martedì 27 giugno 2017

STORIA 1918 Alleati traditori


1918 Alleati traditori. La Vittoria mutilata

Non si erano ancora fermati gli ultimi combattimenti della Grande Guerra, che già gli imperi dell’est e dell’ovest andavano in frantumi. Prima il russo, poi il turco e infine, con uno stillicidio di dichiarazioni d’indipendenza, l’austro-ungarico: il 24 ottobre 1918 l’Ungheria spezzava il vincolo dualistico e se ne andava per la sua strada; il 28 ottobre si dichiarava indipendente la Boemia (l’odierna Cechia); il 29 era la volta di Croazia e Slovenia; il 30 della Slovacchia.
Il 1° novembre, infine, l’esercito austriaco abbandonava i territori balcanici conquistati e si ritirava a nord del Danubio. Quella data segnava, di fatto, la fine delle ostilità sul nostro fronte orientale, anche se l’armistizio sarebbe intervenuto ufficialmente due giorni dopo.
Apparentemente l’Italia aveva non soltanto vinto la guerra, ma anche ottenuto un grande risultato geo-strategico: l’eliminazione dell’inquietante presenza austriaca ai nostri confini orientali e sull’altra riva dell’Adriatico. Questo – si ricordi – era stato il principale motivo del nostro intervento nel conflitto. Adesso sarebbe stato il momento di mettere all’incasso le cambiali rilasciateci dai nostri cari alleati; prima tra tutte, quella che avrebbe dovuto vederci succedere all’Austria in un ruolo egemonico non soltanto nell’Adriatico, ma nell’intera area danubiano-balcanica.

GELOSIE FRANCESI
Se nonché – come si è già accennato – a quel ruolo aspirava anche la Francia, sebbene non potesse rivendicarlo apertamente a causa degli impegni assunti per coinvolgerci nel conflitto. Già durante la guerra, Parigi si era fatto un dovere di metterci i bastoni tra le ruote nei Balcani. Non in prima persona, naturalmente, ma ricorrendo a fiancheggiatori esterni: in Albania come nell’Epiro, come nel Montenegro che – dopo il matrimonio della principessa Elena con Vittorio Emanuele III – era di fatto transitato nella sfera d’influenza italiana.
Poi, quando l’armistizio con la Bulgaria (29 settembre) aveva chiaramente delineato l’imminente conclusione della guerra, i francesi avevano apertamente assunto il ruolo di referenti della Serbia. In quei giorni – si tenga presente – ai confini meridionali dell’Austria e nella penisola balcanica le truppe italiane e le serbe procedevano all’occupazione di porzioni del territorio nemico che erano teoricamente destinate alla loro amministrazione provvisoria, o al loro possesso definitivo dopo la firma degli armistizi e dei trattati di pace.
Era in quella fase che si dispiegava una manovra francese tendente a favorire al massimo l’espansionismo serbo; e ciò, oltre che sul piano politico-diplomatico, anche fornendo il maggior sostegno militare possibile alle forze di Belgrado nella loro corsa ad occupare tutto l’occupabile, nell’evidente proposito di invocare poi l’uti possidetis in sede armistiziale.
Ciò, evidentemente, costituiva una chiara manifestazione di ostilità da parte della Francia (appoggiata da Inghilterra e Stati Uniti) nei confronti dell’Italia, i cui obiettivi di egemonia adriatica erano del tutto incompatibili con le spropositate ambizioni della Serbia. Belgrado, infatti, mirava – tra l’altro – ad acquisire l’intero versante nord-occidentale della penisola balcanica: Istria, Quarnaro, Slovenia, Croazia-Slavonia, Dalmazia, Montenegro, Albania settentrionale e centrale; tutti territori che Roma aspirava o a rendere indipendenti (sia pur egemonizzandoli), o – in piccola parte – ad annettere al proprio territorio nazionale.
Resasi conto di quanto andava preparandosi ai suoi danni, l’Italia intraprendeva a sua volta una marcia forzata per prendere possesso di tutto quanto possibile, ma le situazioni spazio-temporali le consentivano libertà di movimento solo nel settore centrale, occupando quanto restava del vecchio dominio austriaco del Lombardo-Veneto, e cioè il Trentino-Bolzanino e la Giulia-Istria.
Anche questo risultato minimale, peraltro, faceva montare su tutte le furie il presidente americano Wilson, che – in evidente accordo coi cugini inglesi – avrebbe voluto circoscrivere l’Italia a quella che lui riteneva essere «la sua facilmente riconoscibile frontiera etnografica» (come recitava il nono dei Quattordici Punti). Ciò – nella mente del grande disegnatore di confini – avrebbe dovuto portare ad attribuire all’Italia il solo Trentino, trasformando il SudTirolo/AltoAdige e la Giulia-Istria in due regioni autonome «senza ingerenze italiane». L’Italia, invece, aveva la tracotanza di far avanzare le sue truppe fino alle Alpi, la qual cosa – come si diceva – faceva infuriare il presidente americano, perché ciò era avvenuto «senza il mio permesso».

ARROGANZA AMERICANA
A questo punto, la manovra ostile contro i nostri interessi appariva evidente, così come evidente era l’evolversi della stessa secondo tappe ben precise: gli accordi Sykes-Picot, i Quattordici Punti, e adesso – in prospettiva – l’armistizio. Il capofila degli interventisti italiani, Gabriele d’Annunzio, coniando uno slogan destinato ad una grande fortuna, tuonava vanamente dalle pagine del “Corriere della Sera” il 24 ottobre 1918: «Vittoria nostra, non sarai mutilata.»
Ma l’unica cosa che Roma riusciva ad ottenere era – pochi giorni appresso – che il Comando interalleato stabilisse genericamente i limiti e le pertinenze delle zone d’occupazione. Quando ciò avveniva, era comunque tutto già praticamente concluso: l’impero austrungarico si era dissolto, mentre francesi e anglosassoni avevano insediato al potere i loro amici in quasi tutte le nazioni successorie. All’Italia era riconosciuto soltanto il minimo indispensabile: Trentino-AltoAdige, Giulia-Istria, una porzione di Dalmazia, l’Albania centrale, ed una piccola partecipazione all’occupazione congiunta del Montenegro e dell’Alta Albania; ma le era inibito di concorrere all’occupazione dell’Austria, della Slovenia e della Croazia.
Il 3 novembre si giungeva così, infine, all’armistizio di Villa Giusti, armistizio che confermava le linee che abbiamo appena riferito.
A quel punto, il disegno antitaliano e serbofilo era evidente anche per i più prudenti. «Avevo con dolore e con sdegno – scriveva il generale Caviglia – conosciuto gli articoli dell’armistizio di Villa Giusti, il quale abbandonava la nostra vittoria nelle mani di alleati infidi.»

