domenica 24 maggio 2015

FASCISMO OGGI

FASCISMO OGGI



Sono passati 70 anni da quando la coalizione dei 5 eserciti più potenti del mondo, finanziati e comandati dalla finanza internazionale che ne temeva il successo, hanno abbattuto il Fascismo in una impari guerra del sangue contro l’oro.
Eppure, in Italia, ma anche in tutto il mondo ancora si parla e si discute di Fascismo e di Fascisti.
Segno che la rivoluzione ideale che il Fascismo ha realizzato e le conseguenti leggi e riforme che hanno determinato un profondo cambiamento nella società e, soprattutto, la grande novità sul piano sociale, economico ed ideologico che esso ha prodotto sono tali e talmente importanti da sollecitare l’attenzione che esso suscita ancora.
Non solamente i vecchi che furono protagonisti della rivoluzione Fascista e che, purtroppo sono oggi quasi tutti spariti per ragioni anagrafiche, ma anche i giovani sono attratti da quegli ideali e da quella storia tanto da farli aderire nonostante le calunnie, le persecuzioni, gli anatemi e le scomuniche sociali e politiche cui vanno incontro da parte del potere e dei partiti di ogni colore!
Tutto ciò vorrà pure dire qualche cosa e senza alcun dubbio quell’interesse e quelle adesioni sono conseguenti alla sostanza storica che il Fascismo ha lasciato in eredità alla nazione.
Non mette nemmeno conto di elencare ancora qui tutte le leggi e le riforme realizzate in 20 anni, dei quali 5 di guerra, dal regime Fascista e che ancora formano lo scheletro portante dello stato sociale italiano.
Basta scorrere la raccolta della gazzetta ufficiale di quegli anni e rileggersi i commenti italiani, ma soprattutto internazionali dei giornali dell’epoca così come i commenti di tanti uomini illustri  per rendersi conto di quanto fece il Fascismo letteralmente rivoluzionando sia il contesto sociale che quello dei comportamenti delle persone e dei responsabili delle istituzioni dello stato.
Il Fascismo di oggi raccoglie tra le sue file coloro, vecchi ma specialmente giovani, che non si accontentano di un mondo tanto materialista nel quale ogni cosa, anche la più nobile ha attaccato il cartellino del prezzo.
Quelli che vogliono ancora sperare che oltre al denaro ci sia qualche cosa per la quale  valga la pena di lavorare, di agire e di desiderare.
Coloro che non si rassegnano a fare parte di una umanità che vede nello “Sballo”, nei soldi e nella carriera le uniche mete per cui vivere..!
Il Fascismo, oggi come ieri, è la rivolta contro il materialismo del marxismo e del capitalismo per un mondo nel quale l’Uomo tenda al proprio superamento verso il “Superuomo” Nietzschiano…

