetto di rivoluzione mondiale, si battono per sconvolgere lo status quo nel proprio o in altri paesi;
* rivoltosi di ogni specie;
* formazioni armate autoctone (regolari o non) che lottano, all’interno del proprio paese, contro eserciti invasori, nella «… più nobile di tutte le guerre, quella che un popolo combatte sul proprio suolo per la difesa della libertà e dell’indipendenza» (von Clausewitz).
Ai componenti di queste ultime non dovrebbe essere dato altro nome che quello di patrioti, anzi, secondo la bella definizione schmittiana, quello di «ultime sentinelle della terra», che ben si addice ai Combattenti della RSI.

F. G. Fantauzzi 

venerdì 19 settembre 2014

IO, MONTANELLI E RAI/BUFALE -- di Filippo Giannini



IO,  MONTANELLI  E  RAI/BUFALE
di Filippo Giannini
Gli Stati Uniti d’America sono l’unico Paese occidentale ad essere passato da uno stato di barbarie ad uno di decadenza senza essersi fermato neanche per un giorno in quello della civiltà. (G. Bernard Shaw)

  Venerdì 12 settembre di quest’anno, nei programmi televisivi RAI/STORIA, ma dal sottoscritto definita RAI/BUFALA, ha mandato in onda un programma sui bombardamenti tedeschi su Londra, lasciando intendere e avvalorando la favola secondo la quale sarebbe stato Hitler a scatenare il terrore sulle città inglesi. La verità è completamente diversa. A prescindere da quanto ha scritto lo storico americano George N. Crocker (Lo Stalinista Roosevelt, pag. 210):<Lo stesso Hitler aveva fatto sinceramente di tutto onde raggiungere con l’Inghilterra un accordo per limitare l’offesa aerea alle zone di operazione>.
   Già nel 1993 ebbi uno scambio epistolare con Indro Montanelli che sosteneva che fu Hitler a scatenare i propri bombardieri su Londra e che gli inglesi nel periodo bellico e pre-bellico “non avevano neanche gli occhi per piangere”. Scrissi ricordando al grande giornalista che 45 milioni di inglesi che stavano governando su 600 milioni di sudditi, un popolo che da almeno mille anni non ha lasciato una sola propria generazione senza lanciarla in imprese di dominazione e sfruttamento, rimasti solo con le lacrime? Accennai ai mostri volanti ideati per trasportare tonnellate di bombe: i Lancaster e Halifax, erano apparecchi che potevano raggiungere il cuore dell’Europa e la progettazione e messa in opera richiedevano anni di lavoro. I tedeschi, di contro, disponevano di piccoli bombardieri concepiti come apparecchi di appoggio in campo di battaglia, E vediamo ora il “non avere neanche le lacrime”. Lo stesso Churchill nella sua Storia della 2° G:M:, 1 Volume, pag 515: <Se l’industria aeronautica, come è organizzata al presente, con il lavoro di 360mila uomini può produrre quasi 1000 apparecchi a mese, mi sembra strano che…>. 1.000 apparecchi al mese ed eravamo solo al 18 settembre 1939… Altro che lacrime amare, quelle erano lacrime armate.
   Prima di entrare direttamente nell’argomento bombardamento di obiettivi civili, voglio ricordare che all’entrata in guerra dell’Italia, Mussolini dette l’ordine di non gettare alcuna bomba sulla Francia e che gli anglo-francesi (due dei tre della triade infame) per primi bombardarono, due o tre giorni dopo l’entrata in guerra, Genova, Milano e Torino, causando solo in quest’ultima città 14 morti e 39 feriti, tutti scrupolosamente civili.
