sabato 31 gennaio 2015

QUANTO ERANO CATTIVI I NAZISTI: INVECE…






Deduzioni da una “guerra dimenticata”

QUANTO ERANO CATTIVI I NAZISTI: INVECE…

Uno sguardo retrospettivo sull’”invenzione dei campi di sterminio”

di Filippo Giannini
   Anni fa già trattai questo argomento, ma dato che (almeno ritengo) questo è poco noto, e la non conoscenza è dovuta al persistere del “lavaggio del cervello” voluta dai “liberatori”, per indirizzare, così,  l’opinione pubblica su una unica direzione, propongo, quindi, un’analisi storica su come nacquero i “campi di sterminio”. Molti risponderebbero, e ne sono certo: <In Germania nelle menti nefaste dei gerarchi nazisti!>; e invece no! Ed ecco la storia.

   <Noi siamo il più grande popolo del mondo. Più territori colonizzeremo, meglio sarà per l’umanità. Se la maggior parte del mondo passasse sotto la nostra amministrazione, sarebbe la fine di tutte le guerre>. Così sentenziava Cecil John Rhodes, uomo d’affari e colonizzatore inglese, nominato ministro della Colonia del Capo nel 1890.

   Dopo un  primo, fallito tentativo di colonizzazione inglese nel 1620, furono gli olandesi a stabilire nel 1652 una base di rifornimento per le navi della Compagnia olandese delle Indie orientali nella baia della Tavola, primo nucleo di Città del Capo. La spedizione comandata dal medico e navigatore Jan van Rieebeck, comprendeva – oltre agli olandesi – anche tedeschi e danesi e rappresentò il primo nucleo di colonizzatori europei destinato ad insediarsi in quelle terre ribattezzate Transvaal, Orange e Natal.

   Questo primo nucleo di bianchi chiamati boeren, cioè contadini, nel corso della sua penetrazione verso l’interno entrò in contatto e in conflitto con le popolazioni autoctone, fra le quali boscimani, ottentotti, bantu.

  Nel 1975, al momento delle guerre per la rivoluzione francese, gli inglesi occuparono il Capo, sottraendolo al controllo degli olandesi e mostrarono di voler estendere il loro dominio in tutta l’area. I boeri sopportarono inizialmente la dominazione britannica ma con il tempo affiorarono i primi contrasti. La minaccia provocata dell’instabilità di zulu e bantu, tribù guerriere in costante stato di guerra fra loro e con i nuovi arrivati, trattennero sia i boeri che gli inglesi dallo scontro aperto. A partire dal 1834 il Grande Trek, “la grande migrazione”, portò le famiglie dei contadini boeri a stabilirsi sempre più nell’interno. Nel dicembre 1838, sulle rive del fiume Ncome, nella battaglia del Blood River, i boeri sconfissero gli zulu e costituirono la Repubblica del Natal, poi annessa dagli inglesi nel 1843 con il pretesto di difendere i propri coloni dagli zulu. Altri gruppi di boeri fondarono le altre due repubbliche del Transvaal e dell’Orange, e con due diversi trattati, nel 1853 e nel 1852, l’Inghilterra riconobbe formalmente l’indipendenza d entrambi gli Stati.

   La già difficile convivenza divenne tempestosa quando la scoperta di giacimenti di diamanti a Kymberley e d’oro nei fiumi Orange e Vaal spinse gli inglesi ad assicurarsi il controllo dei giacimenti, arrivando fino all’annessione del Transvaal. E’ a questo punto che i boeri si ribellarono e sotto la guida del presidente del Transeat Paulus Krüger, nel 1881 sconfissero gli inglesi a Majuba Hill, assicurandosi il riconoscimento dell’indipendenza della repubblica.

   La scoperta dell’oro nel Transvaal segnò comunque l’inizio di un massiccio afflusso di stranieri (uitlanders), in particolare inglesi: nel 1895 questi superavano ormai di numero i membri delle antiche famiglie boere.

   Krüger avvertì il pericolo rappresentato dall’immigrazione e nell’intento di mantenere il controllo boero sul suo territorio impose restrizioni agli uitlanders, fra le quali il rifiuto di concedere loro il diritto di voto.

   Appena assunto il titolo di ministro della Colonia del Capo, Cecil Rhodes cercò di approfittare del malessere covato dagli immigrati nel Transvaal a favore della sua British South Africa Company, interessata alle miniere d’oro. Affidò al dottor Leander Starr Jameson il comando di un gruppo di gendarmi della compagnia, che doveva penetrare in  Transvaal e promuovere un colpo di Stato, confidando nell’appoggio degli uitlanders. Il 29 dicembre 1895 Jameson e 500 uomini varcarono il confine con  il Transvaal, andando incontro ad uno smacco totale. Già il 2 gennaio i boeri disperdevano il “Jameson Raid”, Rhodes, di conseguenza, dovette dimettersi dal suo incarico, mentre i suo impero privato veniva rilevato dalla Corona e Jameson  era condannato da un tribunale di Londra a due anni di prigione, poi condonati per motivi di salute.

   All’indomani della vittoria, Krüger ricevette questo telegramma: <Mi congratulo cordialmente con voi e con il vostro popolo per avere, senza l’aiuto di potenze amiche, respinto le bande armate che invadevano il vostro territorio e aver ristabilito da soli la pace e l’indipendenza del vostro Paese. Guglielmo>. Era Guglielmo II, l’imperatore tedesco che si faceva paladino di Krüger.

   Forte del non del tutto insperato appoggio tedesco e sentendo minacciata  l’indipendenza del Transvaal, Krüger iniziò ad importare armi, principalmente dalla Germania, ma anche dall’Olanda e dalla Francia, predisponendo la costruzione di ampi campi fortificati.

   Il governo britannico inviò in Africa, con la carica di alto commissario, sir Alfred Milner, che intavolò subito trattative con i boeri. La sua arroganza fu tuttavia tale che Krüger si vide costretto ad inviare il 10 ottobre 1899 un ultimatum, con il quale chiedeva alla Gran Bretagna di abbandonare ogni pretesa sul territorio da lui governato e di rispettare i trattati che riconoscevano l’indipendenza del Transvaal e dell’Orange, e allontanare l’esercito dalle frontiere.