Alessandro Mezzano


venerdì 22 maggio 2015

IL FASCISMO AD ANZIO E NETTUNO

IL FASCISMO AD ANZIO E NETTUNO 1919-1939. UNA STORIA ITALIANA

Fronte2
 Formato: 17×24 (Pagine: 288)
 Autore: Pietro Cappellari
Casa Editrice: Herald Editore (Roma 2014)
Info: heraldeditore@libero.it
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IL FASCISMO AD ANZIO E NETTUNO
Come il Regime cambiò il volto dell’Italia. Il nuovo libro di Cappellari
Dopo una lunga attesa è uscito per i tipi della Herald Editore il nuovo studio del ricercatore nettunese Pietro Cappellari. L’opera raccoglie i frutti di oltre venti anni di ricerca e si pone come ultimo tassello della collana di studi storici sulla storia della prima metà del Novecento di Anzio e Nettuno inaugurata nel 2009 dal ricercatore di Nettuno. Cappellari, infatti, ha già dato alle stampe tre importanti contributi per la comprensione del Regime fascista e la Repubblica Sociale Italiana sul territorio: I Legionari di Nettunia (che narra le vicende dei combattenti della RSI di Anzio e Nettuno); Lo sbarco di Nettunia (che costituisce il più completo studio sull’operazione anfibia del 22 Gennaio 1944 e la successiva battaglia per Roma); e Nettunia, una città fascista 1940-1945. Il nuovo studio, dal titolo Il fascismo ad Anzio e Nettuno 1919-1939. Una storia italiana, si inserisce in questa collana andando ad illustrare l’avvento del Fascismo ad Anzio e Nettuno e come, su questo territorio, il Regime plasmò il volto degli Italiani, nonché la fisionomia politico-sociale-economica delle due cittadine. Si tratta di un’opera fondamentale non solo per comprendere la storia locale ma, soprattutto, per comprendere il fascismo, come questo concretamente operò, come venne percepito dalla popolazione, quale consenso ebbe e come seppe imporre la modernità anche nei più piccoli centri urbani. Uno studio che non mancherà di suscitare polemiche e interesse. Infatti, del ventennio più importante – per opere, per sviluppo, per novità, per eventi – della storia di Anzio e Nettuno rimangono pochi documenti e ancor meno memoria collettiva. Invano il ricercatore interpellerà gli anziani di questi paesi – ormai divenuti moderne città – alla scoperta di un passato cancellato dai più. Ora che gli anni hanno inghiottito anche gli ultimi testimoni di quella storia, rimane solo un deserto culturale costellato da oasi di menzogne. Gli archivi rimangono “inaccessibili” ai più e la pigrizia culturale di un popolo che sta smarrendo la propria identità rischia di lasciare nell’oblio esperienze invero straordinarie.
Lo scopo di questa ricerca – seppur con le sue lacune – è quello di far conoscere un “passato che non passa”, riscoprire quelle radici che una “modernità fatta di vuoto” ha voluto strappare dall’anima di comunità secolari. Ma “le radici profonde non gelano”, diceva Tolkien. Cappellari ha scavato negli archivi e nella sempre più rada memoria collettiva delle comunità di Anzio e Nettuno alla ricerca del “Graal”, quello scrigno perduto che conteneva il vissuto di un secolo ormai tramontato, ma che trasudava di passioni, di sogni, di realizzazioni concrete. Un secolo in cui affondano le nostre radici. Sebbene molto si è perduto, sorprese non sono mancate. E’ stato possibile, per la prima volta, ricostruire la nascita del fascismo ad Anzio e Nettuno e il suo sviluppo; far luce su personaggi “mitici” che la tradizione orale tramandava, ma dei quali, in realtà, nulla si sapeva. Ma non solo. Cappellari ha anche potuto fare una carrellata sulla vita quotidiana di quegli anni, riscoprendo spaccati popolari di paesi che sorgevano allora sulla scena internazionale dopo il “letargo” ottocentesco. Le prime grandi opere, la trasformazione urbanistica, la nascita delle attuali Anzio e Nettuno.
Cappellari ha riscoperto anche i sapori di quel tempo perduto, fatto di semplicità e profonde convinzioni, dove il vivere civile era il retaggio che un’intera comunità si tramandava di generazione in generazione. Dove la religione cattolica apostolica romana scandiva la vita delle comunità, affiancata – dopo la costituzione del Regime – da un’altra religione, quella politica di uno Stato etico che plasmava il paesaggio come gli uomini, nella visione risorgimentale dell’“Italiano nuovo”, degno erede del suo millenario passato, in grado di esercitare un “primato” e una “missione” nel mondo. In un’Italia povera come quella degli anni ’20, tutto ciò sembrò un vero e proprio miracolo. Valori di un tempo perduto si dirà, ma che certamente plasmarono il cittadino di quell’Italia così profondamente diversa da quella attuale.
Cappellari ha seguito i nettunesi e portodanzesi sui campi dei battaglia di Abissinia, come in Ispagna, dove quei valori si concretizzarono in supremi atti di eroismo e di sacrificio personale oggi dimenticati, ma che danno bene la dimensione dell’impatto del Regime sul vivere quotidiano come sulla trasformazione degli individui che si elevavano allora a Nazione cosciente di un “primato” e di una “missione”.
E’ stato, per la prima volta, possibile analizzare nello specifico anche il fenomeno antifascista – scarso e marginale in dei paesi in cui l’adesione al Regime era pressoché totalitaria – ma che pure ebbe i suoi “alfieri ideali” e spunti interessanti, come il tentativo di ricostituzione del Partito Comunista d’Italia del 1931. Si è potuto così facilmente smascherare il ritornello della vulgata antifascista e anti-italiana di un Regime liberticida e violento. Atti di clemenza, a dir poco clamorosi, che sono descritti in tutta la loro ampiezza e abbondantemente documentati, a partire dalla richieste al Duce fatte dagli stessi antifascisti.
Tutte queste storie – frammenti di una storia più grande – confluiscono ora in questo volume che fa luce su un passato così recente nel tempo, quanto lontano nello spirito. Un “passato che non passa” abbiamo detto. Ed è effettivamente così. Perché lì sono le nostre radici. Perché ogni comunità che vuole costruire il proprio domani deve sapere da dove viene e nel rispetto delle sue tradizioni proiettarsi in un futuro dove i valori spirituali non sono transeunti, ma eterni.
Primo Arcovazzi

                                                                                                                                                

