mercoledì 29 novembre 2017

Perché il Fascismo fa ancora paura (agli antifascisti..)



Perché il Fascismo fa ancora paura
(agli antifascisti..)

Sono passati 65 anni da quando i più forti eserciti delle più ricche nazioni del mondo ( e certamente non la resistenza dei partigiani italiani ) vinsero la guerra ed abbatterono il Fascismo in Italia eppure pare  che esso sia ancora idealmente vivo e vegeto.
Lo testimoniano non un’illusoria convinzione di parte di chi ha mantenuto intatti quegli ideali senza cedere alle sirene del liberalcapitalismo, ma proprio gli stessi avversari che continuamente danno l’allarme e continuamente usano tutti i vastissimi mezzi di comunicazione che il potere mette a loro disposizione per denigrarlo, infangarlo e diffamarlo anche usando le menzogne più ridicole e più palesemente idiote!
Sembra quasi un grido disperato di chi sta soccombendo di fronte ad una forza della natura che lo assedia e lo minaccia da ogni parte e contro la quale si sente impotente.
Per parte sua il Fascismo non ha né i mezzi di comunicazione di massa, né gli appoggi politici di cui gode l’antifascismo e non riesce, né potrebbe, contrattaccare con un minimo di efficacia la campagna mediatica denigratoria che l’antifascismo conduce a suo danno.
Ma questi elementi danno la chiave di lettura ad un fenomeno sociale e politico di straordinaria rilevanza perché, se la logica ha ancora un senso, il fatto che dopo una guerra persa e dopo 65 anni di persecuzioni e di denigrazioni, il Fascismo preoccupi ancora i suoi avversari per la sua vitalità ha dei significati che trascendono la pura cronaca dei fatti e che invece investono l’oggettività dei valori che il Fascismo propugna e che nessuna campagna denigratoria può eliminare o sminuire.
Ad ulteriore sostegno di questa tesi sta un altro fatto innegabile ed indiscutibile e cioè la realtà anagrafica che fa si che quasi tutti i vecchi fascisti che vissero gli anni del Fascismo siano oramai defunti e perciò i fascisti di oggi sono individui cresciuti dopo la disfatta, nel clima di persecuzione e di calunnie e ciò nonostante hanno aderito a quegli ideali.
Segno inequivocabile che quegli ideali hanno ancora oggi, e nonostante tutto, un’attrattiva che seduce coloro che hanno la forza e l’intelligenza di sapere superare gli stereotipi della propaganda e di esercitare una libera ed indipendente capacità critica personale per raggiungere delle convinzioni che siano frutto del proprio pensiero e non del condizionamento del supermercato delle idee preconfezionate.
Perché Fascismo ha voluto dire e vuole dire tutt’ora, il superamento della lotta di classe ( e dello stesso concetto di classe ) che viene sostituita nel corporativismo dalla sinergia tra le categorie riuscendo a coniugare i concetti di equità sociale e di pace sociale salvaguardando l’individualità di ciascuno in una visione collettiva che si identifica nello Stato Organico ed etico!
Fascismo vuole dire dare preminenza all’uomo ed ai suoi valori spirituali rispetto al denaro ed ai valori materiali che invece dominano la società di oggi senza riuscire a dare, nonostante un’apparente soddisfazione delle necessità materiali che il consumismo procura, un reale appagamento ed una tranquillità interiore.
Sono queste, esigenze dell’animo umano che nessun regime, nessuna ideologia, nessun governo possono soffocare o nascondere troppo a lungo e che, in un modo o nell’altro, rispuntano fuori come necessità vitali ed insopprimibili.
Questo forse è quello che più fa paura agli antifascisti che sono invece gli epigoni del materialismo marxista e liberalcapitalista che sono solo apparentemente diversi, ma che sono concettualmente eguali nell’obbiettivo, uno di accaparrarsi e l’altro di condividere, i beni materiali infischiandosi o addirittura negando i valori spirituali dell’umanità.
Ma anche sul piano dell’equità sociale il confronto non regge se contestualizziamo le condizioni di partenza della società e le conquiste raggiunte.
Durante il Fascismo furono fatte leggi che rivoluzionarono i rapporti tra i lavoratori e le Imprese, tra la società e la famiglia, tra i giovani e la scuola, tra i cittadini ed il diritto alla pensione ed alla salute, tra il territorio e la sua salubrità, tra la proprietà terriera e i contadini e tra i cittadini e la legge.
Alcuni esempi: Parchi nazionali, tutela lavoro donne e fanciulli, assicurazione invalidità e vecchiaia, riforma della scuola Gentile, riforma dei codici, opera dopolavoro, carta del lavoro, libretto del lavoro, INPS. INAM, Bonifiche dell’agro Pontino, Acquedotti Pugliese, del Monferrato e del Perugino, Opera nazionale maternità ed infanzia, Aree industriali, Assegni famigliari, orario di lavoro a 8 ore giornaliere, legge urbanistica, lotta ( vera) alla mafia, case popolari, socializzazione delle imprese, ecc. ecc.
Certamente, per chi riesce a ragionare con la propria testa, risulta difficile sostenere un confronto con quanto poco fatto dal 1945 ad oggi.
A parte un sacco di chiacchiere, il potere dei padroni è aumentato e quello dei lavoratori è diminuito, ogni conquista raggiunta faticosamente con scioperi e sacrifici viene presto vanificata da aumenti del costo della vita e da diminuzione del potere di acquisto, NESSUNA legge significativa ha apportato miglioramenti costanti ai lavoratori né ha spostato i rapporti di lavoro a loro favore, la precarietà sta diventando regola e la disoccupazione giovanile aumenta a causa dell’inettitudine dei governi a difendere gli interessi nazionali in un mondo globalizzato dalla volontà del capitalismo internazionale a realizzare maggiori profitti investendo in Paesi dove non esistono tutele per il lavoro e per la salute, la famiglia sta diventando sempre di più un’entità formale priva di significati e di quei legami che si estrinsecavano in una serie di doveri e di diritti reciproci.
In più assistiamo ad una massiccia complicità tra malavita, mafie e politica che da anni inonda le cronache tanto che l’attuale governo ha voluto una apposita legge per impedire la scoperta e la divulgazione di tanto scandaloso malaffare!
Ed allora si capisce tutta l’acrimonia, tutta la rabbia, tutto l’odio verso un Fascismo che non vuole morire e che anzi rinasce ad ogni persecuzione ad ogni campagna di calunnie, ad ogni menzognero tentativo di falsare la storia.
Non ci fanno paura perché sappiamo con certezza di avere ragione.
Dopo qualsiasi notte, anche la più nera e profonda, alla fine il sole sorgerà di nuovo ..!!