LA QUESTIONE DI FIUME
Uno dei punti più controversi dell’armistizio di Villa Giusti era quello relativo all’esclusione dalle pertinenze italiane di Fiume, città portuale del Quarnaro a maggioranza italiana, posta al confine con l’Istria, appena al di là della linea armistiziale imposta all’Italia. Per l’esattezza – secondo il censimento austriaco del 1910 – la metà circa dei 50.000 abitanti era di etnia italiana; seguivano poi 15.000 croati (numerosi dei quali italofili) e 10.000 ungheresi. Adesso, a guerra finita, i numeri erano sensibilmente diversi: 33.000 italiani, 11.000 croati, 1.300 ungheresi.
La motivazione dell’esclusione di Fiume veniva ricondotta al Patto di Londra del 1915, quando – occorre ricordare – la dissoluzione dell’impero asburgico non era prevista, e la città di Fiume ricadeva nell’àmbito della Croazia di pertinenza ungherese. Allora – in previsione di una Croazia ancòra ungherese o indipendente ma comunque non aggregata alla Serbia – era stato deciso di non attribuire la città alla sfera italiana, ma di mantenerne la funzione di sbocco portuale sull’Adriatico per l’Ungheria e per la Croazia stessa.
Adesso, tuttavia, alla vigilia dell’armistizio, la situazione appariva del tutto diversa da quella del 1915, con la Croazia destinata non si sa bene da chi ad essere assorbita dalla Serbia tramite il nascente Stato artificiale “jugoslavo”. L’Italia, quindi, chiedeva di poter includere anche Fiume entro la propria linea armistiziale; non essendo concepibile che si fornisse alla Serbia uno sbocco portuale pericolosamente vicino – per considerazioni di ordine commerciale ma anche di natura militare – a quello di Trieste.
Ma i nostri alleati erano irremovibili: Fiume era evidentemente considerata estranea alla «facilmente riconoscibile frontiera etnografica» dell’Italia, e veniva quindi assegnata alla competenza serba.
Il 29 ottobre, così, Fiume era occupata dai serbi e dai serbofili del Comitato Nazionale croato-sloveno. Il giorno seguente, tuttavia, l’organismo rappresentativo della città – il Consiglio Nazionale Fiumano – ne proclamava l’annessione al Regno d’Italia, invocando esplicitamente il principio di autodeterminazione dei popoli ed i Quattordici Punti. Ma – come i fatti dimostreranno poi al di là di ogni dubbio – il principio di autodeterminazione non sarebbe mai stato applicato alle popolazioni del Regno Serbo-Croato-Sloveno: e non solo alla fiumana, ma anche alla dalmata, alla croata, alla slovena, alla montenegrina, alla macedone, alla kosovara, alla bosniaca.
Ma torniamo a Fiume, dove gli occupanti serbi – sia pure con una certa prudenza – prendevano a maramaldeggiare sulla popolazione italiana, sperando forse che, secondo gli sperimentati cànoni della pulizia etnica, questa si acconciasse a emigrare ed a togliere il disturbo.
Chiamato in soccorso dal Consiglio Nazionale Fiumano, il governo italiano mandava dapprima alcune navi da guerra (4 novembre) e poi – di fronte al perdurare degli atteggiamenti antitaliani dei serbi – il 17 novembre invadeva la città con una forza di terra di 13.000 uomini. Gli americani – nel tentativo di evitare che l’occupazione avesse una matrice univocamente italiana – inviavano anche un loro battaglione, la cui presenza serviva a dare all’occupazione di Fiume una connotazione “internazionale”.
A quel punto – prudentemente – i serbi facevano le valigie e toglievano il disturbo. La situazione sembrava ormai avviata verso una pur faticosa stabilizzazione. Ma improvvisamente i francesi rimettevano tutto in discussione: con un gesto di scorrettezza inaudita tra alleati, il 28 novembre invadevano a loro volta la città (con una sovrapposizione di occupazioni unica nella storia della diplomazia europea) e il 10 dicembre dichiaravano Fiume come compresa nella sfera d’occupazione dell’Armée d’Orient.
Iniziava una difficile convivenza fra italiani e francesi, fino a quando – sette mesi più tardi – le rispettive truppe non incroceranno le armi. Saranno i “Vespri Fiumani”, che lasceranno sul terreno nove caduti francesi e un italiano. Ma di questo parleremo un’altra volta.

N O T E
Si veda «Il balletto dei Trattati» su “La Risacca” di febbraio.
2 Anno 1918. www.cronologia.it/ [2006].
3 Anno 1918. Cit.
4 In realtà, alcuni dei dettagli saranno stabiliti dal lodo Foch del dicembre successivo.
5 Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Garzanti editore, Milano 1948.
6 Il Comitato Nazionale (Narodno Vijece) era una sorta di governo provvisorio di Croazia e Slovenia, sorto dagli ambienti serbofili e favorevoli alla creazione di uno Stato “jugoslavo”, cioè degli Slavi del Sud.


                                                                                                                                            

venerdì 23 giugno 2017

L’omicidio di Mussolini e l’oro di Dongo

 L’omicidio di Mussolini e l’oro di Dongo

Alla fine della guerra si arriva all’assassinio di Mussolini.
Dico assassinio sapendo bene cosa dico.
Mussolini fu infatti ucciso senza nemmeno l’ombra di un processo ed in piena violazione delle condizioni poste dall’armistizio che tassativamente stabilivano dovesse essere, nell’eventualità di una cattura, consegnato vivo agli ANGLO-USA.

Perchè dunque fu assassinato.
Non certamente per in un impeto di odio.
Fu trattenuto per un paio di giorni e, tutto sommato, in quel periodo fu trattato bene. Poi, su ordine del PCI, venne assassinato.
Il motivo era che non si voleva assolutamente, per tre ragioni, che potesse in qualche modo dare la sua versione dei fatti in un Tribunale. La prima ragione riguarda il ‘famoso’, quanto misterioso ‘carteggio’ con Churchill che presumibilmente aveva con sè. Carteggio che, se esibito, non solo peteva portare a condizioni migliori nel trattato di pace, ma soprattutto poteva diminuire, e di molto, la responsabilità della guerra. La seconda che un suo processo avrebbe portato in causa tutti coloro che erano stati fascisti. La terza ragione era che ai comunisti occorreva il ‘mostro’

Ricostruiamo gli ultimi giorni.
25 APRILE – ORE 8 -Al collegio dei Salesiani di Via Copernico, nella biblioteca del collegio milanese, alle ore 8 del mattino del 25 aprile, si riunirono Marazza, Pertini, Arpesani, Sereni e Valiani. Ci fu la riunione più risolutiva del Clnai. Approvarono il primo decreto: “Tutti i poteri al Clnai”; il secondo riguardava l’amministrazione della “giustizia”. Cioè le sentenze di morte (un po’ all’ingrosso!). E tra queste fu anche decisa l’eliminazione di Mussolini. Il Duce non doveva essere consegnato agli americani!
25 APRILE – ORE 16 – Mussolini ignaro di quanto è stato deciso in via Copernico, dalla prefettura si reca in Arcivescovado; nell’incontro con il cardinale Schuster propone o riceve la proposta di arrendersi. L’invito del prelato che intercede per conto degli alleati, è di arrendersi senza condizioni; per la sua incolumità gli ha già preparato una stanza per la notte, in attesa dell’arrivo degli alleati per poi a loro consegnarsi. Sono invitati a partecipare e a esaminare le condizioni i rappresentanti del CLN-AI. Sono i moderati ACHILLE MARAZZA (DC), GIUSTINO ARPESANI (PLI), RICCARDO LOMBARDI (PdA).
L’unico che non sa ancora nulla é SANDRO PERTINI (PSIUP) che il mattino in via Copernico aveva una sola idea “Mussolini doveva arrendersi senza condizioni, e poi sarebbe stato passato per le armi” ( lo scrive lui, nelle sue memorie).