martedì 19 maggio 2015

LA STRAGE PARTIGIANA DI MORRO REATINO

LA STRAGE  PARTIGIANA DI MORRO REATINO
 
Per non dimenticare le vittime dell’odio antifascista
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Morro Reatino, piccolo paese abbarbicato sulle montagne a Nord di Rieti, aveva vissuto tranquillamente quell’ennesimo inverno di guerra 1943-1944. Uniche novità di rilievo, la sempre più frequente presenza di partigiani che qui avevano trovato un tranquillo rifugio. Proprio a queste presenze sono da ricollegarsi alcune violenze (essenzialmente minacce, qualche aggressione e – ovviamente – furti) che videro come vittime alcuni cittadini, ben lontani dal compromettersi con il Partito Fascista Repubblicano, sia chiaro. Tutto, sembrava limitarsi a dissapori personali, odi paesani e, naturalmente, alle “necessità” della guerriglia partigiana (che ben pochi ribelli facevano).
Nulla fece presagire l’uragano di violenza che si scatenò durante il rastrellamento italo-tedesco del 31 Marzo – e dei giorni seguenti – che misero fine alla guerriglia in queste zone (senza, per altro, che si verificassero scontri!).
Proprio durante questo rastrellamento avvenne un primo episodio che si prestò al plagio della vulgata antifascista e anti-italiana. Tra le molte vittime dell’operazione di controguerriglia italo-tedesca si ritrovò il corpo di Pietro Giuseppe Di Lorenzo che, logicamente, venne inserito tra i “caduti della Resistenza”, sebbene mai nulla avesse avuto a condividere con il movimento di guerriglia. Ma, al tempo, serviva inventarsi “martiri della libertà” e perciò nessuno obiettò nulla, così come nessun “ribelle patentato” disse che ad uccidere il povero Di Lorenzo era stato un Commando partigiano che lo aveva indicato – falsamente – come una “spia”.
E’ questo il clima che generò la spedizione punitiva di un gruppo di guerriglieri comunisti nella notte tra il 18 e il 19 Maggio 1944, quando Morro Reatino fu sconvolto da una “legittima azione di guerra” condotta, però, contro civili innocenti, cui nulla era imputabile. Le vittime, alla fine, saranno solo quattro perché il Commando indugiò troppo a lungo nel consuetudinario “prelievo proletario” nelle case di poveri contadini locali. Essendosi fatto troppo tardi, ci si accontentò di solo quattro sventurati che vennero portati in montagna e dopo atroci torture, amputazioni di genitali ed enucleazione delle orbite vennero finiti a colpi di pietre sul capo. Questi i loro nomi: Mario Sansoni, Antonio Molinari, Romeo Pellegrino e Pietro Palenca.
Scrisse, nel primo dopoguerra, l’antifascista Giuseppe De Mori: “Il corpo di Romeo Pellegrino mostrava gli occhi strappati, la lingua mozzata e il corpo sfregiato. La salma di Pietro Palenca presentava ventidue pugnalate e altrettanto seviziati apparivano i cadaveri degli altri due disgraziati. La popolazione, convinta che in tanta efferatezza non ci fosse stato un vero movente politico, era costretta a soffrire tutto in silenzio per timore del peggio”.
La strage ebbe un triste epilogo qualche settimana dopo, quando morì Don Mariano Labella: durante la “legittima azione di guerra” dei partigiani era stato brutalmente malmenato e lasciato sanguinante a terra, nei pressi della chiesa parrocchiale. Dal pestaggio non si era più ripreso.
Il Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti ha chiesto al Sindaco di Morro Reatino che nella piazza principale del paese, al fianco di quella che ricorda le vittime del rastrellamento italo-tedesco, sia affissa una lapide che ricordi anche le sei vittime innocenti dell’odio antifascista.
«Dopo 70 anni – ha dichiarato il Dott. Pietro Cappellari, Responsabile culturale del Comitato Pro 70° Anniversario della RSI in Provincia di Rieti è legittima una riflessione su quanto avvenuto nella nostra provincia durante la guerra civile scatenata dai partigiani. Ancor oggi, troppi politici o politicizzati ci parlano di una Resistenza “immaginaria” fatta di democrazia e “libertà”, anche se, quando osserviamo queste “legittime azioni di guerra” noi non possiamo non rimanere più che perplessi davanti alla politicizzazione di fatti che nulla hanno a che fare con la democrazia e la tanto sbandierata “libertà”. Pensare di cancellare certe pagine di storia, così come tacere sul vero volto della guerriglia comunista, è un’operazione che non condividiamo. Per amore davanti alla giustizia. Quando i nostri “cattivi maestri” vanno nelle scuole a parlare di lotta partigiana, di democrazia e di “libertà”, hanno mai detto che cosa fu la guerriglia? Hanno avuto mai il coraggio di parlare delle stragi partigiane? Hanno parlato anche del comunismo? Hanno ricordato le vittime innocenti dell’odio antifascista di Morro Reatino? La risposta a queste domande, dia la misura della loro moralità. Dal punto di vista storico, quello che più ci interessa, l’eccidio di Morro Reatino presenta ancora molti lati oscuri. Fermo restando che le cronache giudiziarie hanno escluso chiaramente e senza timore di smentita che le vittime dell’odio partigiano fossero delle “spie”, ancor oggi non si conoscono i nomi di tutti coloro che parteciparono a questa “legittima azione di guerra”. Ma non solo. La strage comunista richiama direttamente anche la misteriosa scomparsa del Comandante partigiano Mario Lupo (cancellato dal PCI dai libri di storia, nonostante fosse stato il migliore capo guerrigliero di tutto il Reatino). Proprio durante il processo agli autori dell’eccidio di Morro, infatti, venne fuori la storia che Mario Lupo fu ucciso dai comunisti che mal tolleravano la sua indipendenza, scottati anche dal fatto che il famoso e carismatico Comandante partigiano si era opposto a una spedizione punitiva contro le “spie” di Morro, perché sapeva che in paese non vi erano collaboratori dei fascisti. Disse chiaramente che fino a che fosse stato vivo lui, certe cose non sarebbero mai avvenute. Appunto».
  
Leonessa, 18 Maggio 2014
Claudio Cantelmo
Ufficio Stampa
Comitato Pro 70° Anniversario
della RSI in Provincia di Rieti