Alessandro Mezzano


sabato 25 novembre 2017

Mussolini NON UCCISE Matteotti

Mussolini NON UCCISE Matteotti e mai ne diede ordine!!! La verità, parla il figlio...

PREMESSA:
I libri di storia recitano più o meno così:Il 6 aprile 1924 si svolsero, in un clima pesante di intimidazioni, le elezioni politiche. In virtù della legge maggioritaria il successo toccò al "listone" fascista. Pur avendo così conseguita la maggioranza parlamentare, il fascismo non si acquietò e non ci fu la tanto attesa (anche da Mussolini) normalizzazione delle squadre fasciste più violente.All'indomani delle elezioni, scomparve il socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i brogli elettorali e le violenze perpetrate dalle squadre fasciste durante il periodo preelettorale. Egli fu rapito dagli squadristi all'uscita della sua abitazione romana, ed ucciso. Quando si seppe dell'assassinio di Matteotti, un'ondata di commozione invase l'Italia intera e si ripercosse in tutta Europa ripercuotendosi violentemente contro il governo fascista che ne fu investito in pieno.
Il delitto Matteotti è un passaggio cruciale nella storia del Fascismo. Ad esso fanno riferimento gli antifascisti, come simbolo della violenza orchestrata dalle bande fasciste. Mussolini stesso è stato più volte accusato, e lo è tutt'ora, di aver egli organizzato l'attentato al leader socialista.Il Duce prese atto delle polemiche che il fatto suscitò a livello nazionale e fu quello il punto in cui il fascismo rischiò proprio di cadere in conseguenza di quel fatto e della successiva secessione cosidetta dell'Aventino. Mussolini stesso si sobbarcò la responsabilità morale dell'accaduto credendo di non aver saputo dare freno ai più irrequieti fascisti. Il 13 giugno in un discorso alla Camera, disse:
Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.