25 APRILE – ORE 17.30 – Ritorniamo nella sala del cardinale e al dialogo che si é svolto nei pochi minuti. Il CLN-AI detta le condizioni:
  1. L’esercito e le milizie fasciste consegneranno le armi e verranno fatti prigionieri con le norme della Convenzione di Ginevra.
  2. Le famiglie dei fascisti, come tali non avranno alcun fastidio, ma tutti devono abbandonare Milano.
  3. Mussolini deve consegnarsi al CLN-AI.
Sembra tutto filare liscio, Mussolini nella stanza del cardinale sembra quasi soddisfatto anche se non sa la sorte che lo aspetta; ma a rovinare tutto é  GRAZIANI che si fa uno scrupolo: quello di non volere tradire i tedeschi, non informati della resa. PAOLO ZERBINO reagisce e non può trattenere di dire quello che ha saputo da poche ore: comunica a tutti i presenti che WOLF ha già trattato la resa. Il cardinale Schuster che già sapeva, conferma la notizia. Mussolini é furibondo e indignato ” Ci hanno sempre trattati come schiavi e servi e alla fine mi hanno anche  tradito”. Crolla dunque nell’indignazione il dialogo; Mussolini chiede di poter ritornare in prefettura per prendersi un’ora di tempo e per deliberare non sentendosi più  legato ai “traditori tedeschi – e aggiunge- e poi dicono di noi!” .
25 APRILE – ORE 19 – Irrompono in arcivescovado (mentre Mussolini vi sta uscendo) EMILIO SERENI, e LEO VALIANI con SANDRO PERTINI che brandisce una pistola in pugno. Dalla foga salendo le scale ha incrociato un gruppo di persone, in mezzo alle quali c’è Mussolini, ma non lo ha notato. (“Gli avrei sparato subito” dirà in seguito)
Entra impetuosamente e quasi insulta il cardinale quando il prelato gli riferisce  i tre punti esposti da Mussolini per la resa. “Mai! Deve solo consegnarsi a noi”, “per cosa fare?” chiede il Card. Schuster, “Questa é cosa che non la riguarda” risponde Pertini. E rivolgendosi agli altri “siete stati tutti giocati”. Monsignor Bicchierai presente riferisce anche altro nelle sue Memorie “Uno dei tre ci minacciò pure…”per voialtri c’é un colpo di rivoltella pronto”.

25 APRILE – ORE 20 – CARLO TIENGO che ha assistito alla scena corre ad avvisare Mussolini in prefettura ” Vi vogliono uccidere, stasera stessa”. Mussolini viene quindi dissuaso o  ritiene lui stesso di non doversi più recare in arcivescovado; decide di fuggire a Como per incontrarsi con un misterioso emissario di Churchill. Ha con sé una cartella con importanti documenti di cui parleremo più avanti.
26 APRILE – Giunto a Como Mussolini si dirige verso Menaggio; qui passa la notte; lo raggiunge la sua inseparabile amante Petacci, e la mattina successiva si aggrega a una colonna di automezzi tedeschi che in ritirata e quasi indisturbati si stanno avviando verso il confine svizzero per il rientro in Germania. Tenterà inutilmente due volte di sganciarsi da loro per raggiungere attraverso i monti il confine. Ma i tedeschi non lo perdono di vista.
Salito su un camion vestito con un cappotto e un elmetto tedesco, a un posto di blocco a MUSSO (il destino!), MUSSOLINI viene riconosciuto da due partigiani saliti sul camion per un controllo. I tedeschi in ritirata li lasciano passare indisturbati,  ma i partigiani quel sistema dei fascisti in fuga di mimetizzarsi con i tedeschi  lo conoscono già, quindi fanno le perquisizioni su ogni mezzo. Ed ecco che su uno di questi trovano nascosto Mussolini.  I due partigiani sono PEDRO (Pier Bellini delle Stelle), e BILL (Urbano Lazzaro). Mussolini viene dunque catturato e portato in un casolare a passare la notte (nel frattempo é stata catturata anche la Petacci) mentre la notizia rimbalza fino a Milano, e nella notte “qualcuno” parte per fare, si dirà, “giustizia” in “gran fretta“.

28 APRILE – Mussolini con altri cinquantuno fascisti fra cui 16 gerarchi sono consegnati (“si racconta“) al colonnello VALERIO (WALTER AUDISIO) all’alba giunto da Milano a Dongo. Convocato un improvvisato Tribunale di guerra, con un rapidissimo processo sommario in base (“si dice“) alle disposizioni del CLM-AI, sono tutti condannati a morte e fucilati nella piazzetta di Dongo davanti a tutta la popolazione, mentre Mussolini e la Petacci portati fuori Dongo a Giulino di Mezzegra, fatti scendere dall’auto davanti a un cancello (“si dice“) sono stati giustiziati. In effetti dopo le rivelazioni fatte dal segretario di Palmiro Togliatti, MASSIMO CAPRARA il 23 gennaio del 1997, a sparare a Mussolini fu ALDO LAMPREDI; Togliatti per non offuscare la popolarità di uno dei capi storici del PCI, diede invece la celebrità a Walter Audisio che (“si dice“) recitò la parte per anni.
Delle due verità sembra che nemmeno questa di Togliatti sia quella giusta. Infatti arrivano le clamorose rivelazioni di BILL (Urbano Lazzaro) di Vicenza, che ora vive a San Paolo del Brasile. Il 27 agosto sul Borghese ha dichiarato con tutta la sua piena responsabilità che “Valerio non era Walter Audisio, come si continua a raccontare da due generazioni, ma LUIGI LONGO, Comandante generale delle Brigate Garibaldi,  a quell’epoca numero due del partito comunista dopo Togliatti. Egli nell’ordinare le fucilazioni di Dongo, non eseguì affatto un legittimo ordine del governo di Sua Maestà il luogotenente, ma una disposizione interna del PCI e dunque dell’Armata Rossa sovietica, di cui il PCI, era la longa manus in Italia“. Scopriremo più avanti un altro particolare, coincidente, che legato a queste dichiarazioni fanno diventare il tutto abbastanza credibile.
(ma sulle ore dell’esecuzione di Mussolini e la Petacci qualcosa non quadra)