sabato 16 maggio 2015

RENZINO, 17 APRILE 1921: UNA BARBARIE COMUNISTA

RENZINO, 17 APRILE 1921: UNA BARBARIE COMUNISTA

Un episodio di violenza dimenticato che permise l’affermazione del fascismo in Val di Chiana
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La Primavera del 1921 fu una “Primavera di sangue” per quell’Italia così lontana nel tempo, come dai ricordi. Il 15 Maggio, infatti, era previsto il rinnovo della Camera dei Deputati. Gli opposti schieramenti si erano dati appuntamento nelle piazze del nostro Paese per una resa dei conti dopo due anni di violenze generalizzate compiute dai sovversivi in vista della agognata rivoluzione “liberatrice” del proletariato, quella bolscevica, naturalmente. Il Biennio Rosso (1919-1920) si è era concluso con un bilancio del tutto negativo, dovuto alla fallimentare gestione politica della dirigenza del PSI che aveva predicato il prossimo avvento del “sol dell’avvenire” senza avere adeguatamente preparato le masse a una vera e propria insurrezione, tanto questa sarebbe scoppiata da sé, senza alcuna necessità di organizzarla. L’unico risultato concreto che si era raggiunto – di là della storica, quanto inutile, vittoria elettorale del Novembre 1919 – era quello di aver creato in tutta Italia un clima pre-insurrezionale, condito da scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche, ammutinamenti di truppe, violenze generalizzate (durante le quali si erano registrati anche alcuni morti). Lo Stato pareva in balia di queste agitazioni diffuse, anche se non erano mancati veri e propri eccidi proletari condotti dalle forze dell’ordine durante la repressione dei moti. Già nell’Autunno del 1920, durante la campagna elettorale per il rinnovo dei Consigli Comunali, erano apparse in diverse contrade italiane delle Squadre d’azione allestite dai Fasci di Combattimento per rintuzzare ogni violenza massimalista e incominciare a contendere fisicamente le piazze ai socialisti. Il fenomeno dello squadrismo fascista esplose nella Primavera 1921, durante la quale fu condotta una vera e propria campagna militare contro le strutture del PSI e del neonato Partito Comunista d’Italia. In questo clima, il 17 Aprile 1921, si registrò uno dei più gravi fatti di sangue di quella tornata elettorale, l’imboscata di Renzino di Foiano della Chiana (Arezzo). Una ventina di fascisti – tra cui anche Ufficiali del Regio Esercito in servizio – erano impegnati in un “giro di propaganda” nella zona, il cui fine primario era quello di ristabilire il tricolore sugli edifici dei Municipi socialisti e contestualmente far dimettere le Amministrazioni. Per l’occasione alcune ragazze aretine avevano cucito delle bandiere, unendo alla meglio i tre colori del vessillo nazionale, visto che in tutta la regione era praticamente impossibile trovare bandiere tricolori, odiato simbolo della “Patria borghese reazionaria”. Durante il “giro di propaganda” dei fascisti si erano registrati degli scontri a Pozzo e Marciano, dove il locale Segretario del PCdI, Domenico Gialli, era stato malmenato. Uno squadrista, Ettore Guidi di Poppi, era stato ferito piuttosto seriamente ed era stato portato all’ospedale di Foiano della Chiana. Qui era stata lasciata una “guardia”, in quanto i socialisti del paese minacciavano di assaltare il nosocomio per linciare il ferito. Ai fascisti di guardia vennero lasciate anche le armi per difendere se stessi e il camerata ricoverato. Dopo una puntata su Foiano, gli squadristi, al comando del Cap. Giuseppe Figino del 70° Reggimento di Fanteria, si apprestarono a rientrare ad Arezzo al canto di Giovinezza quando, da una casa colonica radente la strada, la Cascina Sarri, partì un colpo di fucile che ferì l’autista dell’autocarro sul quale viaggiavano. Si narra che l’arrivo del mezzo fu segnalato agli aggressori dal suono di una campana di una chiesetta lì vicino.
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(La Cascina Sarri)
 L’autocarro dei fascisti sbandò e si ribaltò in un piccolo fosso. Dalle fratte uscirono allora una cinquantina di militanti di sinistra guidati dal comunista Galliano Gervasi e dall’anarchico Bernardo Melacci. Scrisse Giorgio Alberto Chiurco:
La gente grida attorno infierendo su Figino che è a terra ferito: «Tagliategli le mani», e si odono le grida del fascista Quadri Gabriele al quale un colpo di ascia fa saltare le dita. […] La malvagità dei carnefici è ripugnante. Il volto di Guido Ciofini è trasfigurato dai colpi. Un ragazzo di 14 anni, avvistosi che i feriti respirano ancora chiama: «Babbo, vieni qua, sono ancora vivi!», e il padre si scaglia sui corpi torturati. I morti sono straziati anche dopo che i corpi son già gelidi. Roselli ha il cranio fracassato da un colpo di fucile tirato a bruciapelo, a Rossi è staccata la testa, sopra Cinini, colpito in pieno, si accaniscono con furia mostruosa i comunisti.
Tre le vittime: Aldo Roselli di 17 anni, cadde gridando «Viva l’Italia! Viva il Duce!»; Dante Rossi di 21 anni, interventista, Mutilato di guerra; e Tolemaide Cinini di 20 anni, portabandiera. Una dozzina furono i feriti che riuscirono ad evitare il linciaggio fuggendo nei campi o fingendosi morti. Tra questi Bruno Dal Piaz (sarà Alfiere federale di Arezzo e Mutilato della Rivoluzione) e l’ex-Legionario fiumano Ezio Narbona. Determinante fu l’arrivo di un gruppo di ciclisti che partecipava ad una gara. Gli anarco-comunisti, temendo di essere riconosciuti, interruppero il massacro e fuggirono anche loro tra i campi.
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(Aldo Roselli)
Diffusasi subito la notizia dell’agguato, la zona fu investita dalla rappresaglia fascista. Vennero mobilitate le Squadre d’Azione di Siena “Mussolini” e “D’Annunzio”. Raggiunsero Foiano anche gli squadristi perugini e fiorentini, risoluti a tutto. Il risultato sarà spaventoso: nove morti e diversi circoli e sezioni social-comunisti dati alle fiamme. In poche ore tutta la possente organizzazione del PSI, delle Leghe rosse, delle Cooperative, fu distrutta. I responsabili dell’agguato vennero arrestati e condanni, nel 1924: Melacci a 30 anni e Gervasi a 22 anni. Il Segretario della Camera del Lavoro di Foiano, sebbene portato in giudizio, verrà assolto. Nessuno dei condannati sconterà per intero la pena. Entrambi usciranno dal carcere successivamente all’atto di clemenza generalizzato del Duce in occasione del Decennale della Marcia su Roma. Melacci, che riprenderà immediatamente la sua attività antifascista, sarà nuovamente arrestato e morirà in manicomio nel Dicembre 1943; Gervasi, invece, riprese l’attività politica nel 1944 come esponente del PCI nel locale Comitato di Liberazione Nazionale, sarà Costituente e Senatore della Repubblica Italiana per lunghi anni.
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(La bandiera di Renzino macchiata del sangue dei fascisti caduti)
 I tre martiri fascisti di Renzino verranno ricordati dal Regime, nel ventennio successivo, con solenni manifestazioni: ad Arezzo verrà costruita un’“Arca” in ricordo di Roselli (tumulato nel cimitero cittadino); mentre Cinini e Rossi, fiorentini, vennero traslati nel Sacrario dei Martiri Fascisti di Santa Croce, a Firenze. Sulla facciata della Cascina Sarri verrà affissa una lapide in ricordo del tragico evento.
Sul finire del 1944, dopo l’occupazione della regione da parte delle truppe anglo-americane, i comunisti “assaltarono” i simboli fascisti, primi fra tutti quelli dei martiri di Renzino: l’“Arca” di Roselli venne distrutta a picconate e la tomba del caduto fu sfregiata; i corpi di Cinini e Rossi (e di tutti gli altri squadristi del Sacrario di Santa Croce) vennero dispersi. Nel 1945, Gervasi, divenuto Sindaco di Foiano della Chiana, provvide celermente anche ad eliminare la lapide ricordo sulla Cascina Sarri e dei “fatti di Renzino” si perse per sempre memoria…
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L’agguato di Renzino, lungi da rappresentare una controreazione agli attacchi degli squadristi, fornendo le basi di un’unità antifascista anarco-comunista sul modello dei successivi Arditi del Popolo, fu un atto privo di una propria strategia, che permise ai Fasci di attuare una rappresaglia in tutta la zona, ponendo in rotta le organizzazioni di sinistra e le basi per la conquista definitiva di tutta la Val di Chiana. Infatti, i corpi dei fascisti straziati dai bastoni, dalle roncole e dai forconi suscitarono ribrezzo e condanna generale dell’opinione pubblica borghese, che non esitò ad approvare la rappresaglia delle camicie nere, i metodi squadristi e la politica dei Fasci. Ma non solo la borghesia cominciò  a guardare il fascismo come a una “soluzione”. Dopo quel giorno anche ampi strati popolari si avvicinarono al movimento di Mussolini. Come rilevava l’Ispettore Generale di PS Alfredo Paolella, dopo che la calma era ritornata in tutta la provincia di Arezzo, “in alcuni Comuni […] rilevanti sono le inscrizioni dei coloni alle nuove organizzazioni promosse dai Fasci di Combattimento”.
Pietro Cappellari
FONDAZIONE DELLA RSI – ISTITUTO STORICO
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(L’Autore con i figli dello squadrista Bruno Dal Piaz, mutilato di Renzino)
                                                                                                                                                           