LA SVOLTA:

Al di là delle menzogne diffuse dall'esilarante istituto storico della resistenza credo che, per comprendere la vera dinamica di quel fatto di sangue, basti pensare all'intervista che Matteo Matteotti rilasciò, una quindicina di anni fa, a Marcello Staglieno, e che fu pubblicata da "Storia Illustrata".In essa sono contenute affermazioni clamorose. Secondo lui (e non credo che il figlio di un uomo assassinato possa essere accusato di faziosità...) dietro l'omicidio del padre non ci sarebbe stato Mussolini, bensì il re; e all'origine della morte del deputato socialista non ci sarebbero state le tanto decantate denunce delle violenze fasciste (poco significative, aggiungo io, perché le violenze fasciste erano sotto gli occhi di tutti, esattamente come sotto gli occhi di tutti era il fatto che esse nascevano per reazione alle violenze dell'estrema sinistra...), ma ben altro.Giacomo Matteotti, che era un massone d'alto grado, nel 1924 aveva compiuto un viaggio in Inghilterra; qui la loggia "The Unicorn and the Lion" gli aveva comunicato, fornendogli i relativi documenti, che la Sinclair (quella dello "scandalo dei petroli", il cosiddetto "Affare Sinclair", appunto...)era in possesso di due scritture private del re d'Italia.Vittorio Emanuele III. Dalla prima risultava che quest'ultimo era diventato azionista della Sinclair (dal 1921), ma senza pagare un soldo; con la seconda, invece, il monarca italiano si impegnava a tenere nascosti, il più a lungo possibile, i giacimenti petroliferi in Libia. Così, in altre parole, il re ci avrebbe guadagnato, mentre l'Italia avrebbe continuato ad essere strangolata... Matteotti tornò, dunque, con l'intenzione di denunciare questo nobile comportamento del nostro sovrano, senz'altro qualificabile come alto tradimento... Denuncia ben più ghiotta di quella di cui sopra... Il re lo seppe e, temendo lo scandalo (e paventando inoltre, lui e la borghesia industriale, l'ipotesi, formulata da Mussolini, di un possibile governo fascisti/socialisti...), prese, con questo stranissimo delitto eseguito da gasati farinacciani (i quali, chissà perché, fecero di tutto per farsi scoprire...), parecchi piccioni con una fava: sventò il governo a partecipazione socialista, ebbe Mussolini (che, a questo punto, sarebbe stato anche lui una vittima...) in pugno, e potè sottrarre la pericolosissima documentazione che lo inchiodava...Ricordo, infine, che il Duce concesse un vitalizio ai familiari di Matteotti, persone dignitose che mai avrebbero accettato quel denaro se avessero saputo che era stato proprio Mussolini a pronunciare la condanna a morte del loro congiunto...

UN'ALTRA  FALSITA' E' STATA RESA NOTA!!!





 

                                                                                                                                   

mercoledì 22 novembre 2017

LIBANO: Chi di complotto ferisce di complotto...


Libano: Chi di complotto ferisce di complotto...
 
di Dagoberto Husayn Bellucci
 
Che succede a Beirut? Dopo mesi di assoluto silenzio il Libano torna sulle prime pagine della politica mondiale grazie al suo primo ministro, Saad Hariri, responsabile di quanto potrà accadere nel martoriato paese dei cedri.
 
Vediamo di ricapitolare perché, vista dall'esterno, questa ennesima crisi di governo libanese rasenta i limiti della demenza.
 
