mercoledì 29 aprile 2015

La Strage di Via RASELLA: un atto "eroico"

Quando la Morte arriva cantando: "BANDIERA ROSSA".
  


 
La Strage di Via RASELLA:
 

un atto "eroico"
Nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, avvenuta a Milano il 23 marzo 1919, un gruppo del movimento clandestino di resistenza romano preparò e attuò un temerario attentato contro i tedeschi, che ebbe tragiche conseguenze di sangue per la popolazione romana e scosse profondamente la coscienza nazionale.  web counter
Il 23 marzo 1944 alle ore 15 circa, nell'interno della città aperta di Roma, in pieno centro storico, in via Rasella, all'altezza di palazzo Tittoni, mentre passava un reparto di 156 uomini della 11a Compagnia del Reggimento "Bozen", (riservisti Altoatesini) comandato dal maggiore Helmut Dobbrick - che da quindici giorni era solito percorrere quella strada per rientrare in caserma dopo le esercitazioni - scoppiava una bomba a miccia ad alto potenziale collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 chilogrammi di esplosivo frammisto a spezzoni di ferro.
La tremenda esplosione causò la morte di trentatrè militari tedeschi e di sei civili italiani tra cui un bambino di dieci anni
    Subito dopo lo scoppio una squadra di appoggio, che sostava tra via del Boccaccio e via del Traforo, lanciava delle bombe a mano contro la coda del reparto per disorientare i militari e quindi si dileguava verso via dei Giardini allontanandosi rapidamente dalla zona.
 

Gli "eroi" di questa   operazione:

Rosario Bentivegna
Franco Calamandrei
Carla Capponi
Carlo Salinari
Pasquale Balsamo
Guglielmo Blasi
Francesco Cureli
Raoul Falciani
Silvio Serra
Fernando Vitagliano

Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, trasportò la bomba con la carretta; Franco Calamandrei, si tolse il berretto per indicare a Bentivegna che il reparto aveva imboccato via Rasella e che la miccia per l'esplosione doveva essere accesa; Carla Capponi, aspettava Bentivegna all'angolo di via delle Quattro Fontane; e poi Carlo Salinari, Pasquale Balsamo, Guglielmo Blasi, Francesco Cureli, Raoul Falciani, Silvio Serra e Fernando Vitagliano, tutti responsabili del glorioso e pluridecorato atto eroico. Altro che atto eroico, questo è stato un atto criminale bello e buono!
Questi giovani (tra i 20 e i 27 anni) facevano parte di uno dei tanti gruppi denominati di Azione Patriottica (GAP) e dipendevano dalla Giunta militare, emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), di cui erano responsabili: Giorgio Amendola (comunista), Riccardo Bauer (azionista) e Sandro Pertini (socialista). L'ordine di eseguire l'imboscata di via Rasella, preparata nei minimi particolari da Carlo Salinari, fu dato dai responsabili della Giunta militare. Successivamente Bauer e Pertini dichiararono di non essere stati preventivamente informati e che l'ordine venne dato da Amendola a loro insaputa. Amendola stesso, qualche tempo dopo, confermò la versione, rivendicando a se stesso la responsabilità di aver dato ai "gappisti" l’ordine operativo per l'attentato. 
    La sera del 26 marzo i giornali pubblicarono il testo del comunicato ufficiale germanico. In uno stile freddo, burocratico, la cittadinanza romana viene a sapere che:
"Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti-badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Il Comando tedesco ha perciò ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci comunisti-badogliani saranno fucilati: quest'ordine è stato eseguito". 
 
Processo Kappler. Tribunale Militare di Roma, 20 luglio 1948.
Momento drammatico di alta tensione in aula quando, nel corso dell'udienza, esce dal pubblico una voce straziante di donna che investe violentemente Rosario Bentivegna presente in aula in qualità di testimone: "Assassino, codardo! Ho la mia creatura alle Fosse Ardeatine, perché non ti sei presentato, vigliacco?". È un’invettiva che esce dal cuore lacerato di una madre. Scottante, crudele. Essa pone il problema morale della guerriglia e solleva un dubbio atroce: si poteva evitare la rappresaglia dei tedeschi? In altre parole, se i responsabili materiali dell'attentato si fossero presentati, il Comando tedesco avrebbe ugualmente deciso la rappresaglia? 
    Il presidente del Tribunale, gen. Euclide Fantoni, pone la domanda a uno dei protagonisti presenti, Rosario Bentivegna, appunto. Il teste risponde che la presentazione degli attentatori non fu esplicitamente richiesta dai tedeschi. “Se ci fosse stata - afferma - mi sarei presentato". E aggiunge: "la colonna tedesca costituiva un obiettivo militare. Facevano rastrellamenti e operavano arresti. Erano soldati. Ho avuto l'ordine di attaccarli e li ho attaccati". 
    "No, - ribatte Kappler - l’eccidio avrebbe potuto essere evitato se si fosse presentato l'attentatore o se fosse venuta un'offerta della popolazione. D’altra parte, da mesi erano affissi manifesti per gli attentati con l'indicazione della rappresaglia da uno a dieci".
    "No, - dice l'accusa - i manifesti di cui parla l'imputato Kappler erano stati affissi due mesi prima e lasciati esposti per soli due giorni". 
    Il punto da chiarire, quindi, non era tanto quello di sapere se la rappresaglia ci sarebbe stata oppure no. Era noto alle autorità politiche e amministrative, e a larga parte della popolazione, che ad ogni attentato le rappresaglie c'erano sempre, puntualmente. Quello che bisognava appurare era se un avviso, un comunicato fosse stato diramato dal Comando tedesco agli esecutori dell'attentato per invitarli a presentarsi onde evitare una strage di persone innocenti. Come abbiamo visto dagli atti del processo, Bentivegna lo esclude. 
In una lettera al settimanale "Panorama" del 28 marzo 1974, un testimone afferma: "Senza voler entrare nella polemica sulle responsabilità della strage delle Fosse Ardeatine, desidero testimoniare che la sera prima dell'attentato di via Rasella è stato affisso sui muri di Roma, e io l'ho letto, un manifesto preannunciante che il Comando tedesco avrebbe fatto uccidere dieci «comunisti badogliani» per ogni militare tedesco morto" .
    In una intervista Bentivegna dichiara: "Non credo che se mi fossi costituito la rappresaglia non sarebbe avvenuta...
I testimoni dell'attentato raccontano:

"Era ormai cosa nota a tutti che per ogni tedesco ucciso, dieci italiani venivano sacrificati. L'attentato di via Rasella non ha nulla di glorioso". 
Rosario Bentivegna, autore dell'attentato di via Rasella, addirittura decorato di medaglia d'argento per la sua gloriosa fuga, oggi docente di medicina del lavoro, non esita a dichiarare che rifarebbe tutto. 