giovedì 14 maggio 2015

LA BATTAGLIA DI BIR EL GOBI, "Qui nessuno ritorna indietro"










La Battaglia di Bir el Gobi, 
3 dicembre-7 dicembre 1941

Rappresenta uno degli scontri più duri nell'ambito dell'offensiva britannica denominata Operazione Crusader. La battaglia vide impegnate, in particolare, le forze italiane contro quelle del Commonwealth. Bir el Gobi era un importante crocevia per le carovane, nonché ultimo caposaldo della linea dell'Asse nell'entroterra. Per questo motivo i britannici lo reputavano, a ragione, il baluardo da superare per poter aggirare e intrappolare le truppe italo-tedesche e, conseguentemente, liberare le forze alleate che difendevano Tobruk.
Il 18 novembre, a nord di Bir el Gobi, le forze del Commonwealth passarono all'offensiva. Il 23

ebbe luogo una grande battaglia di carri nel deserto, passata alla storia come "battaglia di Totensonntag" (battaglia della domenica dei morti). A Bir el Gobi si insediarono intanto le truppe italiane: i Battaglioni Giovani Fascisti e alcuni reparti del corpo dei bersaglieri.

I soldati italiani ampliarono le fortificazioni presenti costruendo postazioni di mitragliatrici e di cannoni anticarro, approntando reticolati di filo spinato, ma soprattutto scavando profonde buche per il combattimento individuale. Il caposaldo poteva così difendersi a 360° per tutta la lunghezza del suo perimetro. I giovani volontari entrarono nelle loro buche la sera del 1º dicembre, sotto una pioggia torrenziale.
Alle ore 12.00 del 3 dicembre, sotto una pioggia battente, l'artiglieria alleata diede il via all'offensiva con un nutrito bombardamento sulle posizioni italiane, che subirono le prime perdite, tra cui il maggiore Balisti ,rimasto ferito. Nella notte, tutte le unità italiane al di fuori del perimetro difensivo di Bir el Gobi, con relative strumentazioni ed automezzi, furono catturate dagli attaccanti.
La mattina del 4 furono i Camerons scozzesi ad aprire le ostilità contro le buche presidiate dal I Battaglione. Centinaia di uomini si riversarono contro le postazioni nemiche sorretti da mezzi corazzati e dal fuoco di sbarramento dell'artiglieria. La reazione degli italiani fu efficace, tanto che a decine gli inglesi rimasero uccisi. Anche le postazioni del II Battaglione, più a Nord, furono sottoposte ad un duro attacco: i carri Valentine sorressero l'azione dei fanti indiani. Anche in questo settore le forze britanniche erano superiori in numero e in mezzi.

La prima e la seconda ondata furono respinte in entrambi i settori, ma l'intera zona di Bir el Gobi fu accerchiata dalle truppe inglesi. Il terzo attacco alle linee italiane si registrò verso le 14 di quello stesso giorno: la pressione delle artiglierie e delle fanterie crebbe di ora in ora ma la combattività e la resistenza dei vari presidi italiani non venne meno. Nella serata però si perse la quota 188, la 4.a Compagnia che la presiedeva dovette attestarsi su quota 184.
Gli attacchi continuarono; tra il 4 e 7 dicembre per ben sette volte il XXX Corpo britannico fu respinto con gravi perdite. La sete e la mancanza di rifornimenti indebolirono i reparti italiani che continuarono però la loro accanita resistenza contro il nemico. Vennero richiesti aiuti al comando superiore italo-tedesco, e lo stesso generale Rommel fu informato della coraggiosa resistenza dei reparti italiani che continuavano a tenere il caposaldo. Ormai conscio dell'importanza strategica di questa postazione, la Volpe del Deserto decise di inviare delle truppe corazzate a sostegno degli italiani.
Alle 17 del giorno 5 giunsero in prossimità di quota 188 i primi reparti delle divisioni corazzate tedesche. Dopo un violento scontro tra i carri tedeschi e quelli inglesi, la postazione fu riconquistata è poté iniziare l'avanzata verso Bir el Gobi dove erano attese le divisioni Ariete e

Trieste. La prima fu bloccata da un attacco nemico, mentre la seconda si perse nel deserto. L'arrivo di rinforzi e di qualche rifornimento fu molto importante. Gli Italiani poterono così attaccare gli Inglesi che dovettero abbandonare velocemente il campo di battaglia. Ormai la situazione poté dirsi sotto controllo.