Lo scorso 4 novembre Hariri in visita ufficiale a Riad, capitale saudita, è intervenuto con una dichiarazione alla tv panaraba «Al Arabiya» con la quale annunciava al mondo le sue dimissioni. É chiaro che il luogo ed il modo utilizzato dal premier libanese per comunicare la sua decisione siano apparsi subito sospetti e, come minimo, strani rispetto alle normali prassi politico-istituzionali dell'intero Vicino Oriente dove i blitz militari, le crisi ed i colpi di Stato si susseguono come prassi comune oramai da settant'anni più o meno come leit-motiv all'ordine del giorno. Se proprio non è prassi sicuramente non è neanche un evento straordinario per un'area tanto instabile e contesa da sempre al centro dei war-games e delle strategie contrapposte della politica mondiale.
 
Ma un primo ministro che in visita ufficiale in un altro paese comunichi così le sue dimissioni ancora non si era mai visto neanche da queste parti.
 
Ora i segnali che qualcosa non quadrasse all'interno dell'esecutivo libanese guidato da Hariri con la partecipazione di Hizb'Allah era chiaro fin dal viaggio italiano dello stesso premier di alcune settimane or sono: le dichiarazioni rilasciate in una intervista al quotidiano romano «La Repubblica» erano inequivocabili. Hariri aveva dichiarato di sentirsi in pericolo, che qualcuno complottava contro la sua vita e - neanche troppo velatamente - aveva puntato l'indice proprio contro il movimento sciita filo-iraniano ed i suoi referenti a Teheran.
 
Considerando il clima ancora piuttosto incandescente nella vicina Siria e nel nord dell'Iraq (dove si continua a combattere le ultime sacche di resistenza dell'autoproclamato «stato islamico») prima di parlare e accusare qualcuno Hariri avrebbe fatto meglio a preoccuparsi delle implicazioni e conseguenze che una simile dichiarazione di ostilità avrebbero causato.
 
Hariri dalla capitale saudita ha parlato di un complotto pilotato dall'Iran contro di lui. 
 
Prove al riguardo non ne ha fornite. Solo chiacchiere. 
 
«Il mio sesto senso mi dice che alcuni mi vogliono morto. - ha dichiarato il premier ad Al Arabiya - C'é un clima molto simile a quello che precedette l'assassinio di mio padre il 14 febbraio 2005. Non permetteremo che il Libano diventi l'innesco dell'insicurezza regionale. Le mani dell'Iran dagli affari del mondo arabo verranno recise»
 
Parole chiare, parole forti. Ma pur sempre parole....perché di fatti nemmeno l'ombra. E non potevano destare maggior insicurezza politica nella capitale libanese e nei quattro angoli del Vicino Oriente se pronunciate dalla capitale saudita dove - come hanno osservato molti giornalisti e addetti ai lavori - Hariri ha pronunciato un discorso che sembrava scritto da altri, senza inflessioni «dialettali», chiamiamole così, libanesi, nell'arabo classico parlato nel Golfo quasi che qualcuno abbia dettato e vergato per lui quanto si voleva che dicesse... Un avvertimento? un monito? Ma per chi? E per cosa soprattutto?
 
Visto che quello che di norma accade in Libano è sempre una spia per le tensioni che si registrano quasi come tsunami nel resto del mondo arabo sarebbe bene prendere sul serio i «moniti» di Hariri senza enfatizzarne la portata ma neanche sottovalutarne le possibili conseguenze.
 
Anche perché l'Arabia Saudita, possibile regista dell'intera operazione, interveniva neanche ventiquattr'ore più tardi con dichiarazioni altrettanto «incendiarie» accusando Teheran di un po' tutto quello che sta accadendo nel Vicino Oriente sostenendo responsabilità tutte da provare nel presunto «complotto» per destabilizzare il Libano ed eliminare il suo primo ministro.
 
Cosa ci guadagnerebbero poi gli iraniani a eliminare Hariri è tutto da capire considerando che i loro «alleati» di Hizb'Allah ed 'Amal (i due partiti sciiti di Beirut) siedono al governo fianco a fianco dei ministri della Corrente Futura, il partito sunnita del premier dimissionario.
 
Riad ha accusato inoltre Teheran di una sempre più netta interferenza nei delicati equilibri geopolitici del Golfo in particolare di sostenere i ribelli sciiti dello Yemen. Niente di nuovo considerando che sono oramai quasi 39 anni che la principale monarchia del Golfo e la più importante potenza sunnita regionale - sia religiosamente, sia politicamente ed economicamente - scarica le proprie contraddizioni interne ed i suoi strali contro la Repubblica Islamica dell'Iran.
 