29 APRILE – Eseguite le condanne, raccolti i cadaveri dei giustiziati su un camion, si parte per Milano nella notte; i corpi massacrati sono scaricati all’alba sul selciato di Piazzale Loreto e lasciati il balia della folla imbestialita che si avventa assetata di sangue per vedere lo “spettacolo“. A terra i cadaveri ricevono lo scempio, calci, sputi, dileggio, “una donna ha scaricato contro il cadavere di Mussolini cinque colpi di rivoltella“.( Comun. Ansa, 29 aprile  irradiato alle ore 13.30)”.
La folla si accalca sempre più numerosa, la moltitudine vuol vedere, si pigia e si fa largo a forza di spinte, preme, spinge, urla. Tutti vogliono vedere. Qualcuno ha la “brillante” idea macabra di prendere i corpi e appenderli per i piedi al traliccio di un chiosco di un distributore di benzina della Standard,  dove rimangono esposti “al pubblico” in un modo oltre che tragico, anche osceno. La donna più famosa d’Italia, odiata, disprezzata, per anni invidiata e chiacchierata, appesa per i piedi mostra in quel modo le sue vergogne. Una donna presente forse offesa dalla sua dignità di donna, si sfila una spilla, raccoglie e ricompone la gonna della sciagurata. Le “vergogne” sono cosi occultate, la “vergogna” di quello spettacolo invece no. Quello scempio tribale non fu una liberazione, ma un incubo che un popolo di milioni di italiani vedrà chissà fino a quando, oltre la stessa esistenza delle varie generazioni che vi hanno o no assistito.
Sandro Pertini, raccontò Leo Valiani, già il 25 aprile riteneva indispensabile deferire Mussolini a un tribunale popolare; ma dopo lo spettacolo di Piazzale Loreto commentò: “L’insurrezione si è disonorata“. Ferruccio Parri definì l’esposizione dei corpi “un’esibizione di macelleria messicana“.
Fu quella di Mussolini una esecuzione e uno “spettacolo” gratuito? – Molti concordono che il processo l’avrebbero fatto gli americani (i vincitori contro i vinti, come poi avvenne a Norimberga). E sarebbe stato per l’Italia imbarazzante, e forse ancor più imbarazzante per gli inglesi se sul banco degli imputati compariva e parlava Mussolini. E se compariva lui, a fianco sarebbero stati chiamati anche tutti coloro che con lui avevano portato al disastro l’Italia, e con loro tutto il fascismo. Quindi il processo sarebbe stato un processo contro l’intera nazione.

Dirà il giornalista-scrittore Giorgio Bocca “La morte del dittatore era inevitabile e fu accolta con manifestazioni di gioia non soltanto da noi antifascisti. Lasciare a Mussolini la parola in un processo avrebbe significato consentirgli di chiamarci tutti in causa, anche noi partigiani, che eravamo stati fascisti come tutti”.
Piazzale Loreto non era stato scelto a caso per fare questo sacrificio degno di tribù arcaiche della più profonda e nera Africa, era una compensazione o una rivalsa ad un altrettanto delitto e strage che era stata fatta alcuni mesi prima (il 10 agosto 1944), quando furono trucidati da altri pazzi “italiani” e tedeschi 15 partigiani e lasciati lì nella piazza per giorni, come monito. Un monito osceno pure questo, simile a quello successivo. Ma di questo parlerò nel prossimo capitolo.
Nei giorni che seguirono il 25 aprile (quindi alle cessate ostilità) i “giustizieri” improvvisati, come brutalità e ferocia e con vaghe motivazioni, andarono molto oltre la ritrovata “libertà” (di farsi giustizia) e andarono oltre la “giustizia“. I giustizieri imitavano le gesta dei giustiziati. Si calcola insomma che da questo 25 aprile e fino al 6 luglio siano stati giustiziati chi afferma  600 chi 20.000 fascisti, ma secondo i parenti delle vittime furono circa 50.000.
Trattato di pace
Dopo la “resa senza condizioni“, quella che noi comunemente chiamiamo “Armistizio” arriva il 10 febbraio 1947 il definitivo trattato di pace.
E’ un atto di natura unilaterale imposto all’Italia ed accettato dal suo governo post bellico. In esso l’Italia sarà costretta a riconoscere il principio di aver “intrapreso una guerra di aggressione” (premessa cpv. 2°) e pertanto le sue clausole avranno carattere punitivo: mutilazione del territorio nazionale; rinunzia alle colonie; riparazioni; limitazione della sovranità dello Stato; divieti per gli armamenti anche solo difensivi; restrizioni di vario genere.
(Anno 1945)

Ha detto Valiani al suo intervistatore Massimo Pini (Sessant’anni di avventure e battaglie): “Noi quattro del comitato insurrezionale ci consultammo, senza neppure riunirci, per telefono. Pertini, Sereni, Longo e io prendemmo nella notte la decisione di fucilare Mussolini senza processo, data l’urgenza della cosa“. “
Gli americani infatti chiedevano, per radio, che Mussolini fosse consegnato a loro. Longo chiese a Cadorna di dare il lasciapassare a due suoi ufficiali, Lampredi e Audisio, perché si recassero a prelevarlo. Cadorna racconta lealmente nelle sue memorie di avere subito capito che andavano per fucilarlo, ma di aver ugualmente firmato il foglio. Cadorna non era un cospiratore antifascista…, ma pensava che era più giusto che Mussolini morisse per mano di italiani che per mano di stranieri: perciò firmò il lasciapassare.
Nel dicembre 2006 il premier iracheno Al Maliki, rispondendo a Prodi allora capo del governo italiano gli disse: “…alla fine della seconda guerra mondiale, Mussolini è stato processato per un solo minuto. Il giudice gli ha chiesto il suo nome e alla risposta ‘Benito Mussolini’ gli ha detto: ‘il tribunale vi condanna a morte’ e la sentenza è stata eseguita immediatamente“.
L’oro di Dongo
I più furbi tra i partigiani, intanto, cominciano a razziare le auto della colonna rimaste incustodite. Ad un certo punto, davanti ai loro occhi allibiti, saltano fuori le sei famose valigie. Per evitare un saccheggio di più ampie proporzioni, il capo di stato maggiore della 52ª Brigata Garibaldi, capitano «Neri» ordina di portarle nel municipio di Dongo, dove la partigiana Giuseppina Tuissi, nome di battaglia «Gianna», fa l’inventario di tutto quel ben di Dio. La «Gianna» è anche la donna del capitano «Neri».