Intanto continuarono i combattimenti tra le varie forze corazzate dei due schieramenti: i panzer tedeschi del generale Crüwell e gli M14 dell'Ariete, che nella notte riuscirono a raggiungere Bir el
Gobi, riuscirono a respingere gli ultimi attacchi delle forze britanniche che non poterono più contare sulla schiacciante superiorità. Il 7 dicembre il presidio italiano di Bir el Gobi venne infine liberato. La battaglia di Bir el Gobi poté dirsi finalmente conclusa. Le perdite da parte inglese furono ingenti, con 300 morti. Gli italiani ne ebbero 60, più 31 dispersi e 117 feriti.

I Giovani Fascisti non erano soli. A parte un certo numero di bersaglieri, in loro supporto combatté una compagnia carri del I battaglione (del 32º reggimento corazzato della divisione Ariete); un minimo di componente corazzata era vitale per reggere l'urto nemico, ma dell'impiego di questa unità poco si conosce, nonostante che la sua intensa attività ne comportasse la quasi totale distruzione, con la perdita complessiva di ben 10 carri armati L3/35, dei 12 complessivamente disponibili (parte dei quali immobilizzata da avarie meccaniche, ma usata come fortino). I carri L erano chiaramente impotenti

contro i blindati britannici, ma usati come sbarramento contro le fanterie nemiche erano ancora validi, per via delle loro due mitragliatrici da 8 mm e di una corazzatura se non altro sufficiente per reggere il tiro delle armi leggere del nemico.

Sempre durante la battaglia vennero usati anche due carri medi M13/40, anche se uno era fuori uso e interrato per funzionare come fortino. Esiste ancora in vita l'ultimo reduce tra il reparto della divisione Giovani fascisti impegnato nella battaglia di Bir el Gobi; ferito durante gli scontri, per il suo valore fu dapprima encomiato con la croce di ferro al valore militare, poi, al ritorno in patria fu annesso al plotone "M" guardia personale del Duce, il cui nome è Gianni Maggio.
Il combattimento di Bir el Gobi ebbe luogo il 19 novembre 1941, nell'ambito delle battaglie dell'Operazione Crusader  fra la divisione Ariete e la 22nd Armoured Bigade della 7th Armoured Division britannica. Dopo un aspro combattimento l′Ariete impedì alla divisione britannica di proseguire l'azione pianificata.

Il 15 novembre 1941 il generale Claude Auchinleck, comandante dell′VIII Armata britannica,
diede il via all'Operazione Crusader, che aveva lo scopo di costringere l'armata italo-tedesca a togliere l'assedio a Tobruk e, possibilmente, di respingerla fuori dalla Cirenaica. L′VIII Armata era articolata sul XIII Corps (essenzialmente con divisioni di fanteria) e sul XXX Corps, che comprendeva anche la 7th Armoured Division (Desert Rats), la divisione corazzata veterana della guerra del deserto, originata dalla Western Desert Force che, poco meno di un anno prima, aveva pesantemente sconfitto la 10ª Armata italiana nell'Operazione Compass. Il piano britannico era di aggirare da sud le posizioni italo-tedesche con la 7th Armoured Division per poi prendere al rovescio le forze che assediavano Tobruk.
Negli stessi giorni Rommel progettava un nuovo attacco su Tobruk, quindi aveva radunato le forze corazzate tedesche (raggruppate nel Deutsches Afrika Korps o DAK) a nord ovest, fra Tobruk ed il confine egiziano in prossimità della costa. L′Ariete in questo piano aveva il compito di fronteggiare il XIII Corps (quindi con fronte ad est) coprendo il nodo stradale di Bir el Gobi, da cui partivano le carovaniere verso Bir Hakeim (nord-ovest), Giarabub (sud), Sidi Omar (sud-est) e El Adem e successivamente Tobruk (nord).



Forze contrapposte

132ª Divisione corazzata "Ariete" (generale Mario Balotta)

Comando e servizi

132º Reggimento fanteria carrista

VII Battaglione carri M

VIII Battaglione carri M

IX Battaglione carri M

32º Reggimento fanteria carrista

I Battaglione carri L

II Battaglione carri L
III Battaglione Carri L

8º Reggimento bersaglieri

V Battaglione bersaglieri autoportato

XII Battaglione bersaglieri autoportato

III Battaglione armi d'accompagnamento

132º Reggimento artiglieria

I Gruppo da 75/27

II Gruppo da 75/27

1ª Batteria (3 pezzi) MILMART su autocannoni da 102/35[1]

una sezione (2 pezzi)/6ª Batteria MILMART su autocannoni da 102/35

In totale erano disponibili circa 130 M13/40, dato che il 32º Reggimento Fanteria Carrista non era operativo ed era lontano dall'area dell'azione.

22nd Armoured Brigade

(generale Jock Scott-Cockburn)
2nd Royal Gloucestershire Hussars (RGH) Regiment

3rd County of London Yeomanry (CLY) Regiment

4th County of London Yeomanry Regiment

Una compagnia del 1st King Royal Rifles Corp (KRRC) Batillon

Una batteria del 4th Royal Horse Artillery (RHA) Regiment su 8 pezzi da 25 lb (88 mm)