Di nuovo ci sono soprattutto due avvenimenti: lo strumentale utilizzo di un premier straniero, «ospite» (così si dice) a Riad, per calunniare a destra e a manca Teheran ed i suoi alleati e soprattutto il rimescolamento delle carte all'interno della casa regnante dei Saud dove sta emergendo sempre più nitidamente la figura dell'erede al trono, il principe Mohammad bin Salman, vero regista della politica estera saudita.
 
Dopo le accuse, reiterate anche durante la recente campagna presidenziale americana da ambedue i candidati, piovute contro Riad di sostegno al terrorismo internazionale di matrice al-qaedista/salafita; dopo aver perso influenza e terreno nel conflitto siriano la strategia saudita, ringalluzzita forse dal viaggio e dalle parole con le quali il Presidente USA Trump ha ribadito qualche mese or sono il ruolo di principale alleato degli Stati Uniti ai petrolmonarchi del Golfo, comincia a delinearsi in tutta la sua ampiezza ed estensione coinvolgendo, indirettamente e senza mai nominarlo, «Israele» e facendo presagire futuri apocalittici scenari bellici estesi a tutto il Vicino Oriente.
 
Infine da Riad è giunto l'invito ai propri connazionali di abbandonare il Libano quanto prima. 
 
Intanto un risultato i sauditi sembrano averlo portato a casa: la destabilizzazione politica nel Libano che senza il suo premier si ritrova con un pericoloso vuoto di potere che potrebbe preludere ad una vera e propria crisi. In Libano quando si parla di crisi si è soliti pensare al sanguinoso conflitto civile che insanguinò per quindici anni (1975-1990) il paese dei cedri provocando lutti e lasciando rovine. E nessuno, neanche il più fanatico ed estremista dei libanesi vorrebbe ripiombare lo Stato in questo autentico scenario apocalittico...anche perché nessuno vorrebbe assumersene, un domani, una così grande responsabilità.
 
Gli israeliani, dal canto loro, seguono silenti questo teatrino in salsa libanese...
 
Immediate le reazioni da Beirut dove Hizb'Allah ha tuonato per bocca del suo Segretario Generale, Sayyed Hassan Nasrallah, che ha accusato Riad di tenere prigioniero Hariri, ne ha richiesto l'immediato rientro in patria e ha sostenuto la piena legittimità dell'esecutivo in carica.
 
Quanto sta accadendo tra Riad e Beirut apre invece scenari inquietanti in prospettiva: le strategie destabilizzanti messe in atto dalla monarchia saudita rischiano di precipitare l'intero Vicino Oriente in un caos generalizzato, ed i sauditi ne sono coscienti avendo per anni fatto da pompieri proprio nella delicata situazione interna libanese. Quando il Libano singhiozza di norma l'intero mondo arabo rischia la febbre e qui si sta avvicinando paurosamente una bella broncopolmonite se Riad non rivedrà la sua attuale linea in politica estera. 
 
Una linea che sembra dichiaratamente ostile all'asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut dettata più dalla frustrazione di vedersi progressivamente escludere dalle capitali arabe determinanti gli assetti di potere ed il balance of power regionale.
 
Esclusi in Iraq dopo la caduta del regime ba'athista e 14 anni di occupazione statunitense i sauditi hanno manovrato nell'ombra le forze criminali delle diverse sigle terroristiche che da sei anni hanno provocato il caos siriano, sostenendo - assieme a Bahrein, Qatar, Kuwait e Emirati Arabi - neanche troppo velatamente la nascita del «mostro» Isis ed il suo radicamento tra Siria ed Iraq.
 
Il principe Mohammad bin Salman, regista delle strategie estere di Riad, appare l'uomo emergente della politica saudita: ha accusato più volte Teheran di intromissioni nella regione del Golfo particolarmente per quanto riguarda la delicatissima situazione yemenita.
 