Perchè i vigliacchi attentatori rimasero nascosti nell'ombra nonostante sapessero cosa sarebbe successo a persone innocenti?

Perchè hanno permesso che pagassero altri la loro eroica vigliaccata?

Processo al Feldmaresciallo Kesserling - parla il Magistrato inglese che lo assolse dalle accuse relative alla rappresaglia delle Ardeatine:

"Ciò che il Feldmaresciallo Kesserling doveva affrontare, non era uno stato
organizzato, MA ALCUNE PERSONE IRRESPONSABILI con le quali non poteva
negoziare, persone con le quali non poteva accordarsi e ai cui capi non
poteva dire: signori, controllate i vostri uomini. Di conseguenza, se ci
sono mai state delle circostanze in cui era necessario ricorrere alla
rappresaglia dopo l'avere invano ricercato i colpevoli, quelle che ho
descritto sono proprio le circostanze IN CUI LA RAPPRESAGLIA E' COSA
APPROPRIATA. E non esprimo queste considerazioni solo da soldato, in quanto
esse nascono soprattutto dal buon senso (.).
LE RAPPRESAGLIE SONO AMMISSIBILI COME INDISPENSABILE MEZZO PER ASSICURARE
CHE LA GUERRA RIMANGA NELLA LEGITTIMITA'.
Il semplice fatto che esse siano
previste in caso di violazioni della legge di guerra agisce ampiamente come
deterrente. Le rappresaglie non sono mezzi di punizione o di arbitraria
vendetta, ma sono strumenti di coercizione. E PROPRIO perché INFLIGGONO
SOFFERENZE A PERSONE INNOCENTI LE RAPPRESAGLIE HANNO FORZA COERCITIVA E SONO
INDISPENSABILI COME ULTIMA RISORSA. Atti illegittimi possono essere commessi
da persone che è impossibile arrestare e punire. E CIO' E' QUANTO ACCADDE A
ROMA. LA RAPPRESAGLIA ANDAVA ESEGUITA ED ANDAVA ESEGUITA VELOCEMENTE,
ALTRIMENTI SAREBBE STATA INUTILE DAL PUNTO DI VISTA MILITARE. Un crimine di
guerra è una deliberata violazione delle leggi di guerra: PERTANTO UNA
RAPPRESAGLIA, COME PREVISTA DAL DIRITTO INTERNAZIONALE, NON PUO' ESSERE
CONSIDERATA UN CRIMINE DI GUERRA".

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lunedì 27 aprile 2015

I FRATELLI GOVONI !