Una sezione controcarri su pezzi da 2 libbre

Una batteria contraerei leggera su pezzi Bofors 40/56

11th Hussars Regiment

In totale i britannici avevano 150 carri Cruiser Mk VI Crusader ed un numero imprecisato di autoblindo.
Il 15 novembre l′Ariete, che fronteggiava il XXX Corps (quindi aveva il fronte verso est) fu fatta ruotare con perno su Bir el Gobi (al centro dello schieramento) in direzione sud, dato che erano stati rilevati concentramenti di truppe britanniche (la 7th Armoured Division) nella zond ella Ridotta Maddalena. A questo punto la difesa fu riorganizzata su una linea di capisaldi tenuti dai bersaglieri, appoggiati direttamente da cannoni 47/32 e mortai da 81 mm, con l'appoggio indiretto dell'artiglieria divisionale da 75/27, la costruzione delle opere di fortificazione dei capisaldi iniziò immediatamente e proseguì fino al mezzogiorno del 18.
La 7th Armoured Division era su tre brigate corazzate: 7th, 4th e 22nd Armoured Brigade (quest'ultima distaccata dalla 1st Armoured Division), di queste la 4th mosse direttamente a nord dalle basi di partenza, in appoggio diretto all'avanzata del XXX Corps, la 7th puntò si Sidi Rezegh (dove si trovavano le basi aeree dell'Asse) e la 22nd (immediatamente a sinistra della 7th) mosse direttamente verso Bir el Gobi per respingere l′Ariete e prendere al rovescio la 21ª Panzer. La 22nd era preceduta dalle autoblindo dell'11th Hussars Regiment, che era un'unità esplorante divisionale.

Alle 14 del 18 novembre le autoblindo britanniche (Squadron B dell'11th Hussars) furono avvistate a circa 10 km a sud est di Bir el Gobi da un plotone di M 13/40 che, serrate le distanze, aprì il fuoco sui britannici, queste furono le prime cannonate del combattimento. Le autoblindo, grazie alla loro maggiore velocità, ruppero agevolmente il contatto con gli italiani. Il tentativo britannico di far affluire una sezione del RHA per permettere alle autoblindo di proseguire la ricognizione fu impedito dal sopraggiungere dell'oscurità.
Intanto una formazione aerea nemica bombardava il grosso dell′Ariete, provocando alcuni feriti e la distruzione di un trattore del 132º Reggimento Artiglieria.

In seguito alla comparsa del nemico il generale Balotta ordinava alla divisione di assumere uno schieramento difensivo. La linea del fronte tenuto dai bersaglieri fu accorciata, mentre i 5 pezzi della Milimart furono schierati subito a nord di Bir el Gobi ed il 132º Reggimento Fanteria Carrista fu schierato a 6 km a nord ovest di Bir el Gobi, in posizione per un eventuale contrattacco ed in copertura della carovaniera per el Adem. La linea difensiva dei bersaglieri era tenuta (da destra a sinistra) dal 12°, dal 5º e dal 3º Battaglione.
La mattina del 19 novembre la 22nd Armoured Brigade si mosse verso Bir el Gobi, sempre schermata dalle autoblindo dell'11th Hussars che, contrastate dalla 3ª Compagnia del 7º

Battaglione Carri M, appoggiata da una sezione da 75/27, furono costrette a ritirarsi. Tuttavia la posizione dei carri italiani era scoperta sul fianco destro, quindi, bloccata sul fronte dal tiro dei 25 lb della RHA, la compagnia fu aggirata ed attaccata alle spalle dai Crusader dello Squadron H/2nd RGH. In questo scontro, dopo la perdita di tre M 13/40 i carri italiani ripiegarono sulle proprie linee insieme alla sezione di artiglieria, con la perdita di ben tre ufficiali.

A questo punto le autoblindo dell'11th Hussars ripresero la testa della brigata e, verso le 12, avvistarono la linea di resistenza dei bersaglieri circa 4,5 km a sud est di Bir el Gobi. Quasi contemporaneamente, alle 10.30 la 22nd Armoured Brigade, coperta dal fuoco della RHA, avanzava con il 2nd RGH a destra ed il 4th CLY a sinistra, mentre il 3rd CLY restava in riserva.
La prima unità italiana impegnata dai carri fu il III Battaglione armi d'accompagnamento, che, non ancora completamente schierato, fu travolto dai carri dello Squadron H/2nd RGH, un plotone del IX Battaglione carri M, inviato a supportare i bersaglieri, fu distrutto dall'azione combinata degli Squadron G ed H del 2nd RGH, con la morte anche del comandante del plotone. Invece lo Squadron F del 2nd RGH si trovò di fronte il V Battaglione bersaglieri che, ben attestato a difesa e coperto dal tiro delle artiglierie e dei cannoni della Milimart (Milizia Marittima di Artiglieria) , ne bloccò l'avanzata.

Tuttavia i carri inglesi si raggrupparono nuovamente e gli Squadron F e G del 2nd RGH riuscirono a sfondare le linee del III Battaglione armi d'accompagnamento, aprendosi la strada verso nord.

Il 4th CLY si diresse sulle posizioni (non ancora fortificate) del XII Battaglione bersaglieri, lo Squadron A, che guidava l'attacco, fu fermato dal fuoco delle artiglierie italiane, mentre lo Squadron B tentava di superare l'ala destra italiana, per avvolgere il battaglione bersaglieri.
Diversi carri britannici riuscirono ad infiltrarsi fra i capisaldi, tanto da tagliare fuori il comando di reggimento, che riuscì solo a fatica a ricongiungersi con il XII Battaglione.

In questa situazione critica, alle 13.30 scattò il contrattacco del 132º Reggimento Fanteria Carrista, la 1ª Compagnia/VII Battaglione, seguita a breve distanza dalla 2ª Compagnia, e dall'intero VIII Battaglione fu lanciata verso sud per attaccare il 2nd RGH. Questi 60 carri impegnarono a fondo ed aggirarono i due reggimenti britannici, che furono costretti ad arrestarsi. Un tentativo del 4th CLY di inviare lo Squadron C per tentare un aggiramento delle posizioni dei bersaglieri fu arrestato dal fuoco dei pezzi controccarri e degli autocannoni della Milimart, con gravi perdite britanniche.
L'intervento del 3rd CLY, che era stato spostato a coprire il fianco destro del 2nd RGH, sorprese il plotone che aveva aggirato questa unità da destra e riuscì facilmente ad avere ragione dei carri italiani. Lasciato lo Squadron B in posizione difensiva (scafo sotto) per tenere i contatti con l'altro reggimento, il comando del reggimento avanzò, incappando nelle difese controcarri dei bersaglieri, che ben presto misero fuori combattimento quattro carri, compreso quello del comandante del reggimento.
Alle 16.30, il 2nd RGH fu costretto a ripiegare, sotto la pressione dei carri italiani, sempre tenuto sotto il fuoco dai pezzi anticarro e dagli autocannoni. A questo punto si ritirò anche il 4th CLY. Il 3rd CLY (che era stato il meno provato nei precedenti combattimenti) alle 16.50 ricevette l'ordine di raggrupparsi per tentare un nuovo attacco, ma un'ora dopo arrivò un contrordine, motivato dalle perdite già subite. A quel punto l'attacco della 22nd Armoured Brigade era finito in un completo fallimento.