Sulla destinazione da dare al tesoro scoppia ben presto una lite furibonda. Il segretario del Partito comunista clandestino di Como, Dante Gorreri, sostiene che quei beni appartengono al Partito comunista. Il capitano «Neri» sostiene invece che quei beni appartengono allo Stato italiano e che pertanto vanno riconsegnati alla Banca d’Italia. Nel tardo pomeriggio del 28 aprile il tesoro viene trasportato nella villa delle sorelle Teresa e Luisa Venini, a Dòmaso. All’alba del 29, poco dopo le quattro, un gruppo di partigiani bussa alla porta della villa. Hanno in mano un foglio con il timbro del Partito comunista di Como. Caricano tutto su un’auto e spariscono.
Dove è finito il «tesoro di Dongo»?
Il 17 gennaio 1949, la rivista americana Life pubblica un’inchiesta del giornalista John Kobler dal titolo: «The great Dongo’s robbery». Kobler è uno che di tesori e manipolazioni se ne intende: ha fatto parte infatti del’Oss, il servizio segreto statunitense durante la campagna d’Italia. La sua tesi è che il tesoro sia finito nelle casse del Pci e utilizzato per sostenere le due campagne elettorali del 1946 e del 1948, per acquistare il palazzo di via delle Botteghe Oscure e per finanziare le forze militari clandestine e l’apparato di sezioni e cellule in tutta Italia.
Anni dopo Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, testimonierà che quei beni razziati sulla strada tra Musso e Dongo sono finiti nelle casse del Partito comunista. Da dove poi un esperto avvocato provvide a riciclare tutto in Svizzera. Lo stesso avvocato che, ogni quindici giorni, si recava a Roma, a Botteghe Oscure. «Si fermava a chiacchierare con me in attesa che Togliatti fosse libero», ricorda Caprara. «A ogni visita compiva una singolare triangolazione che non poteva non incuriosirmi: dopo essere stato da noi al secondo piano, saliva al terzo dall’amministrazione e poi al quarto da Pietro Secchia. Fu quello stesso avvocato un giorno, a pranzo, a spiegarmi l’arcano: lui si stava occupando di riciclare il bottino di Dongo, trasformandolo in depositi e titoli presso alcune banche svizzere, poi riutilizzabili in Italia».
Il «tesoro di Dongo» presenta somiglianze agghiaccianti col «Memoriale Moro». Chiunque ci si avvicini, paga con la vita. Luigi Canali, il capitano «Neri», scompare l’8 maggio 1945. Il suo cadavere non verrà mai più ritrovato.
Il 23 giugno 1945, mentre cerca disperatamente notizie del suo uomo, scompare Giuseppina Tuissi. Alle dieci di sera, due fidanzati vedono una moto rossa con due uomini e una donna fermarsi al Pizzo di Cernobbio e scendere verso il lago. Poi sentono un urlo e uno sparo. La moto riparte. Sul posto verrà trovato un giornale sporco di sangue e budella umane. «Gianna» è stata sventrata e gettata nel lago.
Il 4 luglio, tra Acquasena e Santa Maria Rezzonico, riaffiora il cadavere di Anna Bianchi, amica della «Gianna» e sua confidente, colpita con due pallottole alla nuca e gettata ancora viva nel lago.
Il 6 luglio scompare Michele Bianchi, il padre di Anna. Il cadavere riaffiora il 12 luglio con due pallottole alla nuca.
Il 26 ottobre 1945 viene pugnalato a morte in una strada alla periferia di Como Gaetano Melker, cittadino svizzero. È lui che ha trasportato il tesoro di Dongo dalla federazione del Partito comunista di Como alla federazione del Pci di Milano.
Inutile sottolineare che Luigi Gatti, l’uomo che guidava l’Alfa Romeo rossa e Mario Nudi, l’uomo che sedeva al suo fianco furono tra i quindici fucilati a Dongo.


                                                                                                                                                    

martedì 20 giugno 2017

<< JUS SANGUINIS >> CONTRO LO << JUS SOLI >>


 

Difendere ad ogni costo lo «jus sanguinis» contro lo «jus soli»
 
di Luigi Bellazzi
 
Per loro, non per noi!

Il fenomeno dell’immigrazione è promosso dal liberal capitalismo, (dalla finanza internazionale ebraica) per sostenere l’economia imposta dagli U.S.A., ovvero l’economia basata sulla spesa e sui consumi. Storicamente l’economia in Europa, in particolare in Italia, si basava sul risparmio e sull’investimento (c.d. «mal de la piera»).

Per sostenere i consumi (magari aumentandoli) è indispensabile aumentare il numero dei consumatori.

In una Europa e sempre con l’Italia in particolare, colpite da un decremento demografico dal secondo dopoguerra, per la legge dei vasi comunicanti, gli spazi liberi vengono subito occupati. Le Leggi Fasciste a sostegno dell’incremento demografico (tassa sul celibato, premi alle famiglie numerose etc.) non furono difese nemmeno dalla Chiesa Cattolica.

Benedetti i gagliardetti, sostenuta la crociata contro il comunismo nella guerra contro l’U.R.S.S., risoltasi la guerra con una disfatta per il Fascismo, la Chiesa dalla sera alla mattina correva in soccorso dei vincitori sostenendone persino i principi ispiratori dell’economia.

Non è una questione teorica, riguarda i comportamenti nella vita quotidiana.

Non interessava più alla Chiesa Cattolica apostolica romana che i cattolici in Europa procreassero più figli.

La Chiesa non solo benediva i vincitori e dimenticava i vinti.

Addirittura la Chiesa giunse a non riconoscere la Repubblica Sociale Italiana, mentre continuava a riconoscere diplomaticamente la Germania Nazional Socialista (con i cappellani militari cattolici sempre in visita nei campi di concentramento e senza mai segnalare il presunto «olocausto»). 

La Chiesa nel ’45 si rende conto del cambiamento epocale della politica estera degli stati europei e in particolare dell’impero inglese: abbandonare il controllo delle fonti di produzione (colonie), per privilegiare il controllo delle fonti di consumo (mercati).

L’evangelizzazione nelle ex colonie, non poteva più essere protetta dalle baionette delle nazioni coloniali, l’Islam incontrava sempre maggior favore anche perché sosteneva la nascita dei nazionalismi nelle ex colonie.

Nel frattempo l’abbraccio della Chiesa ai vincitori, ne accelerava il processo di secolarizzazione con il conseguente lento venir meno della carica mistica fino al martirio dei missionari.

Eccoti che la Chiesa si mette dalla parte del liberal capitalismo e sposa la venuta degli immigrati per fare comoda evangelizzazione «in casa propria».

La cosa sporca della Chiesa e che ammanta l’evangelizzazione dei migranti con il falso pretesto che sarebbero dei poveretti che fuggono da guerra e povertà.

Confondere la felicità col reddito pro capite è un gioco sporco.

Questi «disperati» che rischiano la vita pur di attraversare il mediterraneo, non lo fanno per fame di pane, ma per fame di consumi. La sirena delle tv satellitari che mostrano l’Europa come se fosse un Paradiso terrestre, sradicano interi popoli dalle loro terre facendogli smarrire tradizioni, civili e religiose.

È mille volte più felice, più equilibrato quel bambino nero che vive in una capanna col fondo in terra battuta, rispetto a quella bambina che vive nel lusso nord americano e viene mandata alle sfilate di moda truccata come una modella per soddisfare gli appetiti dei pedofili.

Lo sradicamento dei popoli, fa si che quelle famiglie abitanti nelle capanne vendano i loro figli per metterli sui barconi dei migranti in modo da impietosire il pubblico televisivo.

Poi quando questi migranti arrivano i sacerdoti che li accolgono, sono come i cappellani delle carceri.

Non interessa loro perché e cosa abbia commesso il detenuto prima di entrare in carcere, a questi cappellani misericordiosi interessa solo l’uomo detenuto da aiutare.

Con gli immigrati la storia è la stessa, i sacerdoti aiutano i migranti e non si chiedono se così facendo contribuiscono a distruggere nuclei e valori familiari che tali sono anche se tribali.

La soluzione non può che essere sostenere la famiglia, valore fondante della nostra civiltà.

La famiglia, famiglia. Composta da un uomo, da una donna e da quanti più figli sia possibile.