   <Mi adoperai per far precipitare una crisi prima che fosse del tutto troppo tardi> avrebbe confessato Milner al capo delle forze inglesi Buller.

   L’ultimatum dei boeri scadeva il 12 ottobre: il governo di Salisbury respinse tutte le richieste e fu la guerra.

  Le stragi delle due guerre mondiali hanno steso un voluto velo d’oblio sugli assedi, sulle battaglie, sulle atrocità commesse a Ladysmith, Jagerfontein, Spion Kop, Colenzo, Mafeking e nelle immensità del territorio sudafricano. I boeri si batterono con coraggio perché consapevoli di non avere alternativa se volevano mantenere la loro indipendenza; gli inglesi spinsero i boeri alla guerra, oltre che per la ricchezza delle miniere, anche perché convinti che il nazionalismo afrikaaner poteva rappresentare un pericolo per le posizioni britanniche in Sudafrica.

   Fino alla fine dell’anno l’iniziativa rimase costantemente in mano ai boeri che invasero il Natal, assediando Mafeking, Kimberley, e Ladysmith. I boeri sfruttavano la solidità dei loro campi fortificati, la superiorità dei loro fucilieri a cavallo e, soprattutto la maggiore mobilità dei loro reparti che mise in crisi la già carente fantasia strategica e tattica dello stato maggiore inglese. Il futuro primo ministro Asquith, dopo aver letto uno dei dispacci provenienti dal comandante in capo delle forze britanniche, sir Redvers Buller, esclamò: <Sembra che non sia in grado di darci una vittoria né di fornire convincenti ragioni per le sue disfatte>.

   Nelle prime tre settimane di guerra gli inglesi erano in  inferiorità numerica, potendo contare su 13.000 regolari, la maggior parte dei quali bloccata nelle tre città assediate. L’arrivo del I° Corpo d’Armata inglese alla fine di ottobre cambiò gli equilibri, ma non i risultati.

   Buller, nell’intento di liberare le forze assediate a Kimberley, a Mafeking e a Ladysmith divise il suo esercito in tre colonne che furono duramente battute nello spazio di una settimana, quella che gli inglesi chiamarono “black week”: il 10 dicembre il generale William Gatacre era battuto a Stormberg, mentre due giorni dopo toccava a lord  Methuen essere sconfitto nella battaglia di Magersfontein, il 15 dicembre, a Colenso, i boeri guidati dal generale Louis Botha infliggevano allo stesso Buller, che cercava di forzare il blocco boero a Ladysmith, una pesante sconfitta in cui oltre mille inglesi rimasero sul terreno. Dopo Colenso, Buller perse il controllo della situazione (oltre che dei suoi nervi) e ordinò al comandante della piazza di Ladysmith, George White, di cessare la lotta, distruggere armi e munizioni e arrendersi. White non obbedì.

   Il governo di Londra colse l’occasione per rimuovere Buller dal comando e sostituirlo, dal gennaio 1900, nominando lord Roberts quale comandante in capo e lord Kitchener capo di Stato maggiore generale.

   Fra il 20 e il 24 gennaio Buller, cui era stato lasciato il comando delle operazioni nel Natal, si scontrò nuovamente con i boeri di Louis Botha a Spion Kop, uno sperone roccioso che dette il nome a una delle più sanguinose battaglie di tutta la guerra: quando inglesi e boeri si ritirarono dalla collina, erano entrambi convinti di essere battuti. Furono i boeri ad accorgersi per primi che il nemico si stava ritirando; Buller rinunciò a spezzare l’assedio di Ladysmith.

   La fantasia di Roberts e l’inesauribile energia di Kitchener portarono subito i primi, brillanti risultati. Come prima cosa, Kitchener si preoccupò di assicurarsi le linee di rifornimento, creando una rete ferroviaria che si estendeva sin nel cuore del territorio boero. Quindi inviò il generale French e la sua cavalleria, con un memorabile affondo, in soccorso della piazza di Kimberley, assediata dal generale boero Arnaldus Cronje. L’operazione riuscì perfettamente: i boeri rimasero intrappolati nella gola del fiume Modder a Paardeberg. Nonostante una strenua resistenza, il 27 febbraio 1900, diciannovesimo anniversario della vittoria sugli inglesi a Majuba Hill, Cronje e i suoi quattromila uomini dovettero arrendersi. Cronje fu inviato prigioniero nell’isola di Sant’Elena, dove rimase fino alla fine della guerra.

   I boeri dovettero abbandonare l’assedio di Ladysmith, mentre gli inglesi continuavano ad avanzare occupando Bloemfontein e il Natal. Nonostante un’epidemia avesse fermato gli inglesi per tre settimane, lord Roberts arrivò nell’estate del 1900 a occupare Joannesburg e Pretoria, piegando verso est e tagliando la linea ferroviaria che collegava il Transvaal con la colonia portoghese del Mozambico, mentre i generali boeri si ritiravano a nord, verso le montagne del Basutoland.

   I successi nel Transvaal e la resa dei principali capi boeri sembrarono chiudere le ostilità. In realtà si apriva una nuova fase della guerra che avrebbe insanguinato la regione per altri diciotto mesi.

   Il vecchio Krüger lasciò il Sudafrica trasferendo tutte le  prerogative presidenziali a Shalk-Burger, vicepresidente della  repubblica, il comando militare venne affidato a Louis Botha, che operava nel Transvaal orientale, mentre nel Transvaal occidentale era  il generale De La Rey a mantenere il comando di buona parte degli uomini.

   Questa fase della guerra si caratterizzò per i rapidi colpi di mano eseguiti da gruppi di boeri che tenevano sotto continua pressione l’esercito inglese, costretto a sparpagliarsi per controllare una grande estensione del territorio. Mantenendo aperta la lotta, i boeri coltivavano la speranza che qualche nazione europea si muovesse in loro soccorso. Il viaggio di Krüger in Europa aveva anche lo scopo di perorare la causa boera. Ma nessun Paese volle gettarsi nell’avventura sudafricana.