San Giorgio di Piano è uno di quei grossi paesi agricoli che insieme ad Argelato, Pieve di Cento e San Pietro in Casale s’incontra a circa metà strada fra Bologna e Ferrara.
E’ pianura emiliana che beneficiò funestamente dei primi collaudi socialisti e rivoluzionari. L’odio di classe continua a trovarvi una lussureggiante pastura.
Nell’immediato periodo del dopo-liberazione in questa zona che giuppersù potrebbe essere ampia quanto la pianta di Roma, per intenderci, i «prelevati» sono stati 128. Centoventotto persone che una sera furono portate via dalla loro casa e che mai più hanno fatto ritorno.
Centoventotto.
Fin’ora se ne sono trovati in queste fosse comuni circa una metà. Dell’altra sessantina perfino il mistero della loro morte è cupo.
Nella macabra fossa di Argelato, dunque, sono stati rinvenuti diciassette cadaveri buttati alla rinfusa laggiù con un metro di terra addosso. Di questi, ben sette erano fratelli.
Sono i fratelli Govoni.
La mamma di questi sette figli «prelevati» vive ancora. Ha passato questi ultimi anni nell’angoscia dell’ignoto destino dei suoi figlioli, nella disperazione. Se non fosse venuta incontro la fede a questa povera madre fiaccata dall’enorme lutto, come avrebbe potuto assistere ai funerali senza maledire i colpevoli? Invece ha invocato il Paradiso per le sue creature ammazzate.
Fino a poco tempo fa non usciva di casa. Uscendo, l’avrebbero schernita. La madre dei «prelevati». Un titolo di orrore. C’era perfino chi le canticchiava «bandiera rossa» dietro.
Ma ricostruiamo 1’agonia che l’odio di parte inflisse a questa gente. Di diciassette solo uno porta segni di pallottole. Gli altri hanno tutti ossa spezzate e cranio fracassato. E’ tragico ricostruire gli istanti di quella rabbia inumana e cainitica sull’orlo di questa fossa la notte dell’ll maggio 1945 quando ignoti sedicenti giustizieri hanno torturato codeste persone, picchiandole con bastoni e spaccando alla fine il cranio forse con colpi di ascia.
I sette fratelli Govoni li andarono a prendere uno per uno da casa. Si presentarono alcune persone dal vecchio padre la sera e bussarono alla porta. Giuseppe andò ad aprire e si vide i mitra puntati contro. Marino, Primo, Dino. Perfino l’Ida presero. L’Ida era sposata e stava allattando il figlioletto Sergio. «Venite lo stesso con noi».
Non tornarono più. La mamma, mentre li caricavano sul camion venne fuori con un grosso pane, perchè nel viaggio potessero mangiare un boccone. «E’ un breve viaggetto — avevano assicurato gli uomini col mitra a tracolla — abbiamo solamente bisogno di interrogarli per una informazione». Non tornarono più. Qualche tempo dopo alla madre che disperatamente cercava una pista per onorare almeno il sepolcro dei suoi sette figli dissero tra lo scherno: «Vi occorre, buona donna, un cane da tartufi».
Nella fossa macrabra di Argelato i cadaveri sono ammonticchiati disordinatamente. I carabinieri hanno rovesciato quel metro di terra che copriva tanta disumanità ed hanno intravvisto moncherini legati da filo spinato. Nella solitaria casa dei Govoni è restata solamente l’ultima figliola Maria a consolare la vecchia madre. Maria e il nipotino Sergio che oggi va all’Asilo e non sa che la madre sua la «prelevarono» una sera mentre l’allattava.
Gli altri
Tra gli altri dieci cadaveri sono stati riconosciuti i quattro Bonora, Giovanni Caliceti, Alberto Bonvicini, Guido Mattioli, Guido Paricaldi e Vinicio Testoni.
I quattro Bonora appartengono a tre generazioni: il nonno, il padre, il figlio e un cuginetto. Ivo si chiamava e quando incominciò la guerra giocava ancora a rincorrersi attorno ai pagliai. Li invitarono a presentarsi al comando partigiano per il rinnovo della carta d’identità in quel lontano maggio del 1945. Andarono e da allora ecco qua i loro cadaveri nella fossa macabra di Argelato.
Caliceti quando lo vennero a chiamare da casa, andò tranquillamente, perchè sapeva di non aver fatto niente a nessuno. Male non fare e paura non avere, diceva.
Malaguti, studente del terz’anno di ingegneria ed ufficiale della guerra di liberazione con gli alleati era appena tornato a casa da una settimana. Sparì. La mamma lo cercava affannosamente. Per sei anni il dolore incerto di questa donna è andato vagando dappertutto. Ecco, suo figlio glielo restituisce questa fossa a pochi chilometri dalla sua casa.
Ecco un altro resoconto:
…Si era sparsa, frattanto, tra i partigiani della 2ª brigata Paolo e delle altre formazioni, la voce che stava per incominciare una “bella festa” nel podere del colono Emilio Grazia. Dapprima alla spicciolata, poi sempre più numerosi, i comunisti cominciarono a giungere alla casa colonica dove erano già prigionieri i sette Govoni.
Non è possibile descrivere l’orrendo calvario degli sventurati fratelli. Tutti volevano vederli e, quel che è peggio, tutti volevano picchiarli. Per ore nello stanzone in cui i sette erano stati rinchiusi si svolse una bestiale sarabanda tra urla inumane, grida, imprecazioni. L’indagine condotta dalla Magistratura ha potuto aprire solo uno spiraglio sulla spaventosa verità di quelle ore. La ferrea legge dell’omertà instaurata dai comunisti nelle loro bande ha impedito che si potessero conoscere i nomi di quasi tutti coloro, e che furono decine, che quel pomeriggio seviziarono i fratelli Govoni. Si accertò, quando dopo molti anni furono scoperti i corpi, che quasi tutte le ossa degli uccisi presentavano fratture e incrinature.
Chi erano gli insensati esecutori dei fratelli Govoni e suoi sfortunati compagni?
La risposta: trattasi della famigerata e fantomatica “brigata Paolo”, ignota fino allora, non era probabilmente altro che un gruppo della 7ª GAP (Gruppi d’azione patriottica).
I partigiani della «2ª Brigata Paolo» infierirono con una crudeltà e sadismo veramente inconcepibili su ogni prigioniero.
Ida, la mamma ventenne, che non aveva mai saputo niente di Fascisti o di partigiani, morì tra sevizie orrende, invocando la sua bambina.
Quelli che non morirono tra i tormenti furono strangolati; e quando le urla si spensero definitivamente erano le ore ventitré dell’undici maggio. Avvenne, quindi, tra gli assassini, la ripartizione degli oggetti d’oro in possesso dei prelevati, mentre quelli di scarso o nessun valore furono gettati in un pozzo dove, anni avanti, saranno rinvenuti mentre si svolgeva l’indagine istruttoria.
I corpi delle vittime furono sepolti subito dopo in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica.
Per anni interi, sfidando le raffiche dei mitra degli assassini, sempre padroni della situazione, solo i familiari delle vittime cercarono disperatamente di fare luce su quanto fosse accaduto, nella speranza di poter almeno rintracciare i resti dei loro cari, primi fra tutti, i genitori dei fratelli Govoni.
Fu una ricerca estenuante, dolorosissima, ma inutile.
Nessuno volle parlare, nessuno volle aiutarli; molti li cacciarono via in malo modo, coprendoli d’insulti. Ci fu anche chi osò alzare la mano su quella povera vecchia che cercava solo le ossa dei suoi figli.
A Cesare e Caterina Govoni, sopravvissuti al più inumano dei dolori, lo Stato italiano, dopo lunghe esitazioni, decise di corrispondere, per i figli perduti, una pensione di 7.000 lire mensili: 1.000 per ogni figlio assassinato!
Anche se per quest’orrendo crimine ci fu un processo che si concluse con quattro condanne all’ergastolo, la giustizia non poté fare il suo corso perché gli assassini rossi”, così come in altri casi, furono fatti fuggire oltre cortina e di loro si perse ogni traccia; successivamente, il crimine fu coperto da amnistia!