                                                                                                                                                       

sabato 17 giugno 2017

FIAMME BIANCHE

  Fiamme bianche, l’ultima leva

Il libro Fiamme Bianche – Adolescenti in Camicia Nera nella RSI  a cura di Sergio Cappelletti e Corrado Liberati – Editrice L’Ultima Crociata 2003 , apre uno spiraglio sulla storia degli oltre 4000 adolescenti che parteciparono nel 1944 come Avanguardisti Moschettieri al XXII Campo DUX di Velo d’Astico (Vicenza). Essi, nella loro qualità di partecipanti al Campo DUX non erano da considerarsi forza combattente ma, in realtà, già durante la permanenza al campo furono coinvolti in un combattimento e, dopo la chiusura del campo, quelli giudicati idonei confluirono, come si vedrà,
in vari reparti combattenti della RSI.
Il libro è costituito dalle memorie di un bel numero di reduci che si sono ritrovati e hanno formato
l’ “Associazione Nazionale Fiamme Bianche”. Essi, pescando nei loro ricordi, ricostruiscono le loro vicende personali e, tutti insieme, hanno tentato di ricostruire la storia di questi giovanissimi volontari in camicia nera, passati alla storia come “Fiamme Bianche”, per le candide mostrine che portavano sulla loro bella divisa. Ma, soprattutto, fanno riemergere tutto l’entusiasmo, che non verrà mai meno, e tutto il vivissimo desiderio di contribuire alla difesa della Patria a fianco dei fratelli più grandi, che allora questi giovanissimi portavano nel cuore.
 La storia degli Avanguardisti Moschettieri dell’Opera Nazionale Balilla (O.N.B.), poi Gioventù Italiana del Littorio (G.I.L.) comincia nel 1926, con la nascita dell’ O.N.B. di cui Renato Ricci era stato il primo Presidente .
  Particolare attenzione fu sempre dedicata da Ricci agli Avanguardisti Moschettieri, giovani dai 16 ai 18 Anni.
 Già agli inizi del 1936, durante la guerra contro l’Abissinia per la conquista dell’impero che si chiamerà Africa Orientale Italiana, Renato Ricci, dispose che  in ogni comitato provinciale dell’Opera Balilla venisse costituito un manipolo di “Avanguardisti Moschettieri” volontari. Dopo una rigorosa selezione che valutò le doti fisiche e morali, i prescelti ebbero una divisa militare grigioverde, furono armati di pugnale e di moschetto ed ebbero una seria istruzione militare.
 Probabilmente, ricorrendo quell’anno il decennale della fondazione dell’O.B., si pensava di costituire un vero e proprio reparto combattente da inviare in Africa. Cosa che non avvenne perché il 9 maggio la guerra finì con la conquista di Addis Abeba.
 E non appena la costituzione del governo della R.S.I. fu compiuta con la nomina del Generale Rodolfo Graziani quale Ministro della Difesa il 23 settembre 1943, subito il 24 fu affidato al gerarca di Carrara Renato Ricci il compito di riorganizzare l’Opera Nazionale Balilla.
  Era egli , sicuramente, la persona con l’esperienza necessaria per la sua rapida ricostituzione.
 Messosi alacremente all’opera, già nel gennaio 1944 poteva vantare la costituzione di 66 comitati provinciali e di ben 2904 comitati comunali.
  Lo scopo di questa istituzione era quello di educare fisicamente e moralmente la gioventù italiana.
  Per i più grandi, poi, veniva curata anche una preparazione premilitare, oltrechè ginnico-sportiva, che doveva portare, una volta raggiunta la maggiore età, all’iscrizione al partito.
  Ed ecco che, agli inizi del 1944, esattamente con le direttive emanate da Ricci il 15 gennaio, ai giovani delle classi 1926, 1927 e 1928 ( gli Avanguardisti Moschettieri, appunto) fu consentito di arruolarsi volontariamente in un vero e proprio corpo militare (anche se non destinato al combattimento) che verrà poi, come già detto,  denominato “Fiamme Bianche” per le bianche mostrine che esibivano sul bavero della giacca.
  In ogni provincia, così, si aprirono gli arruolamenti e si costituirono – uno in ciascuna provincia – “battaglioni” (cosiddetti) di “Fiamme Bianche”. Le domande di arruolamento furono ovunque numerosissime, tanto che cominciarono a difettare le divise e i moschetti. I giovani volontari vennero sistemati in apposite caserme e iniziarono la loro vera e propria vita militare.
 Fino, all’incirca,  alla metà di maggio, intenso continuò nelle varie sedi provinciali, l’addestramento ginnico-sportivo per irrobustire il fisico, mentre l’addestramento pre-militare diventava sempre più un vero addestramento militare. Eravamo in guerra e i giovani nati nel 1926 sarebbero stati presto chiamati a far parte di reparti combattenti.
 La divisa, grigioverde, era costituita da giacca e pantaloni alla paracadutista (giacca tipo sahariana stretta alla vita da una cintura e pantaloni lunghi serrati alla caviglia subito sopra gli scarponi e sborsanti all’estremità). Il berretto era un basco nero con un fregio argenteo rappresentante una Emme maiuscola con, in mezzo, un fascio repubblicano.
 Ed ecco che, intorno al 20 di maggio, venne l’ordine di concentrare tutti i reparti provinciali in un Campo Dux ( il XXII) dove l’addestramento militare sarebbe stato completato.
 Il morale dei giovani era altissimo e l’entusiasmo alle stelle.
 Molti dettagli il libro ci fornisce sulla storia delle “Fiamme Bianche” Toscane. La partenza per Velo d’Astico da Firenze (dove, nei giorni precedenti o la mattina stessa si erano concentrate le “Fiamme Bianche” Toscane e, in gran parte, anche quelle umbre e laziali (vedi pag 81 Alberto Franci) avvenne il giorno 22 maggio, lunedì, nel pomeriggio (presumibilmente nel tardo pomeriggio) in treno, lungo la vecchia e lunga Porrettana, con arrivo a Bologna il mattino del 23. Dopo una breve sosta, verso le ore 11 il treno ripartì in direzione di Ferrara e del Po. Raggiunta Ferrara e attraversato il Po, ora il treno di trova nei pressi della stazioncina di Canaro, 12 chilometri dopo Ferrara. Sono le prime ore del pomeriggio. Ed ecco che tre aerei nemici (erano “Lighting” che i tedeschi chiamavano “Diavoli a due code” ) 1) attaccano il treno mitragliandolo ripetutamente. Viene distrutta la locomotiva, ucciso il macchinista e particolarmente colpiti i primi vagoni. Le giovani “Fiamme Bianche” si gettano fuori e cercano di ripararsi alla meglio, ma il bilancio è doloroso: Sei “Fiamme Bianche” uccise e quattro ufficiali feriti (Magg. Lancellotti, Cap. Piccolomini da Siena, Capitano Scardino - il più grave, gli fu amputata una gamba - e il Ten. Copercini).  Il Ten. Sgarzini telefona al Comitato di Rovigo. In breve arrivano l’autoambulanza e un gruppo di ufficiali germanici e italiani. I caduti vengono trasportati sull’aia di un vicino cascinale in località Sabbioni. I contadini si prodigano nel portare aiuto. Subito vengono avvertite le famiglie dei caduti che, presumibilmente, si recheranno  subito o nei giorni immediatamente successivi a recuperare i corpi sul luogo stesso dell’evento. Infatti soltanto due dei sei caduti risultano sepolti a Rovigo dove, evidentemente, erano stati portati. Anche di questi, successivamente, le famiglie recupereranno i corpi.  I nomi di quattro dei sei caduti sono i seguenti: Secchi Antonio n. a Parigi, età 16 anni, Terzo Vincenzo nato a Tunisi, di anni 16 , Tuci Alfredo nato a S.Marcello Pistoiese di anni 15, Biagini Francesco nato il 3.1.1929, di Lucca. Sono in corso ricerche per trovare i nomi degli altri due caduti.
 Ed ecco l’elenco dei feriti come risulta dal Registro Generale del 1944 dell’Ospedale Civile di Rovigo:
1)      Magg. Francesco Lancellotti fu Giuseppe da Firenze;
2)      Cap. Pier Piccolomimi di Giovanni da Perugia
3)      Cap. Antonio Scardino di Giovanni da Firenze
4)      Cap. Copercini Giuseppe di Giovanni da Firenze
5)      F.B. Antonio Rinaldi di Vincenzo da Siena
6)      F.B. Umberto Lanzanò di Alfdredo da Siena
7)      F.B. Giovanni Orlandini di Umberto da Pietraqsanta
8)      F.B. Mario Biasini di Vittorio da Lucca
9)      F.B. Italo Tamburini di Aristide da Montelupo Fiorentino
10)  F.B. Mario Grasesca di Domenico da Lucca
11)  F.B. Ivano Baroni di Eugenio da Bologna
12)  F.B. Domenico Angotti di Nicola da Siena
13)  F.B. Alfredo Cantini di Lanciotto da Lucca
14)  F.B. Antonio Cosentini di Francesco da Siena
15)  F.B. Silvio Celestra di Giuseppe da Roma
 Terminato l’attacco i giovani,  che si erano dispersi per i campi di canapa, si riuniscono. Sono provati da quella prima, inaspettata prova del fuoco ma, incoraggiati dagli ufficiali, si ricompongono e si schierano per l’ultimo saluto ai caduti.
 Intanto è giunta una nuova locomotiva e bisogna riprendere il viaggio. Il treno riparte per Polesella. Qui si cambia treno e si prosegue fino a Thiene, dove si pernotta.
 Il mattino dopo, 24 maggio, si riparte per giungere a destinazione. Le “Fiamme Bianche” toscane e le altre vengono presentate al Gen. Salvetti che le saluta e ne elogia il comportamento. I caduti vengono commemorati.
 Sistemati in tende a sei posti, i giovani avanguardisti iniziarono con entusiasmo il duro addestramento fatto di marce, esercitazioni notturne ma anche di esercitazioni con le armi e addestramento al combattimento. Gli ufficiali che li comandavano appartenevano alla Guardia Giovanile Legionaria, dipendenti direttamente dal Comando Generale della G.N.R.
 I circa 4000 avanguardisti furono organizzati in 4 battaglioni articolati su 3 compagnie e proseguirono il programmato addestramento fino all’agosto del 1944, allorchè fu ordinata la chiusura del XXII Campo DUX. (10 agosto 1944) 2)
 Nel luglio, in previsione della prossima chiusura del Campo, le giovani “Fiamme Bianche” comincivano a pensare alla loro destinazione futura. Quelli giudicati idonei, infatti, sarebbero stati assegnati come complementi a quei reparti che ne avessero fatta richiesta. Alcuni  sarebbero  stati arruolati nella Decima Flottiglia Mas, altri nei paracadutisti, altri nei bersaglieri, altri in vari battaglioni GNR (che, infine, andranno a costituire i battaglioni mobili della Divisione ETNA). Qualcuno finirà anche in qualche Brigata Nera dove già militavano un padre o un fratello.
 Fu allora che il comandante del Campo, Maggiore Giorgio Carlevaro, reduce dalla Russia, propose la costituzione di un Battaglione d’Assalto autonomo che avrebbe conservato le fiamme bianche sulle quali, in luogo dei fascetti dell’O.B. sarebbero state appuntate le doppie “M” della GNR.  Molti accettarono con entusiasmo e il Battaglione si costituì su tre compagnie di circa cento uomini ciascuna . 3)   E l’addestramento proseguì ancora più impegnativo: marce faticose, turni di guardia massacranti…
  Intorno alla metà del mese la seconda compagnia era stata spostata a Tonezza a presidiare la ex colonia montana dove, fino ai primi di luglio, aveva funzionato una scuola Allievi Ufficiali poi spostata a Vicenza. E il 19 anche la prima compagnia si avviò, di primissima mattina, per raggiungere Tonezza, mentre la terza sarebbe rimasta a Velo d’Astico. La compagnia, dopo una marcia di diverse ore, attraverso Arsiero e il monte Cimone, giunse in vista della ex Colonia di Tonezza verso mezzogiorno. Appena arrivati, stanchi e affamati, fu dato l’ordine: “in attesa del rancio fate il fascio d’armi”. Ma dopo pochi minuti un gruppo di partigiani sferrò l’attacco con bombe e armi automatiche. Ai primi spari, che subito si infittirono, i giovani corsero a recuperare i fucili ed entrarono nell’edificio per rispondere al fuoco dalle finestre. Ed ecco un grande fragore: una mina, forse precedentemente collocata, fece crollare una parte dell’edificio. Dopo il primo comprensibile smarrimento, le Fiamme Bianche con i loro ufficiali cominciarono a produrre un nutrito fuoco con i fucili e le pistole. Il reparto aveva in dotazione anche una mitragliatrice (una Breda 37) ma si inceppò. 4)  Il Ten. Pettinato tentò una coraggiosa sortita ma il mitra gli si inceppò e cadde sotto i colpi dei partigiani. Ma ecco che il Ten Chirico, che stava arrivando con una carretta di vettovaglie, giunto al paese udì gli spari e subito telefonò al comando generale della GNR. Dopo poco un reparto di Granatieri che erano di guarnigione nella Valle d’Astico stavano arrivando a sostegno dei giovani e i partigiani subito si dileguarono lasciando sul terreno un caduto. Purtroppo anche le  Fiamme Bianche ebbero delle dolorose perdite. Caddero il Cap. Pirina, istruttore al citato Corso Allievi Ufficiali, che non aveva ancora lasciato Tonezza, il già ricordato Ten. Pettinato, le Fiamme Ciccarelli, Nasuti e Trevisan. Quest’ultimo, ferito, era stato fatto prigioniero insieme al camerata Foppiano durante la sfortunata sortita con il Ten. Pettinato e i partigiani lo avevano ucciso. Foppiano, invece, riuscì a fuggire saltando da una roccia e rientrò a Velo d’Astico. Le sue indicazioni consentirono di recuperare subito il corpo del Trevisan.
 Secondo Fracassini (pag. 20) il 1° Battaglione aveva già avuto uno scontro con i partigiani alle pendici del Monte Pria Forà, ma dovette trattarsi di una cosa modesta e senza conseguenze.
 Quando i granatieri giunsero alla caserma il maggiore Carlevaro aveva già schierato nel cortile le giovani Fiamme Bianche reduci dal combattimento che ricevettero i granatieri sull’attenti, come aveva ordinato il maggiore Carlevaro con un colpo di fischietto. 5)  Subito dopo le due compagnie tornarono a Valo d’Astico, e il maggiore Carlevaro elogiò il comportamento dei giovanissimi combattenti che furono tutti proposti per una Croce di Guerra.
 Ma la gioia maggiore fu quando, il 29 luglio 1944, a bordo di alcuni autobus, tutto il Battaglione venne portato a Gargnano dove il Duce lo passò in rassegna fermandosi poi a parlare con i giovani che chiedevano insistentemente di poter essere inviati al fronte. 6)
 Dopo pochi giorni il Campo DUX veniva chiuso e 4000 giovani dei 4600 presenti a Velo d’Astico furono giudicati idonei e affluirono ai reparti cui erano stati destinati e dei quali seguirono la sorte fino al termine del conflitto.
 Ma le 4600 Fiamme Bianche presenti al campo DUX non furono le uniche. 7) Molte non parteciparono al Campo DUX ma rimasero presso i rispettivi Comitati Provinciali e furono utilizzate in vario modo: servizi di guardia, recupero dei morti per bombardamenti e assistenza ai feriti, ma anche azioni di controguerriglia. Vedi, a questo proposito,  le memorie di  Luciano Galiberti di Genova, quelle di Giorgio Carbonati di Torino, quelle di Mario Meneghini, quelle di Eros Perugini di Milano, quelle di Giorgio Pirrone di Sondrio, quelle di Michele Giusto e di Luciano Galiberti di Genova, quelle di Stelvio Dal Piaz di Arezzo.
 Questo significa che il numero dei giovanissimi che corsero ad arruolarsi nelle “Fiamme Bianche” è significativamente superiore a quei 4600 che parteciparono al XXII Campo DUX. Ed anche fra questi non andati a Velo d’Astico ci furono molti che riuscirono ad arruolarsi in reparti combattenti e vissero l’avventura della R.S.I. fino alla fine, pagando - spesso duramente - questa loro coraggiosa scelta.