   Intanto, nel tentativo di pacificare la regione, molti prigionieri boeri vennero rimessi in libertà dagli inglesi, dietro la promessa di non prendere più parte alla guerra. Il giuramento venne tuttavia dichiarato nullo dal governo di Shalk-Burger, che non aveva riconosciuto la cessazione delle ostilità. I boeri che tornarono a casa si videro così piombare addosso i commandos di Botha con l’accusa di tradimento e diserzione.  Dal canto suo, Roberts ordinò che venissero bruciate le fattorie di quanti infrangevano il giuramento fatto di non riprendere le armi.

   La richiesta da parte di Milner di una resa incondizionata da parte dei boeri, irrigidì le posizioni, facendo naufragare i tentativi di intavolare trattative di pace. Alla fine del 1900 i generali boeri Kritzinger e Herzog invasero una seconda volta la Colonia del Capo, mentre nel 1901 l’avvocato Jan Christian Smuts conduceva una spettacolare operazione nel cuore della Colonia giungendo con i suoi uomini fino ai dintorni di Cape Town. Questa precaria situazione spinse le autorità inglesi a instaurare la legge marziale su buona parte del territorio. Kitchener decise di chiudere brutalmente la partita, creando un vuoto intorno ai boeri in armi. Colonne di truppe in uniforme cachi passarono al setaccio il veldt, cacciando e confiscando mandrie di bestiame, bruciando raccolti, case e fattorie. Donne, vecchi e bambini venivano rinchiusi in quelli che dopo di allora si sarebbero chiamati “campi di concentramento”, dove presto esplosero epidemie che falcidiarono gli internati.

   Un documento, custodito nell’archivio storico-diplomatico del Ministero degli Affari Esteri a Roma, contiene una relazione del Console italiano a Pretoria, Morpurgo. Questi informava che il numero dei morti, fra donne e bambini rinchiusi dagli inglesi nei campi, era di 20.000. I boeri, continua Morpurgo, furono costretti alla resa perché, se le ostilità fossero continuate, “la nazione intera avrebbe cessato di esistere”.

   L’entità e i metodi di questa ecatombe non poterono essere celati e un nuovo fremito di sdegno percorse il mondo. A Londra sir Henry Campbell-Bennerman, leader dell’opposizione, ricevuta una relazione dei fatti, li illustrò alla Camera, parlando di “metodi barbari”. Tutto ciò, tuttavia, non frenò le iniziative di Kitchener.

   In realtà, da entrambi le parti, per motivi diversi, traspariva la stanchezza. Il governo inglese era sfiancato da una guerra che aveva costi altissimi e che aveva proiettato un’ombra negativa sull’immagine di Londra nell’opinione pubblica europea. I boeri erano divisi: se il governo dell’Orange non ammetteva la possibilità di intavolare trattative di pace senza la garanzia d’indipendenza, quello del Transvaal era più possibilista, anche perché giungevano orribili notizie dai “campi di concentramento”, e di conseguenza, chiese di aprire trattative. I negoziati furono, in effetti, iniziati dai rappresentanti del Transvaal, lasciando aperta la minaccia militare dello Stato dell’Orange, che reiterava il proprio rifiuto della resa e la determinazione di continuare il conflitto “sino alle estreme conseguenze”. Le trattative furono complesse: a Klerksdorp si incontrarono dapprima i boeri tra di loro: poi a Pretoria i boeri con Milner e Kitchener; a Vereeniging si riunirono in assemblea le rappresentanze boere.  Il trattato di pace con il Transvaal e l’Orange venne siglato nel maggio 1902 a Vereeniging e fu una pace onorevole per i boeri.

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   Ho voluto ricordare questa “guerra dimenticata” per trarre alcune considerazioni che riguardano il mondo e la storia di oggi.

    Abbiamo due punti fissi: la guerra anglo-boera che terminò nel 1902 e l’inizio del Secondo conflitto mondiale che esplose nel 1939 e con questo iniziò anche la “persecuzione” nazista contro varie etnie. Ma abbiamo ancora un altro punto fisso: i giorni che stiamo vivendo.

   E allora; tra la guerra anglo-boera e l’inizio del Secondo conflitto mondiale c’è uno spazio di 37 anni, vale a dire poco più di una generazione. Come abbiamo visto, il generale Kitchener per avere ragione dei boeri mise in atto una persecuzione contro “donne, bambini e vecchi” che causò alcune decine di migliaia di morti: in pratica un “genocidio”. E ancora: “bestiame razziato, fattorie e case date alle fiamme”.  Ebbene nel corso di quella generazione (o poco più) la memoria andò man-mano scemando fino a che non se ne parlò più. Tra la fine dell’ultimo conflitto e i giorni di oggi, invece, dopo ben 73 anni, quindi lungo tre generazioni, non c’è giorno che non si rievochi l’altro “genocidio”. Se la malefica azione di Kitchener può essere paragonabile a quella di Himmler (ad esempio), perché il primo è completamente obliato? Eppure il primo può ben considerarsi “il maestro delle atrocità commesse dal nazionalsocialismo”.

   Il fatto è che  Kitchener, bene o male, vinse la guerra, Himmler la perse.

   La morale è tutta qui.

     

                                                                                                                       

giovedì 29 gennaio 2015

CRISI DEL LAVORO: LA SOLUZIONE E' NELLA SOVRANITA'





 ECONOMIA 2015
Crisi del lavoro: la soluzione è nella sovranità

di Fabrizio Fiorini (*)
 
Correva l’anno 2010 e il vecchio, glorioso, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale aveva già da tempo avviato le procedure telematiche dei propri servizi. Decine di migliaia di lavoratori dipendenti, che fino a poco tempo prima avrebbero dovuto sopportare estenuanti attese presso gli uffici dei Patronati o dello stesso Istituto per conoscere il proprio estratto conto contributivo ed avere quindi una sorta di proiezione di quello che sarebbe stato il proprio assegno pensionistico, si videro assegnato un pin, una parola chiave con cui accedere al sito internet dell’Inps e consultare quindi in tempo reale la personale situazione previdenziale.