domenica 26 aprile 2015

INGLESI E ANTIFASCISTI: A FUTURA MEMORIA



 
Guerra 1940-1945
 
Inglesi e antifascisti: a futura memoria
 
Di Marsilio Bruzio
 
Articolo tratto da STORIA E VERITA’ anno II n. 7 luglio/agosto 1992
 
 
            In un servizio apparso sul numero 2 di “Storia Verità”, Luigi E. Longo ha trattato il tema dell’apporto fondamentale della BBC inglese alla propaganda di guerra, e in particolare dell’opera prestata a Radio Londra nelle trasmissioni per l’Italia dalla Italian Section, affidata a responsabili inglesi per il coordinamento, l’impostazione e la regia dei programmi. Nel pezzo è stato evidenziato il lavoro svolto dai collaboratori italiani al servizio del nemico.
            E’già stato detto dell’importanza di organismi come il P.W.E. prima e P.W.B. successivamente, ma ora vorremmo approfondire la conoscenza sia delle persone che delle opinioni sulle stesse dei responsabili inglesi, il clima in cui si svolgeva detta collaborazione e, in conclusione, quale fu la valutazione obiettiva sull’apporto fornito allo sforzo di guerra britannico dagli antifascisti italiani.Chi si pose al servizio del nemico contro la Patria, fu coperto, a guerra finita, dall’art. 16 del Trattato di pace, espressamente imposto dagli Alleati per evitare l’addebito di reati previsti dalla legge vigente. Il premuroso intervento prova l’illiceità del comportamento di tanti “patrioti”.
            Nella ricerca, il punto fermo è offerto dalla documentazione conservata presso il P.R.Q. di Kew Garden (l’equivalente del nostro Archivio di Stato) e dall’esame della stessa si possono trarre interessanti giudizi. Il quadro globale è di desolante squallore morale, evidenziato dall’improntitudine dei protagonisti nel superare l’evidente disagio degli inglesi – dallo stesso Churchill a Stevens, dai funzionari del S.O.E. a quelli del P.W.B. e del Foreign Office – a servirsi di individui, cui non vengono lesinate mortificazioni. Tuttavia è una catena lunga, non interrotta a guerra conclusa, perché si serviranno ancora, i vincitori, dei loro prezzolati, sistemati nella politica, nella diplomazia, nelle università, nel giornalismo (Ruggero Orlando inviato poi dalla Rai a New York) nel mondo finanziario e in altri posti chiave dell’economia italiana, della magistratura, di enti importanti.
            L’armistizio del settembre ’43 non arreca vantaggi all’Italia. Il Nord è compresso tra l’interesse politico tedesco a disporre di un interlocutore come Mussolini, personaggio di rilievo nel mondo, e i limiti imposti dal controllo della situazione italiana, manifestatasi inaffidabile e colpevole di trascinarsi sulle spalle il pesante fardello del tradimento del Re e di Badoglio. Da qui sospetti e cautele per la miope visione germanica, incapace di saper distinguere e portata a caricare sugli italiani colpe a giustificazione di errori propri.
            Al Sud atmosfera ancora più pesante, creata dallo stato di “resa incondizionata”, gestito dagli Alleati con rigida chiusura verso le disprezzate istanze dei Savoia, di Badoglio e del suo non governo, e della stessa emergente classe politica. Il disegno di superare lo stato di resa offrendo la cobelligeranza appariva insensato e più ancora lo sperare “nell’ipotesi di una alleanza alla pari” (come ebbe a scrivere un alto esponente inglese).
            L’incapacità politica di valutare realisticamente la situazione, non impediva agli esuli antifascisti in Inghilterra di lavorare contro gli interessi del loro Paese. A tale proposito interessanti spunti sono offerti dalla documentazione contenuta nel volume di Peter Sebastian I servizi segreti speciali e l’Italia 1940-1945 edito da Bonacci e curato da Renzo De Felice per la collana “I fatti della storia”. Da questa libro la classe antifascista italiana esce malconcia e svilita, spremuta come un limone gettato nella pattumiera. Ma non si salvano nemmeno gli inglesi, perché cade l’affermazione di Churchill che attribuiva al fascismo tutte le disgrazie italiane: infatti aver ricevuto dagli antifascisti richieste e indicazioni sui luoghi da bombardare, vanifica le giustificazioni morali e personali per l’attività terroristica dell’aviazione britannica nell’estate del 1943. Eppure il Sig. Churchill aveva già in passato espresso le sue opinioni su Mussolini e il Fascismo, anche in tono apologetico, e le sue contraddizioni sono ancor più complicate dall’irrisolto mistero della corrispondenza avuta con il Duce e delle sue visite sul lago di Como a guerra finita.
            La classe politica antifascista aveva dimostrato nei rapporti con gli inglesi, durante la guerra, limiti morali e mancanza di progetti costruttivi, anteponendo sempre l’interesse di parte  o personale al sentimento patriottico. L’impressione suscitata era sgradevole e sprezzante, purtuttavia facilitava il disegno politico alleato. Solo il  Ministro degli Esteri Eden non abbandonava la sua nota ostilità verso tutti gli italiani indistintamente e, fautore convinto della resa incondizionata – Churchill all’inizio fu titubante – non volle mai riconoscere ufficialmente il Free Italy Movement, scaricandolo al Ministero della Propaganda, cui fecero capo i fuoriusciti italiani, vecchi e nuovi arrivati. Facevano parte del movimento: Lussu, Tarchiani, Cianca, Garosci, Zanni, Gentili, Balzani, Crespi, Sforza, Pettoello, Petrone, Luzzatto, Orlando, Gentile, De Meo, Gavasi, Tartagli, Galli, panizzi, Fano, Zencovich, Montani, Mazzucato, Pio, Sampietro, Forti, Minio-Paluello, Priuli-Bon, De Bosi, Montruschi, Formigoni, Nissim, Vincis, Zanelli, utilizzati dal S.O.E. sia per la sezione propaganda (SO.1) della P.W.B. sia, in minima parte, per qulla operativa (SO.2). Alcuni furono inviati in Italia (sbarcati da sommergibili o aviolanciati) e tra essi Marini, Zapetti, Andreoli, Sisnaver, Sartori, Picchi, tutti catturati, processati e condannati alla fucilazione come spie al soldo del nemico.