 Nel libro di cui stiamo parlando non si fa menzione delle Fiamme Bianche di Lucca. Forse perché non si è rintracciato nessum reduce di questa provincia.
In realtà anche a Lucca verso il mese di febbraio cominciarono gli arruolamenti degli Avanguardisti Moschettieri, le nuove Fiamme Bianche. Fu adibita a caserma la cosiddetta Real Casa, situata vicina alle mura urbane nei pressi della chiesa di San Frediano. Il comandante di quello che veniva chiamato Battaglione di Lucca in formazione era il Capitano Galeffi, presidente del comitato O.N.B. di Lucca, i due ufficiali erano i S.Ten Poleschi di Nicciano e Vivaldo Pagni di Pescia.
 Le esercitazioni ginniche si svolgevano nell’ampio cortile della caserma situato proprio a ridosso delle mura urbane. Le esercitazioni paramilitari si svolgevano in un piccolo podere di proprietà dell’O.N.B. sito sulle rive del Serchio. Al ritorno dalle esercitazioni le FF.BB. perfettamente inquadrate attraversavano Lucca lungo la centale Via Fillungo cantando canzoni patriottiche.
 Per un certo periodo il “battaglione” si spostò a Tereglio, un paese montano che fu raggiunto a piedi dalla stazione ferroviaria di Bagni di Lucca.
 I giovani erano accorsi numerosissimi ma mancavano le divise e i moschetti. Malgrado i tre viaggi che il Prof. Pagni fece a Udine ove era un centro per i rifornimenti, divise e moschetti continuarono a mancare. Cosicchè allorchè il “Battaglione” partì per Velo d’Astico era costituito soltanto da due plotoni  di una  trentina di uomini l’uno, quindi una sessantina di uomini in totale. Erano tutti quelli che avevano potuto essere dotati di una divisa e di un moschetto. Li accompagnava il S.Ten Poleschi. Pagni e Galeffi erano rimasti a Lucca. Successivamente, però, (dovevano essere i primi di giugno perché era già caduta Roma) altre 7 o 8 Fiamme Bianche che erano rimaste a Lucca come “Ufficio stralcio”,  con un furgoncino furono portati a Ferrara (e da qui, presumibilmente, avviati a Velo d’Astico.)
 La partenza  dei primi due plotoni avvenne il lunedì 22 maggio. A Prato i vagoni su cui stavano i lucchesi furono agganciati alla tradotta proveniente da Firenze  con le Fiamme Bianche di Firenze, Pistoia, Siena, umbre e laziali. Dopo di che ci fu la partenza lungo la “porrettana” con arrivo a Bologna il mattino del 23. Dopo una sosta, verso le 11 ci fu la partenza verso Ferrara e il Po. Nel primo pomeriggio, dopo l’attraversamento del Po, nei pressi della stazionicina di Canaro (RO), come abbiamo visto, ci fu un mitragliamento aereo che mise fuori uso la locomotiva , uccise 6 Fiamme Bianche e ferì 4 ufficiali (ad uno dei quali fu amputata una gamba) . Uno dei caduti era, appunto, di Lucca e il suo cadavere fu recuperato e portato a Lucca dal Ten. Pagni con un’auto Fiat 1100. Pagni ricorda ancora il difficile viaggio, con la bara posta a fianco dell’autista (il che fu possibile togliendo il seggiolino del passeggero) e col Ten. Pagni seduto pure a fianco della bara sul sedile posteriore. Dovevano essere passati alcuni giorni dalla morte perché dalla bara emanava un forte odore. Il Ten Pagni, purtroppo, non ricordava il nome del caduto. Una fortunata ricerca, però, ha consentito di ritrovare quel nome che, come sopra detto, era quello di Francesco Biagini, nato a Lucca il 3.1.1929. Fu sepolto a Lucca, nel cimitero monumentale, in una tomba allestita a cura dell’O.N.B.,  il 3 giugno 1944, undici giorni dopo la sua morte. Era il più giovane di otto figli. Una sua nipote, figlia di una sua sorella più grande, custodisce amorevolmente la tomba dello zio Francesco.  In fondo alla pagina la sua foto e la foto della sua tomba. 8)
 Dopo di che anche le Fiamme Bianche di Lucca proseguirono il viaggio fino a Velo d’Astico e seguirono il destino di tutti gli altri.



 


            Le Fiamme Bianche del Battaglione di Carlevaro ricevute dal DUCE a Gargnano il 29 luglio 1944.
            Il primo a sinistra è ALBERTO GONNELLA
            Il terzo da sinistra è ALBIERI (profugo da Tobruck)
            Il quinto da sinistra è Giorgio Giannotti.   Tutti e tre erano di Barga (Lucca) e appartenevano al “Battaglione” F.B. di Lucca


Nell’ultima parte del libro c’è anche un capitolo dedicato alle “Balilline”, cioè alle coetanee degli Avanguardisti che nutrivano gli stessi sentimenti e gli stessi entusiasmi, che negli stessi periodi si arruolarono nelle “Ausiliarie” e, come tali, affiancarono i soldati della RSI ovunque ci fosse bisogno di loro e, quindi, anche al fronte, come crocerossine o con altri ruoli. Dopo la sconfitta l’odio bestiale dei rossi si accanì con particolare ferocia contro di loro, che pagarono un grande tributo di sangue e di sofferenze.

NOTE
1)      Arnaldo Fracassini a pag.37
2)      Fracassini pag. 21
3)      Antonio Fede pag. 53
4)      Antonio Fede pag. 54
5)      Antonio Fede, pag 54
6)      Antonio Fede, pag 57
7)      Alberto Franci pag. 84

   Il bel viso fiero del   giovanissimo caduto Qui riposa con la sua mamma    






 

 

 
   Il bel viso fiero del   giovanissimo caduto Qui riposa con la sua mamma