Erano però anche i tempi in cui la cosiddetta «precarizzazione» procedeva a gonfie vele sulla sua strada, sospinta dal vento di una produzione normativa che smantellava a «forza di legge» un sistema di tutele sociali e un ordinamento giuslavoristico che aveva regolato per decenni, e nonostante una guerra perduta, il lavoro nazionale.

Man mano, la tipologia contrattuale classica, quella del lavoro dipendente a tempo indeterminato, andava perdendosi sempre più nei meandri normativi criminosamente architettati da un potere legislativo di stampo liberista che si baloccava con strampalati e interessati concetti di «flessibilità», «competitività», «modernizzazione».

La forma contrattuale con cui all’epoca sempre più lavoratori venivano inquadrati, privandoli delle tutele sociali proprie del lavoro dipendente, era quella dei co.co.co. o co.co.pro., presunte «collaborazioni coordinate e continuative» o «a progetto», attraverso le quali i datori di lavoro potevano impiegare manodopera de facto dipendente senza che del lavoro dipendente avessero le incommoda(1) quali le ferie, i permessi, le mensilità supplementari, il trattamento di fine rapporto, e così via.

Tuttavia, nonostante tale anomala forma di inquadramento lavorativa fosse oramai ampiamente diffusa, ai «collaboratori continuativi» e ai «collaboratori a progetto» (tecnicamente definiti «parasubordinati») l’Istituto di previdenza non estese la possibilità di accedere, con una semplice procedura telematica, all’estratto conto contributivo e a conoscere dunque quale sarebbe stato, una volta cessato il rapporto di lavoro, l’entità del proprio trattamento di pensione. Interpellato sulla questione, l’allora presidente dell’INPS, quel pluri-incaricato e remuneratissimo Antonio Mastrapasqua non ancora vittima delle tribolazioni giudiziarie che lo vedranno in seguito protagonista(2), lasciò libera una «voce dal sen fuggita»: «se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati – disse – rischieremmo un sommovimento sociale».

Naturalmente, per affermare la colpevolezza o l’innocenza del vecchio presidente dell’INPS dalle molteplici accuse che gli sono rivolte si dovrà attendere l’esito dei procedimenti giudiziari; tuttavia, una colpa evidente può essergli rinfacciata senza dover attendere la sentenza dei tribunali: quella di aver peccato di eccessivo ottimismo. Se infatti le ragioni per un «sommovimento sociale» davvero avrebbero ragione di sussistere, certo è anche che questa nazione, questo popolo, sembrano essere ancora privi dello slancio, della volontà, finanche della mera rabbia che sarebbe necessaria per vedere finalmente i nostri concittadini ribellarsi dinanzi a un sistema di sfruttamento e di smantellamento dei diritti dei lavoratori che si manifesta quotidianamente in tutta la sua furia distruttrice.

Nelle pagine che aprono questo numero de l’Uomo libero, Mario Consoli ha descritto con precisione gli effetti devastanti che la precarizzazione e liberalizzazione del lavoro (che oggi non a caso è più esaustivamente definito «mercato del lavoro») hanno avuto sul tessuto sociale della nazione. Non si tratta solo di un problema, pur estremamente rilevante, di certezza del reddito, di sopravvivenza, di conservazione dell’ordine sociale: siamo altresì di fronte alla morte civile di una nazione, all’annichilimento degli uomini sia nei termini di realizzazione individuale sia in quelli di partecipazione alla comunità di popolo.

Ma come si è giunti a tale scempio? Come si è arrivati alla morte del lavoro nazionale? Quale disegno criminoso si cela dietro l’operato degli amministratori della cosa pubblica degli ultimi lustri, quali sono gli strumenti utilizzati per mettere in atto una mattanza sociale dalle simili proporzioni?

 Inizialmente, si preparò il terreno dal punto di vista strutturale e dell’indottrinamento di massa. Correvano i primi anni Novanta del Novecento, gli anni delle privatizzazioni, delle crociere sul panfilo Britannia, della moralizzazione interessata di «Mani Pulite», della necessità, strombazzata ai quattro venti, di smantellare un sistema politico che – pur nella sua innegabile corruzione e marcescenza – aveva garantito una relativa stabilità socioeconomica alla nazione grazie alla effettiva, pur se parziale, continuità col periodo pre-bellico nei termini di partecipazione statale, diffusa previdenza sociale, economia mista.

Ma i «tempi moderni» bussavano alle porte, e da ogni parte – sulla stampa, nella propaganda partitica, dalla magistratura – si levavano appelli affinché un sistema vecchio, corrotto e burocratico fosse abbattuto. Il pubblico impiego, in quel frangente, subì un colpo mortale. Non solo a causa delle privatizzazioni(3) che dismisero la gran parte delle partecipazioni statali nell’apparato produttivo e industriale della nazione, ma anche il pubblico impiego nel senso più stretto del termine finì per dover subire la degradazione da «servizio allo Stato», da missione sociale adempiuta da funzionari in nome di un servizio alla collettività, a mero «impiego» privatisticamente gestito nel nome della competitività economica e del concetto liberista di «Stato minimo».

Concetti quali quelli di mobilità, di ingresso dei privati, di riduzione delle garanzie, di regolamentazione privatistica dei rapporti di lavoro, di cancellazione della «funzione pubblica», facevano il loro mortifero ingresso nella sfera del pubblico impiego. Un’azione legislativa mirata(4), sostenuta dalle velleità di «rinnovamento» imposte alla pubblica opinione da una martellante propaganda, agiva per definire i contorni di questa abdicazione dello Stato. L’Italia, in quegli anni, vide definitivamente scomparire quei burocrati (nel senso migliore del termine) che, talvolta con competenza e dedizione, avevano retto la struttura organizzativa dello Stato. In tempi recenti, corrotti e degenerati finché si vuole, ma fatto sta che, con l’acqua sporca, gettarono via anche il bambino: cancellarono il volto dello Stato dalle strutture e dai servizi quotidianamente fruiti dai cittadini.