            L’attività iniziale del F.I.M. venne giudicata deludente dal responsabile inglese della Italia Section del S.O.E. Hugh Dal ton ed errata nell’impostazione psicologica per le accuse generiche e gratuite rivolte verso tutti gli italiani, tanto che fu ritenuto necessario rivedere tutta l’impostazione. Fu così affidata a funzionari inglesi la responsabilità delle trasmissioni, incentrando l’attività propagandistica più incisivamente su Mussolini e il fascismo, additati come responsabili della guerra e delle sconfitte militari italiane.
            Una relazione datata 30/09/42 del P.W.B. così descriveva i risultati della I.S.: “molti sforzi sono stati fatti con la propaganda per trovare una formula attraverso la quale potesse essere creato un movimento antifascista forte e popolare. Sono stati avvicinati leaders potenziali, rivolti appelli a gruppi politici e sociali. Tutto fallito. Persino la famiglia reale non offriva garanzia alcuna né possedeva tra i suoi componenti qualcuno con qualità carismatiche”.
            Anche i più attivi e dinamici tra i fuorusciti antifascisti, ad esempio Emilio Lussu, affermavano quanto i fatti smentivano, ossia l’esistenza in Sardegna di una situazione prerivoluzionaria da far esplodere “con un semplice cenno della mano”: da qui i sarcastici commenti e la meritata taccia di millantatore.
            Il movimento politico che riscuoteva qualche credibilità “Giustizia e Libertà”, specializzatosi purtroppo nel segnalare obiettivi da bombardare, non ebbe migliore fortuna ed il gruppetto composto da Tarchiani, Cianca, Garosci e Zanni fu trasferito alla sezione S.O.E. del Cairo nel 1943 in previsione di poter essere utilizzato dopo lo sbarco in Sicilia. Il S.O.E. rifiutò però di accettare volontari italiani (ad eccezione di elementi dotati di particolari qualifiche, tutti ufficiali e sottufficiali in S.P.E.) così che il divieto rimase in vigore in tutte le FF.AA. alleate. Accadde anche che un reparto logistico-amministrativo dell’esercito britannico rifiutasse decisamente di essere aggregato provvisoriamente ad un reparto militare italiano del Sud affermando che “…ciò costituirebbe un’indegnità troppo grande per il personale britannico”. Lo stesso conte Carlo Sforza, uno fra i più noti antifascisti (nel dopoguerra ministro degli esteri) venne definito da Churchill “stupido e sleale vecchietto” allorché si rifiutò di entrare nel governo Badoglio,  giudicandolo prossimo alla liquidazione. Sforza si ebbe una pesante reprimenda dal premier inglese che lo accusò di “non stare al gioco prestabilito” nel più vasto contesto del “do ut des”, e fu grazie all’appoggio americano che rimase a galla fino a che il fatto venne ridimensionato, pur conservandosi l’acredine inglese.
            La classe politica antifascista, emblematico il campionario londinese, era molto diversa da quella anglo-sassone, opposizione compresa, per dirittura morale, senso di patriottismo comportamento responsabile e  coerenza di azione con il War Cabinet. Gli inglesi erano preoccupati non solo per il non edificante spettacolo offerto dagli esuli ma anche perché essi non riuscivano ad ottenere “…una analisi obiettiva ed omogenea delle personalità, delle tendenze, condizioni e opinioni, degli italiani,  soprattutto per le contrastanti risultanze emerse…Il signor Orlando sottolineò tristemente che era pervenuto alla conclusione che i rifugiati contassero pochissimo e che ogni vero movimento di rinascita dovesse provenire dall’interno del paese stesso” (P. Dixon, funzionario del Foreign Office).
            Soltanto con le relazioni dell’AMGOT gli inglesi poterono avere un quadro obiettivo anche se sconcertante della realtà politica italiana. Naturalmente nel clima di ostilità preconcetta, anche le autorità italiane del Sud non trovarono crediti e consensi, se non un generico e gratuito incoraggiamento. L’ipocrisia di fondo non offriva alcun serio contributo al miglioramento dei rapporti diplomatici e della politica generale, tanto che gli alleati sintetizzavano: “L’Italia è un nemico sconfitto e allo stesso tempo un cobelligerante che si aspetta di essere trattato da alleato”.
            Con l’avvento di Ivanoe Bonomi al posto del defenestrato Badogliole cose non cambiarono poiché Londra definì l’avvenimento sarcasticamente con la frase: “un grande disastro per l’avvento di questo gruppo di politici vecchi e affamati così poco rappresentativo”.
            Pietro Nenni veniva classificato pericoloso a causa della sua amicizia con i comunisti, in specie Togliatti. O. Sargent, funzionario inglese, lo descrisse in un suo rapporto “un disastro” per le continue minacce del leader socialista nel prospettare la guerra civile in caso di rifiuto delle istanze social-comuniste sunteggiate nello slogan “o la repubblica o il caos”.
            Il comportamento cinico e sprezzante degli inglesi non fu diretto, ad onor del vero, soltanto verso gli italiani , ma ne fecero le spese francesi e jugoslavi, polacchi e cecoslovacchi e si ebbero contrastanti comportamenti a seconda delle variazioni politiche internazionali inserite nel più grande ed egoistico gioco di Churchill. Si salvarono i reali d’Olanda e Norvegia, ma furono sacrificati quelli di Jugoslavia e d’Italia, emarginati quelli belgi e greci e caddero o sopravvissero uomini politici, specie dell’Est-Europa, secondo la logica di Yalta.
            I politici antifascisti italiani confluiti in Inghilterra non furono molti, anche se di diverse ideologie politiche: non riscossero  piena fiducia ed ebbero scarsa considerazione, non migliorarono i loro rapporti con gli inglesi e si alienarono le poche simpatie raccolte. Importante quella del Labour Party, più incline alla solidarietà internazionale che al miglioramento dei rapporti con gli italiani, i quali vissero e si agitarono disordinatamente, incompresi ed emarginati, utilizzati di volta in volta e poi accantonati, così che “…tutti i tentativi fatti per influenzare l’opinione pubblica inglese fallirono” scrisse lo storico M.R.D. Foot. Erano esuli fra esuli, anche se ci furono eccezioni, specie per la nutrita presenza ebraica, come i Colosso, i fratelli Piero e Paolo Treves e Carlo Petrone e più tardi Zencovich e Ruggero Orlando (già squadrista fascista e nipote dello statista siciliano – n.d.a.).