Nel contesto della crisi yemenita Riad fin dal 2015 ha sostenuto militarmente l'allora Presidente in carica Mansur Hadi e la repressione attuata contro i ribelli sciiti houti sostenuti dall'ex Presidente Alì Abdullah Saleh e appoggiati in modo informale da Teheran.
 
Già nel 2011 in occasione dell'ondata di proteste e manifestazioni di piazza che sconvolsero l'intero mondo arabo e furono, forse un po' troppo pomposamente, ribattezzate come «primavere arabe» l'Arabia Saudita era intervenuta assieme ai suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo per neutralizzare una rivolta sciita nel Bahrein.
 
Nel confinante Yemen Riad ha preso duramente di mira l'analoga ribellione degli houti. E non tralasciando l'ipocrisia con cui l'Arabia Saudita ha gestito la crisi siriana dove finanziamenti e armamenti sono giunti dalla capitale saudita a decine di organizzazioni terroristiche della autoproclamatasi opposizione democratica siriana che di democratico non aveva alcunché e tantomeno di siriano essendo rappresentata da tutta quella miriade di gruppuscoli terroristici in lotta spesso tra loro di matrice integralista salafita-al qaedista.
 
Un analogo segnale fu, alcuni mesi or sono, l'isolamento del Qatar voluto da Riad per «punire» i cugini meno allineati del Golfo.
 
Questa fino ad oggi la strategia estera di Riad. Con la mossa delle dimissioni di Hariri la casa regnante saudita sembra intenzionata invece ad alzare la posta e giocare «sporco» (come d'altronde ha sempre fatto): mettere in discussione gli equilibri a Beirut potrebbe risultare una scelta pericolosissima, un rischio per niente calcolato di cui domani qualcuno dovrà rispondere. 
 
Aprire un vuoto di potere nel paese dei cedri significa incendiare l'intera regione vicino-orientale perché il Libano è tradizionalmente un paese-perno degli assetti e delle strategie regionali, per chiunque troppo importanti da mantenere stabili. 
 
La destabilizzazione del Libano rappresenterebbe un autentico terremoto geopolitico dalle dimensioni e conseguenze irrimediabili, ben più devastante del terremoto naturale che ha colpito in queste ore il confine tra Iraq ed Iran provocando almeno trecento vittime e migliaia di feriti.... 
 
Proseguiranno i sauditi questa sciagurata politica estera volta a scoperchiare i diversi vasi di Pandora del Vicino Oriente?
 
A Beirut nessuno vuole pensare a questa ipotesi, si attende il rientro già annunciato del premier Hariri in patria, si lanciano appelli all'unità nazionale. 
 
Complotti? Occorre fare attenzione prima di metterne in piedi uno funzionale e operativo, Riad dovrebbe meditare bene fin dove accelerare perché ... chi di complotto ferisce...
 
                                                                                                                        

sabato 18 novembre 2017

Adolfo Ferrero, alpino ed eroe dell'Ortigara

 