Naturalmente, anche la sfera del lavoro privato non poteva non adeguarsi al nuovo corso della politica nazionale. A tappe forzate, lente ma inesorabili, un sistema – quello che ebbe scaturigine spirituale, etica e normativa nella Carta del Carnaro del 1920 e nella Carta del Lavoro del 1927 – fondato sull’equilibrio del sistema produttivo e sulla tutela dei lavoratori, veniva smantellato.

Inizialmente, con il già menzionato «pacchetto Treu»(5), con cui si ufficializzò la – fino ad allora vietata, alla stregua del «caporalato» – «interposizione» nei rapporti di lavoro attraverso l’introduzione del lavoro «somministrato» (all’epoca definito «interinale») e si ridusse notevolmente la funzione degli Uffici di Collocamento che di lì a poco sarebbero divenuti «Centri per l’Impiego».

Poi, il colpo mortale inferto dalla «legge Biagi»(6) (alla quale ogni minima critica è passibile delle più aspre condanne per via dell’uccisione, da parte delle Brigate Rosse, del suo promotore, il professor Marco Biagi(7)) che riprendendo lo spirito della citata legge 421 del 1992, sancì il passaggio di competenze dalla sfera pubblica a quella privata del collocamento del lavoratori.

Non fu certamente questo l’unico aspetto nefasto della «legge Biagi». Fu introdotto, ad esempio, l’istituto del «lavoro a chiamata» (o «job on call», come definito da anglismi sempre più in voga), una legalizzazione de facto del lavoro nero che permette al datore di lavoro di retribuire e contribuire «in regola» un dipendente anche per una sola giornata lavorativa al mese, anche se questi lavorasse tutti i giorni. Un istituto, quello del lavoro a chiamata, che sostanzialmente azzera il potere sanzionatorio e di controllo degli Ispettorati del lavoro, costretti a piegarsi a una legge dalle maglie larghe che rende impossibile l’individuazione di casi di sfruttamento o di evasione contributiva (8).

Di natura particolarmente odiosa per via della sua connotazione vetero-capitalista «ottocentesca», nell’ambito degli istituti introdotti dalla legge che porta il nome del giuslavorista bolognese, fu la normazione del cosiddetto «lavoro accessorio» (più comunemente conosciuto come «lavoro a voucher») attraverso tale forma contrattuale tuttora decine di migliaia di lavoratori svolgono le proprie prestazioni in regime di grave carenza di tutele e devono percepire la loro magra retribuzione recandosi presso gli uffici postali per convertire in (poco) denaro i «buoni» che vengono loro «magnanimamente» elargiti da un datore di lavoro che anche in questo caso può operare svincolato da imposizioni giuslavoristiche di sorta, da obblighi contributivi, nonché dal potere sanzionatorio e di verifica degli Ispettorati e del Ministero del Lavoro.

Fu la stessa «legge Biagi», inoltre, che implementò l’istituto – utilizzato nella gran parte dei casi come camuffamento di rapporti di lavoro dipendente – delle «collaborazioni a progetto» (senza ferie, senza permessi, senza TFR, a contribuzione ridotta), proprio quei «parasubordinati» per i quali il citato presidente dell’INPS Mastrapasqua prevedeva, bontà sua, un «sommovimento sociale».

Di tali sommovimenti, tuttavia, fino ad ora se ne sono visti ben pochi. Tra i primi responsabili di questo lassismo non possono che essere annoverati quei sindacati che hanno definitivamente abdicato dal loro ruolo di organizzazioni di difesa dei lavoratori e che si sono trasformati in ufficio protocollo delle deliberazioni dei governi più antipopolari che la storia nazionale ricordi.

È sufficiente entrare in una sede dei sindacati per averne lampante dimostrazione di come questi si siano oramai trasformati in lucrosi «centri servizi» che impiegano manodopera a basso costo per esperire le loro pratiche a pagamento (quali le dichiarazioni dei redditi) e che si prodigano con mielosa dedizione all’assistenza agli immigrati che presso i loro uffici possono trovare servizi finalizzati ai «ricongiungimenti familiari» o al conseguimento di ogni sorta di beneficio gravante sulla Previdenza nazionale.

Le organizzazioni sindacali, sostenendo l’invasione immigratoria, si privano così della loro primaria finalità e della loro stessa natura: alla difesa dei lavoratori italiani preferiscono la causa di chi arriva in Italia a far loro concorrenza.

Inoltre, non tragga in inganno la gratuità con cui patronati e sindacati offrono al pubblico gran parte dei loro servizi. Non solo infatti sono retribuiti dallo Stato, ma tali servizi fungono anche da «grimaldello» per l'acquisizione di nuovi tesserati con tanto di trattenuta sindacale in busta paga. Un tempo si diventava sindacalizzati per meglio difendere i propri diritti, oggi per avere lo sconto sulla denuncia dei redditi o per saltare la fila con la domanda di assegni familiari.

Sono quei sindacati che hanno venduto l’anima per i trenta denari messi a loro disposizione da una legge ad hoc(9) e che sono oramai capaci di distinguersi esclusivamente per la loro sospetta dabbenaggine, per la loro organizzazione di concerti, «eventi culturali», manifestazioni «colorate» sempre più frequentate dai rampolli festaioli della buona borghesia e sempre più disertate dagli operai(10).

I governi nazionali, dal canto loro, quando non sono impegnati nelle varie missioni di vassallaggio internazionale alle dipendenze dell’amministrazione USA, dalla NATO e della BCE tentano maldestramente di salvare la faccia, prodigandosi in proclami altisonanti ed elargendo insignificanti elemosine (gli «80 euro di Renzi») peraltro ai soli lavoratori dipendenti, ciechi dinanzi al fatto che chi oggi ha un tale rapporto di lavoro è già da considerarsi privilegiato in un contesto in cui la gran parte dei lavoratori svantaggiati deve barcamenarsi in un inferno fatto di sotto-inquadramento, lavoro semi-nero, «buoni lavoro» (i cosiddetti voucher), false partite IVA. Elemosine che vengono date con una mano e tolte – con gli interessi – con l’altra, perché, dicono, «la coperta è corta», come è d’altronde naturale che sia in un sistema fondato sulla completa mancanza di sovranità monetaria e di prestito a usura del denaro da parte della banca di emissione.