            I loro appelli agli italiani rimasero senza risposta, e un completo insuccesso fu la tentata costituzione di una missione da inviare nei campi prigionieri dell’India, dell’Egitto e dell’Africa Orientale per fare proseliti antifascisti e costituire reparti militari da inviare contro i tedeschi.
            Fallito anche questo tentativo oltre quello radiofonico, rimasti isolati per dissidi interni, non riuscirono ad accreditarsi presso gli inglesi come “esperti di problemi italiani” avendo mostrato di ignorare tutto della vita italiana. Lo stesso Stevens “il colonnello Buonasera” riconosceva la scarsa rilevanza  della loro collaborazione. Essi correvano però il rischio, in caso di guerra vinta dall’Asse, di essere accusati di alto tradimento per intelligenza col nemico e di essere fucilati (come accadde al figlio di Lord Amery impiccato dagli inglesi in quanto colpevole di aver fatto propaganda per l’Asse in funzione anti-inglese).
            Trovarono appoggio soltanto in Italia, spalleggiati dai loro partiti e dalla partecipazione prestigiosa di un filosofo come Benedetto Croce, che nel discorso di Bari del 28 gennaio 1944 antepose ad una vittoria del fascismo la sconfitta dell’Italia, tesi aberrante per l’odio che l’ispirava, per il fanatismo delle idee che smerciava, per l’assoggettamento della patria al nemico.
            Nell’etere venivano profusi i germi più nefasti dell’anarchia, dell’odio insensato per le istituzioni nazionali, della demagogia politica, delle lacerazioni delle coscienze, della dissoluzione morale, del rifiuto dei valori di sempre e tutto per il trionfo del pensiero individuale e del particolare interesse.
            Ben diverso il discorso tenuto da Giovanni Gentile il 24 giugno del 1943, rivolto a tutti gli italiani, fascisti o non, che incitava a credere nell’avvenire della Patria da far grande contro le avversità della natura e degli uomini: ..un popolo che salvi intatta la coscienza della propria dignità, che non smarrisca la nozione di quel che esso è e deve essere, potrà vedersi a un tratto oscurarsi il firmamento sopra di sé, ma a breve le stelle torneranno a brillare”. Ed ancora nella primavera del ’44, all’inaugurazione dell’anno accademico, egli diceva: “..è dovere civile di ogni italiano ricordare, ora e sempre, per avere viva e intera coscienza delle nostre colpe, del severo castigo meritato, dell’aspra fatica che ci tocca di affrontare per espiare il passato e riconquistare il posto a cui ci danno diritto il sacrificio dei morti, la nostra intelligenza, le virtù del nostro popolo sano e laborioso. Dico, delle nostre colpe, perché nessuno degli italiani che voglia lavorare alla ricostruzione e quindi alla concordia del Paese, vorrà declinare la sua parte di dignità umana. Soffriamo le conseguenze, quantunque sia anche giusto che l’onta e il danno ricadano maggiormente su coloro che abusarono della fiducia in loro riposta e nell’ombra tradirono la Patria e ne vollero dissennatamente lo sfacelo: annientato l’esercito, consegnata al nemico la flotta, sfasciata la compagine nazionale, spenta nei cuori ogni fede negli istituti fondamentali, fiaccata e distrutta la coscienza e la volontà della stirpe: l’Italia, già fiera della sua antica e nuova storia, e soprattutto della gloriosa parte avuta nella precedente guerra mondiale e del vigoroso impulso quindi impresso al ritmo di tutte le sue energie, ridotta un gregge senza capo, sbandata moltitudine senza un’anima, umiliata e spregiata dallo straniero, vile è ai suoi propri occhi, come se il disonore di un gesto avesse cancellato venticinque secoli di storia scintillante di genio, di virtù, di lavoro, di ardimenti. Un’Italia “libera”, a sentire una bugiarda ed empia leggenda; quando in verità non c’era più un’Italia, e le sue terre, i suoi uomini, i suoi tesori d’arte eran preda o ludibrio degli invasori, a cui sono state aperte le porte”.
            Pochi giorni più tardi, Giovanni Gentile veniva assassinato dai GAP comunisti e, da Radio Londra, il velenoso Stevens dette la notizia dimenticando d’aver propiziato con gli inviti alla violenza. Giovanni Spadolini, definì il 22 aprile 1944sul periodico “Italia e civiltà” come: “…spregevole e infame per la nostra razza l’assassinio del filosofo”. Croce ebbe modo di pentirsi, fortunatamente per lui, sconfessando sé stesso nel luglio 1947 alla firma del trattato di "pace" con l’Italia, perché: “…profondamente deluso dagli anglo-americani, ai quali mi sono spiritualmente alleato, con la speranza che riconoscessero all’Italia un’eguaglianza di merito nella guerra civile e “religiosa” contro l’Asse: una speranza completamente tradita”. Ed ancora più avanti, ugualmente deluso dalla nuova classe politica antifascista generata dal tradimento, enunciava: “…la ricostruzione e l’assicuramento della libertà precede ed è fondamentale, e non bisogna mescolare e confondere i suoi problemi con gli altri di carattere variamente particolare, né illuderci che si possa, con gli allettamenti di particolari riforme e di vantaggi economici attirare a quella giacché, con procedimenti siffatti (che sono da dire simoniaci in quanto contaminano il sacro col profano) si otterrebbe in tal caso, non la libertà, ma la vana sua apparenza, la retorica democratica  o piuttosto demagogica, rumorosa e vacua, energica a parole e debole nel fatto, e tale da crollare al primo urto”.
            Noi non siamo particolarmente legati al Croce, come uomo in primis, ma dobbiamo riconoscergli il tardivo pentimento che ci dà ragione.
            Gli esuli antifascisti che in Inghilterra aiutavano il nemico di allora a vincere la sua guerra, miravano a ben più pingui e remunerativi obiettivi che al ristabilimento in Italia della libertà e della democrazia. Basta guardare le loro carriere del dopoguerra.
 