   A testimonianza che Churchill inviò bombardieri della Raf con l’ordine di colpire centri abitati in Germania, allo scopo di provocare la reazione tedesca e colpire a loro volta Oxford, Coventry, Canterbury e questo per smuovere l’opinione pubblica americana così da coinvolgere gli Usa nel conflitto. Dato che inizialmente i tedeschi non reagirono, a conferma di quanto scritto, propongo La testimonianza di Charles De Gaulle il quale in quei momenti era ospite dello statista britannico, ebbene, De Gaulle nelle sue Memoires descrive così lo stato d’animo di Churchill:<Mi par ancora di vederlo, al Chequers, un giorno d’agosto: alzava i pugni verso il cielo e sibillava: “Non vengono quei maledett!” Ma ha tanta fretta – gli chiesi – di vedere le sue città ridotte in macerie? “Vede – mi spiegò – “se bombardassero Oxford, Coventry e Canterbury, una e ondata di indignazione si solleverebbe negli Stati Uniti, che l’America entrerebbe in guerra!>. E ancora George N. Crocker, opera sopra citata a pag. 209: <…fu soltanto la decisione presa a freddo dal ministro dell’aviazione britannica l’11 maggio 1940, non la crudeltà di Hitler, a scatenare la cosiddetta guerra totale>. Ecco alcuni bollettini di guerra tedeschi, i quali con un certo imbarazzo dovevano ammettere: 24 maggio 1940: <…anche la notte scorsa il nemico ha rinnovato (!) i bombardamenti a caso su obiettivi non militari nella Germania dell’Ovest e del Sud-Ovest>. 22 giugno: <Aeroplani nemici che hanno compiuto incursioni aeree sulla Germania settentrionale e occidentale attaccando per la prima volta i dintorni di Berlino…>. Così il 29 giugno e di seguito. Ho vissuto e lavorato per molti anni in Oceania e proprio in quei Paesi ho avuto modo di conoscere il carattere inglese. E almeno in quegli anni ho conosciuto lo sciovinismo sfrenato, si inventavano fatti che si tramandavano tante volte che alla fine credevano che fossero realmente avvenuti. Il brutto è che li hanno fatti credere anche a noi!
   E  veniamo alla storia (le bufale) raccontate dalla Rai (e noi paghiamo il canone!). Nella citata trasmissione perché gli storici (così sono chiamati i competenti organizzatori delle trasmissioni) non hanno citato cosa era la teoria del moral bomber, o cosa intendeva esattamente scrivere W. Churchill nel libro The last Lion, pag 313: <…è chiaro che l’obiettivo sarà il centro residenziale>.. Oppure perché il maresciallo in capo bombardieri sir Athur Harris veniva nominato dai suoi subalterni The Butcher (Il macellaio); forse perché la sua teoria guerriera prevedeva che gli obiettivi preminenti erano le popolazioni civili, anziché quelli militari; cosicché <con massicci bombardamenti al cuore del territorio nemico avrebbero ridotto in rovina le città, la sua gente alla disperazione e il Governo alla capitolazione>? E non è quello che realmente è accaduto? E non è ancora oggi la stessa strategia della triade infame?
   Dobbiamo dare atto che essi sono stati abilissimi nell’imbonire l’opinione pubblica mondiale, trasformando le loro azioni di predoni in azioni tese a portare pace, benessere e libertà, nascondendo con stupefacente destrezza i reali motivi delle loro cento e cento guerre di aggressioni.
   Indro Montanelli – e ne debbo dar atto – pubblicò per intero il mio intervento. Per la verità alla fine mi rimproverò per la lunghezza della lettera terminando con queste parole: <Io capisco benissimo che si possa non amare gli inglesi, ma non capisco come si possa non ammirarli…>. Purtroppo non posso più attendere una risposta dal grande giornalista, vorrei, infatti scrivergli che gli inglesi li ammiro per il carattere da loro dimostrato e proprio per questa loro caratteristica non comprendo che rapporto ci possa essere con l’amare la libertà.
   Per concludere: i liberatori erano tanto liberatori che liberarono anche i morti dalle loro tombe; quel 19 luglio 1943, quando i liberatori bombardarono Roma riuscirono anche a far cadere delle bombe, chiamate intelligenti, colpendo il cimitero Verano. Una di queste bombe, sempre intelligente, ma da me ritenuta geniale, centrò la mia tomba di famiglia gettando fuori, quindi liberandoli tutti i morti lì rinchiusi.
   In conclusione: è mio giudizio che la Storia del XX Secolo non sia da RI-SCRIVERE, ma da SCRIVERE, perché quella propinata da 80 anni è una fucina di falsità. Ne è prova RAI/BUFALA.
   Il perché di tante falsità è intuibile. L’ho scritto tante volte.