Il governo dell'eurocrazia invece, quello della cosiddetta troika di Bruxelles che attraverso Commissione e Banca Centrale Europea detta le linee guida agli esecutivi di un intero continente, dimostra quotidianamente le propria sordità e cecità dinanzi all'evidenza del fatto che il sistema produttivo europeo sta irrimediabilmente avvicinandosi al tracollo, e continua a fare pressioni e a imporre ricatti a Stati oramai solo nominalmente sovrani, costringendoli – come primaria misura per «rientrare» dal debito pubblico e per rispettare le allucinanti disposizioni di pareggio di bilancio – a esercitare tagli proprio sul lavoro e sulle garanzie previdenziali, imponendo il dogma della flessibilità e della precarietà e determinando una assurda pressione fiscale con la conseguente, generalizzata, depauperazione popolare.

Quello di cui si necessita, per invertire la rotta che sta spingendo questa nazione e l'intero Continente sempre più pericolosamente vicini all'orlo del baratro non sono «riforme», aggiustamenti, bonus-elemosina o jobs act di sorta. Non sono i canti e i balli di sindacati colorati e festaioli, non sono gli accorati appelli e le ripetute, oramai tragicamente comiche, promesse di «ripresa».

Occorre riappropriarsi della nostra moneta, uscendo dalla spirale che ci vede costretti a richiederla in prestito dalla «piovra» della BCE, a cui rendere poi conto con tanto di interessi e di ulteriori cessioni di sovranità (Draghi non perde occasione per ricordarlo minacciosamente).

Riappropriarsi della nostra identità, interrompendo drasticamente la tratta degli schiavi che introduce nei confini nazionali flussi incontrollati di immigrati che non solo ingrassano le fila della criminalità ma che costituiscono un enorme bacino di manodopera sottopagata, inibiscono ai nostri connazionali la fruizione dei servizi sociali, riempiono le casse delle organizzazioni «caritatevoli» ecclesiastiche.

Occorre riappropriarsi di una giusta ed equilibrata legislazione del lavoro, fondata su garanzie di stabilità, giusta retribuzione, piena occupazione ed efficace previdenza, nonché sul rilancio della produzione che diventerà possibile grazie agli investimenti conseguenti la riconquista di una piena sovranità monetaria nonché grazie al ritorno della partecipazione statale al settore economico strategico. Denunziare tutta la legislazione liberal-liberticida degli ultimi lustri, perché il lavoro smetta di essere faticoso strumento di mera sopravvivenza e torni a essere la nostra più grande ricchezza, quella che scaturisce dalle nostre mani e dal nostro intelletto.

Occorre riappropriarsi dello spirito di comunità di popolo, di quella sovranità che è requisito vitale per ogni uomo libero, di quanto è nostro, delle nostre vite. Pur nel desolante scenario sociale e politico che caratterizza in questi decenni la nostra nazione e il nostro continente, qualche segnale incoraggiante lampeggia all'orizzonte: alcuni italiani, alcuni europei, non si arrendono.

(*) Direttore della rivista l’Uomo Libero




(1) Dall’antico brocardo latino «ubi commoda, ibi incommoda» («ove vi sono cose vantaggiose, vi sono cose svantaggiose») vengono fatte discendere la natura essenziale e il principio giuslavoristico del rapporto di lavoro dipendente, per cui a fronte del potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro devono sussistere le tutele a vantaggio del dipendente, tra le quali naturalmente la previdenza e l’assicurazione obbligatoria.

(2) Ad esempio, quella che lo vede indagato – come direttore generale dell’Ospedale israelitico di Roma – in una truffa ai danni del Servizio Sanitario Nazionale, o le varie vicende correlate ai suoi venticinque (!) incarichi di presidente di varie società o collegi sindacali. Mastrapasqua – un dirigente, giova ricordarlo, che può contare su una retribuzione annua superiore al milione di euro – è stato altresì coinvolto in una torbida storia di «acquisto» di esami universitari presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Roma, ove sostiene di essersi laureato nel 1984.

(3) Il regime di «competitività» che si sarebbe instaurato in seguito al processo di privatizzazioni avrebbe giovato all’economia nazionale – sostenevano i molteplici imbonitori dell’epoca – determinando un miglioramento e una maggiore diffusione dei servizi, nonché un calo delle tariffe. Tale rosea premonizione fu smentita non solo dalla realtà dei fatti, ma addirittura dalla Corte dei Conti (Rapporto del 10 febbraio 2010) che denunciò a chiare lettere il fallimento su tutta la linea del nuovo corso economico e politico.

(4) Molto incisiva in tal senso fu la Legge n. 421 del 23 ottobre 1992 in materia di sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 257 del 31 ottobre 1992 – Supplemento Ordinario n. 118)


(5) Legge n. 196 del 24 giugno 1997 in materia di promozione dell’occupazione (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 154 del 4 luglio 1997 – Supplemento Ordinario n. 136).

 
(6) Legge n. 30 del 14 febbraio 2003 in materia di occupazione e mercato del lavoro, attuata dal D.Lgs. N. 276 del 10 settembre 2003 (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 235 del 9 ottobre 2003 – Supplemento Ordinario n. 159).


(7) Evento che dovrebbe indurre a riflettere sul senso dell’azione terroristica e sulle sue ricadute politiche nefaste, quando non addirittura eterodirette e funzionali a obiettivi opposti a quelli per cui ufficialmente viene messa in atto.

(8) Non sussisteva infatti l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di effettuare preventivamente e in modo documentato la chiamata del lavoratore, rendendo in tal modo impossibile ogni funzione di controllo sulla regolarità della prestazione. Tale obbligo sarebbe stato introdotto solo successivamente dalla Riforma Fornero, ma – fatta la legge trovato l’inganno – fu altresì introdotta la possibilità di «annullare» le giornate lavorative dopo la fine della prestazione.