Indice delle sigle
 
P.W.E.           Political Warfare Executive
 
P.W.B.           Psychological Warfare Branch
 
P.R.O.                        Public Records Office
 
S.O.E.             Special Operation Executive
 
I.S.                  Italian Section

                    

                                                                                                                      

giovedì 23 aprile 2015

IL MARTIRIO DI IOLANDA DOBRILLA, UCCISA DAI PARTIGIANI


IL MARTIRIO DI IOLANDA DOBRILLA, UCCISA DAI PARTIGIANI  17 anni!


Omaggio alla giovane innocente vittima dell’odio antifascista
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Il 23 Aprile 1944, due partigiani della banda “Manni” si presentarono a Lugnola di Configni (Rieti) in cerca della giovane capodistriana Iolanda Dobrilla. Nonostante il paese si apprestasse a festeggiare la Madonna di Loreto, gli improvvisati giustizieri decisero di agire senza indugiare oltre.
La ragazza diciassettenne, già in forza come traduttrice al Comando germanico di Velletri (Roma), aveva deciso di ritornare a casa dopo che quel Comando era stato distrutto da un bombardamento. Ma il viaggio di ritorno risultò impossibile e Iolanda si trovò “bloccata”, in quell’Inverno 1943-44, sulle montagne di Rieti, ospite di una compassionevole famiglia. Tuttavia, la sua bellezza, il suo conoscere una lingua così tanto odiata dalla guerriglia comunista, fecero nascere dei sospetti. Sospetti che nella mente di alcuni antifascisti divennero certezza: la ragazza era una “spia”. Sebbene Iolanda mai avesse dato adito a sospetti di sorta – tutti ricordarono il suo comportamento a dir poco “esemplare” – i Comandi partigiani della zona decisero la sua condanna a morte.
Per la guerriglia quello era un periodo di forte sbandamento. Dopo i grandi rastrellamenti germanici dell’inizio Aprile, la Resistenza era stata praticamente liquidata in tutta la provincia e quel che rimaneva “alla macchia” erano solo piccoli gruppi di sbandati assetati di vendetta. In questo clima maturò l’incomprensibile decisione di eliminare la ragazza. Dopo essere stata prelevata, Iolanda venne trascinata sui monti all’estremo Nord dei Prati di Sotto (le Prate di Cottanello) e qui uccisa in modo atroce. Le venne lanciata contro una bomba a mano e il suo corpo successivamente dato alle fiamme. Quel che il rogo non distrusse divenne il pasto dei maiali che pascolavano nella zona.
Le Autorità della RSI intervennero subito per cercare la ragazza, ma tutto fu vano. Anzi, la storia si macchiò di un altro drammatico fatto di sangue: il Mil. Primo De Luca che stava raccogliendo gli indizi sull’assassinio della giovane, il 9 Maggio 1944 venne catturato da alcuni partigiani e sommariamente fucilato davanti al cimitero di Vasciano di Stroncone (Terni).
Il Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti, nel settantesimo dei due drammatici fatti di sangue, ha elaborato un “percorso della memoria” perché questa storia non sia mai dimenticata. E’ stato proposto al Sindaco di Configni di dedicare due strade del Comune al ricordo del Mil. Primo De Luca e di Iolanda Dobrilla e chiesto ai Sindaci di Stroncone e di Cottanello di poter erigere sui luoghi dei due gravi fatti di sangue delle croci perenni.
«A tanti anni da questo dramma – ha dichiarato il Dott. Pietro Cappellari, Responsabile culturale del Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti – si rimane stupiti davanti all’omertà diffusa e alla volontà di cancellare questa storia. Oggi si conoscono due degli autori dell’eliminazione della diciassettenne Iolanda Dobrilla: i partigiani Francesco Marasco e Luigi Menichelli. Se questa è stata una “legittima azione di guerra”, vorremmo sapere i nomi di tutti coloro che parteciparono al “beau geste” e al rogo del corpo. La storia esige che i fatti come accertati – anche in sede giudiziaria – non siano più ignorati. Proprio per questo abbiamo intenzione di portare la storia di Iolanda Dobrilla nelle scuole del Reatino, per far conoscere il passato del nostro territorio libero dai condizionamenti politici che hanno modificato la realtà dei fatti. All’odio antifascista dei “cattivi maestri” che hanno plagiato intere generazioni di studenti, opporremo l’amor di Patria, perché solo nell’amore per la propria terra si può costruire un futuro di libertà».

Ufficio Stampa
Comitato Pro 70° Anniversario
della RSI in Provincia di Rieti


                                                                                                                                                

mercoledì 22 aprile 2015

25 APRILE 2015: S.ANGELO IN FORMIS


25 APRILE 2015: S.ANGELO IN FORMIS

25aprileformisIl Battaglione Nuotatori Paracadutisti della Decima Mas aveva addestrato un suo reparto per missioni nelle retrovie nemiche. Alcuni furono catturati dagli inglesi. La mattina del 30 aprile 1944 vennero caricati su di un camion e trasportati sul luogo dell’esecuzione, in una cava di Sant’Angelo in Formis. Il maggiore inglese addetto alle esecuzioni era molto turbato da dover giustiziare quei giovani e, tramite una professoressa che traduceva, cercò di convincerli a ripudiare la bandiera, dicendo che se lo facevano potevano aver salva la vita. Chiesero di consultarsi da soli. Franco Aschieri, Italo Palesse, Giorgio Tapoli, Vincenzo Tedesco,parlarono e decisero di morire piuttosto che rinnegare la Patria. Andarono alla fucilazione cantando.
Straordinariamente emozionante è la relazione che ne ha fatto Don Giuseppe Ferrieri parroco di San Pietro di Santa Maria Capua Vetere che ebbe ad assisterli: «Li trovai che cantavano. Appena mi videro stettero zitti, e quando il cancello di ferro si aprì, mi si strinsero intorno. Io stavo in mezzo ad essi col solito sorriso. E sono quattro: un milanese, un romano, un napoletano, uno di Aquila. Il milanese e il romano erano biondi, quello di Aquila bruno, robusto, con un’aquila sul petto; il napoletano bassotto con i calzoni da ufficiale. Mi dissero che si erano già confessati. Feci recitare l’atto di dolore e dopo poche e semplici parole li comunicai. Stavano a mani giunte, guardando fissi l’Ostia Santa, che si posò viatico per l’estremo viaggio. Un breve ringraziamento. Due pose per fotografia, io in mezzo a loro nella prima, Gesù crocifisso tra loro e me nella seconda. Un militare della M.P. mi disse che avevo altri due minuti di tempo. – Siamo già pronti! – fu la risposta. Li volli accompagnare sul luogo del supplizio. Uscii con due di loro fra quattro M.P. americani armati. Il pianto dei carcerati ci accolse alla uscita del corridoio: Figli miei, figli miei! Erano le undici antimeridiane. Fuori del portone del carcere ci accolse un grido di dolore. Un po’ di gente venuta ad assistere al macabro spettacolo. I due, il romano Tapoli Giorgio studente in medicina, e il napoletano Tedesco Vincenzo, risposero inneggiando all’Italia fascista. salii con loro sulla Gip, tra il napoletano e un M.P., facemmo un buon tratto allegramente in quella macchina da ridolini, come disse il romano, il quale mi descrisse tutte le fasi della sua morte. Alcuni credettero e dissero che anch’io ero stato condannato. Arrivammo. Due pali in una partita di grano verde, dietro una cava di pozzolana. Parecchi ufficiali erano commossi, così pure il colonnello che, dopo la prima esecuzione, si disse increscioso di dover agire in tale modo. Eccoli vicino al palo, il romano si toglie la camicia. Mi dice che non vuol farsela bucare. Gli legano le mani: io lo conforto ricordandogli Gesù morto in croce. E’ sorridente. Gli dico che pregherò per lui e che lui deve pregare per i miei giovani. Due altre funi, una sul petto, l’altra sul ventre. Passo al napoletano, sorridente, bruno. Ha sul capo una bustina bianca con l’aquila hitleriana. Mi raccomandano le lettere che hanno scritto ai loro cari; io prometto di parlare agli ufficiali, i quali mi dicono che li accontenteranno. Altri pochi istanti; bacio il napoletano, bacio il romano, incoraggio ambedue, i quali rifiutano di essere bendati. Due soldati caricano i dodici moschetti. Quel chiudere ed aprirsi mi fa il cuore a pezzi. I due eroi hanno ancora delle parole: “Il tenente di Aversa (un certo Tonini, oriundo italiano che li aveva giudicati) sa che noi siamo innocenti”. In lontananza una terrazza è affollata di gente che guarda piangendo. Un comando secco: sei dei dodici poliziotti si inginocchiano; un altro comando: puntano il fucile; un terzo comando ancora… una detonazione. Abbasso gli occhi, un colpo solo. Vidi cadere i cari giovani, mi avvicinai a loro recitando tre Requiem e un De Profundis per ciascuno. Mi raccomandai alla loro intercessione. Quattro soldati americani e due cantonieri fanno da becchini. Fotografie a non finire durante tutta l’esecuzione ed il primo atto tragico termina. Si vanno a rilevare gli altri due, che arrivano alle 11,45. Appena mi vedono mi sorridono; hanno trovato una faccia, un viso amico che è lì per confortarli. Quello di Aquila si toglie anche lui la camicia. Lo legano, desidera una sigaretta. Un capitano gliela da’, accendendola; lo stesso fa per l’altro, il milanese, simpatica figura di giovane buono. Fo’ loro coraggio. Mentre lo legano, il milanese grida tre volte: “Heil Hitler”, e l’altro risponde: “Heil”. “Noi siamo innocenti. Dio stramaledica gli inglesi!”. Io lo guardo, mi capisce: avevo detto loro di non odiare il nemico. Mi guarda e canta: “Vivere sempre vivere, senza malinconia!” Li bacio sorridente tra i sorridenti, mi scosto pochi metri; i tre soliti comandi secchi… Vi vidi abbassare pian piano, o giovani. Ascoltai il vostro rantolo: i colpi non furono precisi come la prima volta; l’anima vostra stentava ad uscire dal vostro corpo. Che strazio al mio cuore! Vi assolsi l’ultima volta “Sub conditione” , Tre requiem e un De profundis per ciascuno. Una macchina di corsa mi condusse a celebrare la Santa Messa. Il popolo mi aspettava da pochi minuti impaziente. Là si ignorava tutto. Era una bella giornata primaverile si pensava a goderla. Celebrai la Santa Messa ancora commosso e pregai per le Vostre anime benedette, per le Vostre mamme adorate. Anche Voi dal cielo pregate per me, per i miei giovani, per il mio apostolato, per l’Italia divisa in tanti partiti che la rovineranno.
L’ ULTIMA LETTERA DI FRANCO ASCHIERI ALLA MAMMA
«Cara mamma, con l’animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze e sensazioni. In questi ultimi momenti l’unico dolore per me è costituito dal pensiero di coloro che lascio e delle cose che non ho potuto portare a compimento. Ti prego, mamma, fai che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lagrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso, come se volesse liberarsi dai vincoli della carne per riconquistare la libertà. Non ho alcun risentimento contro coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio, che ha giudicato sufficiente il ciclo spirituale da me trascorso in questa vita presente. Sappi mamma che non resti sola, perchè io resterò vicino a te per sostenerti ed aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione, dato che il legame che ci univa su questa terra, più di quello che esiste tra madre e figlio, è stato quello che unisce due spiriti affini e giunti allo stesso grado di evoluzione. Sono certo che accoglierai la notizia con coraggio e voglio che tu sappia che in momenti difficili io ti aiuterò come tu hai aiutato me durante questa vita. In questo momento sono lì da te e ti bacio per l’ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il Fascismo. Viva l’Europa. Franco».