Le perdite fra i britannici erano state pesanti:

2nd RGH - 30 carri, 11 morti, 19 feriti e 20 dispersi

3rd CLY - 4 carri, 6 morti ed un numero imprecisato di feriti

4th CLY - 8 carri, 4 morti e 22 dispersi

In totale la 22nd Armoured Brigade aveva perso 42 carri, 21 morti e una settantina fra feriti e dispersi (i dispersi erano stati tutti fatti prigionieri)
D'altra parte anche le perdite italiane non erano state lievi:

132º Reggimento Fanteria Carrista - 34 carri, 5 ufficiali morti, 5 ufficiali feriti ed un ufficiale disperso, 11 carristi morti, 45 carristi feriti e 65 carristi dispersi

8º Reggimento Bersaglieri - 9 morti, 18 feriti e 17 dispersi

132º Reggimento Artiglieria - Un pezzo e tre automezzi distrutti, 6 feriti

In totale l′Ariete aveva perso 34 carri, un cannone, tre automezzi, 25 morti, 177 fra dispersi e feriti

La battuta d'arresto della 22nd Armoured Brigade costrinse la 7th Armoured Brigade a fermare l'avanzata verso Sidi Rezegh, dato che sarebbe stato estremamente rischioso lasciare il fianco scoperto agli italiani che, nonostante le perdite, avevano ancora un centinaio di carri e le artiglierie pressoché intatte. L'attacco del DAK alla 4th Armoured Brigade costrinse quest'ultima a cedere il passo, e nella prosecuzione dell'azione anche la 7th Armoured Brigade fu costretta a ritirarsi. In questo modo andò completamente a vuoto il piano britannico per l'Operazione Crusader, e solo la successiva battaglia di attrito permise all′VIII Armata di respingere l'armata italo-tedesca in Tripolitania, nei primi giorni di dicembre.
Il combattimento fu portato avanti dai carristi inglesi secondo i canoni di impiego dei carri britannici, cioè utilizzando i carri incrociatori come arma autonoma, senza l'appoggio della fanteria, e con l'artiglieria utilizzata solo da lunga distanza (non si ha notizia dell'impiego nel combattimento né dei 2 libbre né dei 40 mm Bofors). Invece l′Ariete operò coordinando la fanteria con i carri armati, evidentemente ispirata dalle teorie di impiego tedesche, dato che nei mesi precedenti si era addestrata insieme alle unità Panzer del DAK. Questo utilizzo di unità corazzate con impiego pluriarma si era già dimostrato in precedenza nettamente superiore all'impiego tattico dei soli carri armati nell'attacco al fronte nemico.

È abbastanza interessante notare che le perdite italiane, furono nettamente superiori a quelle britanniche, principalmente perché a subire i danni maggiori fu la fanteria (i bersaglieri) nei confronti dei reparti di carri. È importante notare anche l'elevata percentuale di ufficiali persa fra i carristi nel corso del combattimento (5 morti e 5 feriti su una sessantina di ufficiali in organico).


Leggendarie sono le figure del Caporal Maggiore Niccolini Ippolito e David Stefano, entrambi decorati con Medaglia d'Oro al Valore. Il primo caduto a Bir El Gobi, il secondo in Tunisia. Le motivazioni sono rispettivamente:

"Dottore in legge, fervente di amor patrio si arruolava come soldato semplice ansioso di tradurre in azione i suoi ideali di Patria. Caporal Maggiore comandante di squadra cannoni anticarro, in un caposaldo completamente accerchiato da soverchianti forze nemiche immobilizzava, con il suo pezzo, due carri armati pesanti rimanendo ferito al capo. In successiva azione usciva dalla postazione e cercava di colpire l'equipaggio di un carro attraverso le feritoie con colpi di pistola e bombe a mano. Benché nuovamente ferito, con una bomba anticarro affrontava un altro carro, che colpito doveva allontanarsi. Ferito al petto, pur versando in gravi condizioni, riusciva a rientrare nella postazione e calmo e sereno incitava i propri uomini a perseverare nella cruenta lotta. Mentre un altro carro stava per schiacciare la postazione, lo contrassaltava con sublime ardore. Sublime esempio di cosciente valore ed eroico sacrificio."

Bir el Gobi (Libia), 3-4-5 Dicembre 1941.


"Dopo trenta mesi di dura lotta, durante un aspro attacco nemico soverchiato da preponderanti forze, rifiutava più volte di arrendersi, finché unico superstite di un posto avanzato, stordito e gravemente ferito veniva raccolto dal nemico che pensava di servirsene come schermo per penetrare di sorpresa in un nostro caposaldo. Nella notte lunare veniva condotto presso le nostre postazioni con l'arma puntata alla schiena. Accortosi che i commilitoni gli andavano incontro giubilanti per aiutarlo, non esitava a gridare ad alta voce: "Seconda Compagnia fuoco! Sono nemici". Pagava così consapevolmente con la vita la sua sublime incomparabile dedizione alla Patria.

Quota 141 di Diez Srafi (Tunisia), 25 Aprile 1943."-


IL MEDAGLIERE