(9) Legge n. 413 del 30 dicembre 1991 istitutiva dei Centri Autorizzati di Assistenza Fiscale (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 305 dei 31 dicembre 1991 – Supplemento Ordinario n. 91).
 
(10) Emblematico il caso recente della fallita mobilitazione sindacale che contestava al movimento di popolo cosiddetto «dei forconi» (che peraltro li aveva saggiamente snobbati) di aver ceduto alle «infiltrazioni fasciste». In quei giorni a Torino, una contro-manifestazione della Triplice sindacale, sostenuta da ANPI e partitini vari della sinistra, in una città dove fino a dieci anni prima avrebbero mobilitato decine di migliaia di lavoratori, vide partecipare meno di cento persone.

 
28/01/2015

mercoledì 28 gennaio 2015

GLI ALTRI LAGER!

JAMES BACQUE

"Other losses" (versione italiana "Gli altri Lager")

Mursia Editore

Gli altri lagerAlla fine della seconda guerra mondiale, almeno quattro milioni di soldati tedeschi furono tenuti prigionieri all'aperto, in campi recintati di filo spinato ma senza alcuna protezione, con poco cibo e poca acqua, o niente del tutto: questo accadde in Germania a opera degli americani nella zona da essi occupata e durò per molti mesi dopo la cessazione delle ostilità. L'esercito francese, che ebbe in consegna circa 630.000 prigionieri dagli americani per utilizzarli come manodopera forzata in riparazioni di guerra, fece loro patire la fame e li maltrattò a tal punto che non è esagerato calcolare una cifra di 250.000 morti causati dalle pessime condizioni in cui gli uomini furono tenuti.
Per quanto riguarda i campi americani, non è azzardato supporre il decesso di 750.000 prigionieri. Per la maggior parte si trattava di soldati della Wehrmacht, arresisi dopo 1'8 maggio 1945, ma fra loro c'erano anche donne, bambini e vecchi. Queste morti furono rubricate come "Altre perdite" ("Other losses") .
L'autore JAMES BACQUE del volume "Other losses" (versione italiana "Gli altri Lager" - Mursia, di cui si consiglia vivamente la lettura) ha intervistato negli anni centinaia dì ex prigionieri, guardie e ufficiali, raccogliendo migliaia di testimonianze e di documenti tratti dagli archivi di Parigi, Londra, Coblenza, Washington e Ottawa. È stato in questo efficacemente assistito dallo storico militare statunitense Ernest F. Fìsher, già colonnello dello US Army. Nella sua denuncia egli ha voluto dimostrare come il pubblico e gli ambienti internazionali siano stati ingannati, con pieno coinvolgimento del Dipartimento di Stato americano, dello stesso Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), a sua volta tragicamente ingannato, di una stampa ridotta al silenzio, di una censura inesorabile nei confronti delle pubblicazioni uscite in quel periodo (fino alla deliberata distruzione degli archivi), di ufficiali superiori conniventi o costretti a tacere: preludio alla futura propaganda della guerra fredda che riversò sui sovietici la responsabilità di tutti quei morti. I dati riportati sono tragici, raggelanti. Al lettore il giudizio finale sul materiale offerto e sulla documentazione allegata.