R.N.C.R. R.S.I. COORDINAMENTO CAMPANIA.

domenica 19 aprile 2015

L'ANTINAZIONE CELEBRA. NOI NO! -- CONSISTENZA DELL’ANTIFASCISMO

 
L'ANTINAZIONE CELEBRA. NOI NO!

70 ANNI FA NELLA MALEDETTA PRIMAVERA DEL 1945: ECCIDI INAUDITI STERMINIO, SANGUE A RIVOLI
SULLE ROVINE MORALI E MURARIE DELLA PATRIA. UN'OFFERTA MERCENARIA AI NEMICI ANGLO-RUSSI AMERICANI, NEL TRIPUDIO DI UNA"LIBERAZIONE" CHE NON HA LIBERATO ALCUNCHE'.
SOLO UN ESPEDIENTE AL FINE DI CATTURARE I CRETINI DI MENTE, STRUMENTI VALIDISSIMI PER LA
NOSTRA SCONFITTA MILITARE.
GLI OPERATORI PASSATI ED ODIERNI DEL RUOLO "LIBERATORIO" MONTANO IMPERTERRITI LA GUARDIA
DINNANZI AGLI HAREM DELLE VERITA' PROSTITUITE, DELLE MENZOGNE DISCINTE PER IL CONCUBINAGGIO
CON LA CORRUZZIONE POLITICA, LA PIU' RAFFINATA, LA PIU' PROFONDA, LA PIU' COMPLETA.
INVASATI DI LIBIDINE ANTINAZIONALE, SONO REFRATTARI AD OGNI RICHIAMO DI CIVILTA' , DI SVILUPPO.

          Dino


CONSISTENZA DELL’ANTIFASCISMO MILITANTE NEGLI ANNI 40





Nel panorama politico italiano degli anni ’40 tra la cittadinanza, la percentuale degli aderenti al P.C.I. era minima e comunque decisamente minoritaria, forse non più del 7%-8% della popolazione.
Nella resistenza invece, la presenza ed il peso politico del P.C.I. fu preponderante in un rapporto, rispetto alle altre formazioni partigiane, dell’80%-90%.
Tant’è vero che alle elezioni politiche del 1946 e nonostante la massiccia propaganda post resistenziale, il P.C.I. ottenne solo un 18% dei suffragi nonostante la propensione, tutta italiana, di abbandonare il carro dei vinti per salire su quello dei vincitori…
Ciò dimostra, inequivocabilmente, che l’antifascismo militante durante il regime Fascista, fu un fenomeno che coinvolse solo una piccolissima parte della popolazione italiana dato che la stragrande maggioranza dei partigiani proveniva da quel 7%-8% della popolazione.
Questa è aritmetica di base e, come tale, è inconfutabile..!!
L’antifascismo di massa che oggi la kultura resistenziale vuole gabbare è una bufala che non sta in piedi ed i numeri lo dimostrano!!
La riprova di ciò è il fatto che il Fascismo fu abbattuto dall’azione congiunta dei 5 più forti eserciti del mondo e non certo dal movimento partigiano..!

Alessandro Mezzano