Alcuni eventi di rilievo: 10 marzo 1945: Eisenhower firma un ordine criminale che crea il mortale status DEF (Disarmed Enemy Forces) intendendo, con una diversa definizione di comodo, eludere (ma, al contrario, violandola spudoratamente) la Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei Prigionieri di Guerra (Prisoners of War o POW). Affermò poi, ipocritamente, in un discorso a Parigi, che gli Stati Uniti avrebbero osservato la Convenzione di Ginevra. Aprile 1945: il CCS (Combined Chiefs of Staff) approva lo status DEF per i prigionieri in mano americana; gli inglesi rifiutano di fare lo stesso, il gen. Americano Littlejohn riduce le razioni dei prigionieri. 8 maggio 1945: la Germania s'arrende. Gli Stati Uniti tolgono alla Svizzera il ruolo di protecting power per i prigionieri tedeschi, contravvenendo alla Convenzione di Ginevra. Eisenhower dice a Churchill che ha ridotto le razioni dei prigionieri e che può ridurle ancora. Patton rilascia rapidamente prigionieri; Eisenhower ordina ai suoi generali di smettere il rilascio di prigionieri. Le razioni vengono ulteriormente ridotte. Giugno 1945: il generale Lee contesta duramente i dati sbagliati dei prigionieri che vengono comunicati dal HQ di Eisenhower (2 giugno). Littlejohn si lamenta di non poter nutrire i prigionieri, ora circa 4.000.000. Molti prigionieri vengono trasferiti segretamente al mortale status DEF senza cibo o riparo. Viene proibito ai civili tedeschi di nutrire i prigionieri. Gli stessi civili incominciano a patire la fame. L'ICRC (Croce Rossa Internazionale) tenta di spedire cibo in Germania, ma i treni vengono rispediti indietro dall'US Armv. Il primo ministro del Canada, King, protesta perché viene tolta ai prigionieri tedeschi la protezione della Convenzione di Ginevra. II Foreign Office inglese lo fa tacere. Luglio 1945: molti prigionieri vengono trasferiti, in fin di vita, dalla US Army all'esercito francese. Il capitano Julien dice che un campo americano sembra Buchenwald. Agosto 1945: un ordine firmato Eisenhower assegna tutti i rimanenti POW al letale status DEF. La percentuale di morte aumenta immediatamente. Il generale Littlejohn si lamenta, scrivendo a Eisenhower che 1.550.000 persone che avrebbero dovuto avere le razioni dell'esercito americano, non ricevevano niente. L'ICRC é costretto a rendere il cibo ai donatori, perché non le viene permesso di spedirlo in Germania. Settembre 1945: Jean Pierre Pradervand dell'ICRC dice a De Gaulle che un terzo dei prigionieri in mano ai francesi. ricevuti dall'esercito americano, morirà presto se non riceverti rapidamente aiuti. I giornali francesi riportano la storia di Pradervand. Eisenhower e il generale Smith negano ogni responsabilità americana. II " New York Times " riporta cattive condizioni in campi francesi, niente sui campi americani visitati recentemente dal famoso giornalista Drew Middleton. 10 ottobre 1945: Littlejohn scrive un rapporto a Eisenhower sottolineando il surplus di cibo nell'esercito americano e suggerisce di rimandarlo negli Stati Uniti. 1945-46. Gli Stati Uniti riducono quasi a zero, entro la fine del 1946, il numero di prigionieri tenuti in custodia. 1 francesi continuano a tenerne centinaia di migliaia fino a tutto il 1946, riducendone il numero gradualmente a zero verso il 1949. 1947 - anni '50. Molti documenti americani dei campi di prigionia vengono distrutti. I tedeschi stabiliscono che piú di 1.700.000 soldati, vivi alla fine della guerra, non sono mai ritornati a casa. Tutti gli Alleati negano responsabilità; gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia accusano la Russia di atrocità nei campi. Anni '60-1972. II Ministero degli Esteri della Germania occidentale, sorto Willy Brandt, sovvenziona libri che negano atrocità nei campi americani. Senatori americani accusano i russi di atrocità, ma non dicono niente dei campi americani. Anni '80. L'ICRC rifiuta di rilasciare documenti essenziali ai ricercatori che stanno lavorando sui campì americani e francesi e afferma di non conoscere Pradervand, che era il suo capo delegazione in Francia. L'ICRC consente invece ad altri due ricercatori di accedere agli archivi per cercare materiale sui campi nazisti. Il Ministero della Difesa inglese rifiuta di rilasciare all'autore l'importante rapporto Phillimore, nonostante la richiesta fatta da un funzionario governativo inglese. Willy Brandt rifiuta di discutere il suo ruolo nell'aver censurato le informazioni e sovvenzionato libri che nascondono le atrocità americane. UMORISMO MACABRO
Aneddoto di Teheran citato da WINSTON S. CHURCHILL, Closing the Ring, vol. 5 di The History, of the Second World War (Boston. Houghton Mifflin, 1951), p. 330; e da ELLIOTT ROOSEVELT, As He Saw It, (New York, Duell Sloan and Pierce, 1946), p. 190.
Durante il convegno di Teheran, intrattenendo a cena gli ospiti nella ambasciata sovietica, il maresciallo Josef Stalin disse che voleva mettere assieme dopo la guerra cinquantamila ufficiali tedeschi e fucilarli. Winston Churchill s'infuriò violentemente. " Preferirei essere portato fuori nel giardino subito per essere fucilato io stesso, piuttosto che macchiare il mio onore e quello del mio paese con una simile infamia " disse con veemenza. Franklin Roosevelt, vedendo crescere l'animosità tra i due ex nemici, suggerì con leggerezza di trovare un compromesso, fucilando 49.000 prigionieri. Stalin, che era l'ospite di questo importante incontro con i suoi due potenti alleati, fece diplomaticamente un sondaggio tra i nove uomini presenti a tavola. Elliott Roosevelt, figlio del presidente e generale di brigata nell'esercito degli Stati Uniti, rispose con un brindisi alla morte di " non solo cinquantamila... ma anche di altre centinaia di migliaia di nazisti ". Churchill, sbalordito, lo udí aggiungere " e sono sicuro che l'esercito degli Stati Uniti sarà ben d'accordo ". Entusiasta, Stalin abbracciò il giovane Roosevelt proponendo di brindare alla morte dei tedeschi.
Churchill esplose e gridò a Elliott Roosevelt: " Ma sai quello che stai dicendo? Come osi dire una cosa simile? ".
Churchill non credette, né allora né dopo, che " non vi fossero intenzioni serie nascoste dietro le loro parole ". Churchill` e Roosevelt non potevano dubitare che Stalin intendesse dire quello che aveva detto, perché Churchill aveva già informato Roosevelt delle conclusioni d'un tribunale internazionale a Katyn, in Polonia, che aveva accertato che, nel 1940, i russi avevano massacrato molte migliaia di ufficiali dell'esercito polacco dopo che s'erano arresi. L'Unione Sovietica, grazie ad un patto scellerato con Hitler, attaccò la Polonia nel 1939.
La documentazione fotografica mostra campi di concentramento senza ricoveri in violazione dei trattati internazionali per il trattamento dei prigionieri di guerra. Chi, a ragione e per senso di umana solidarietà, sbalordisce inorridito alla vista di filmati che mostrano baracche con file di letti a castello dei lager tedeschi, dovrebbe guardare queste foto dove prigionieri di guerra tedeschi furono lasciati deliberatamente all'addiaccio e con cibo insufficiente (cibo immangiabile per sole 600 cal. al giorno contro le 2.000 prescritte). Questo per ordine del generale "Ike" Eisenhower, considerato un eroe di guerra americano. Il trattamento duro di questi prigionieri, innocenti vittime di una vendetta per colpe certamente non loro, costò la vita, nel breve periodo di soli sei mesi, a oltre un milione di giovani tedeschi di vent'anni, rei solo di aver combattuto valorosamente. Nessuna assistenza sanitaria, fucilate a chi si avvicinava ai reticolati per implorare pane dai pochi civili che osavano avvicinarsi al campo nella speranza di avere notizie di propri congiunti oppure solo perché mossi a pietà. Anche questo é parte della storia della "liberazione"!
Gli archivi americani hanno tenuto segreti i documenti e molti sono stati distrutti fin dagli anni '50. Su detti documenti, i prigionieri deceduti furono indicati come "other losses" (altre perdite). Per poter aggirare le convenzioni di Ginevra, sempre per ordine di Eisenhower, i prigionieri non furono considerati "prigionieri di guerra" (P.O.W.) ma "disarmed enemy forces" (D.E.F.)! Quando si dice il genio militare di Eisenhower!



lunedì 26 gennaio 2015

I VIDEO DELLA DELEGAZIONE RNCR-RSI CONTINUITA' IDEALE - PUGLIA