Adolfo Ferrero, alpino ed eroe dell'Ortigara

La storia del tenente decorato con Medaglia d'Argento al valore militare

 IL GIORNALE D´ITALIA

Adolfo Ferrero, alpino ed eroe dell'Ortigara
Ortigara. Un nome conosciuto non solo agli amanti della montagna, ma anche a tutti quelli che hanno a cuore la storia d'Italia. Perché è proprio su quel monte che tra il 10 e il 29 giugno 1917 si è combattuta una delle più sanguinose battaglie della Grande Guerra. Una battaglia in cui gli Alpini, sacrificandosi per la Patria, hanno dato un'ennesima grande prova di eroismo e valore.
Tra loro c'era il ventenne tenente Adolfo Ferrero, torinese, arruolato nel 2°Reggimento Alpini Battaglione Valdora. che trovò eroica morte il 19 giugno 1917. E venne decorato con una Medaglia d'Argento al Valore Militare con la seguente motivazione: “Comandante di un plotone, lo trascinava con mirabile slancio all’attacco, e non cessava dall’incitare ad avanzare, benché ferito ripetutamente e gravemente”.
La sua storia è narrata, insieme ad altre valorosamente simili, da Adler Battistini nel suo “Ortigara. Una tomba e un altare” (Ed.Narratori Moderni 1967). Una storia, quella di Adolfo Ferrero, che lo ha visto, dopo il suo sacrificio, essere sepolto al Sacrario Militare di Asiago. Circa quarant'anni dopo, sui resti di un soldato (forse il suo attendente, al quale forse l'aveva consegnata affinché fosse spedita), venne ritrovata una lettera. Un po' sporca di sangue ma ancora in perfetto stato di conservazione. Una lettera che merita di essere proposta per intero. Da leggere e rileggere. Dedicando un pensiero riconoscente ai tanti “Ferrero” che hanno contribuito alla difesa della Patria. Queste le parole del giovane tenente:
18.06.1917 ore 24
Cari genitori,
Scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire.
Non ne posso fare a meno: il pericolo è grave, imminente. Avrei un rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un ultimo saluto. Voi sapete che io odio la retorica …no, no, non è retorica quello che sto facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole, sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa ma orrenda… Fra cinque ore qui sarà l’inferno. Tremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa e rombi, e tuoni e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in quest’istante medesimo odo in lontananza. Il cielo si è fatto nuvoloso: piove… Vorrei dirvi tante cose…tante…ma voi ve l’immaginate. Vi amo. Vi amo tutti tutti. Darei un tesoro per potervi rivedere, ma non posso… Il mio cieco destino non vuole.
Penso, in queste ultime ore di calma apparente, a te Papà, a te Mamma, che occupate il primo posto nel mio cuore, a te Beppe, fanciullo innocente, a te o Adelina.. addio.. che debbo dire?
Mi manca la parola, un cozzare di idee, una ridda di lieti, tristi fantasie, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione… No, no, non è paura. Io non ho paura! Mi sento ora commosso pensando a voi, a quanto lascio, ma so dimostrarmi, dinanzi ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anche essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete e siate forti, come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto per la Patria non è mai morto. Il mio nome resti scolpito indelebilmente nell’animo dei miei fratelli, il mio abito militare e la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa. E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti quella a Giuseppe…
O genitori, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratelli di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro di me, sforzatevi a risvegliare in loro ricordo di me. M’è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi… Fra dieci, venti anni forse non sapranno nemmeno più di avermi avuto fratello…
A voi poi mi rivolgo. Perdono, vi chiedo, se v’ho fatto soffrire, se v’ho dati dispiaceri. Credetelo, non fu per malizia se la mia inesperta giovinezza vi ha fatti sopportare degli affanni, vi prego volermene perdonare. Spoglio di questa vita terrena, andrò a godere di quel bene che credo essermi meritato.
A voi Babbo e Mamma un bacio, un bacio solo che vi dica tutto il mio affetto. A Beppe a, Nina un altro. Avrei un monito: ricordatevi di vostro fratello. Sacra è la religione dei morti. Siate buoni. Il mio spirito sarà con voi sempre. A voi lascio ogni mia sostanza. E’ poca cosa. Voglio però che sia da voi gelosamente conservata.
A Mamma, a Papà lascio… il mio affetto immenso. E’ il ricordo più stimolabile che posso loro lasciare. Alla mia zia Eugenia il crocefisso d’argento, al mio zio Giulio la mia Madonnina d’oro. La porterà certamente. La mia divisa a Beppe, come le mie armi e le mie robe. Il portafoglio (l 100) lo lascio all’attendente.
Vi Bacio. Un bacio ardente di affetto dal vostro aff.mo Adolfo
Saluti a zia Amalia e Adele e ai parenti tutti”


lunedì 13 novembre 2017

EUROPA ricorderà il genocidio dei popoli europei

Tra qualche decennio il giorno della memoria ricorderà il genocidio dei popoli europei

Il 27 gennaio, le autorità festeggeranno – è il termine adatto dal loro punto di vista – il giorno della memoria. Non in nome degli ebrei morti durante la seconda guerra mondiale, ma per utilizzarli come mezzo per le loro politiche attuali. Come ogni anno, quest’anno più degli altri, faranno l’insensato parallelo con i migranti-immigrati-profughi. E non importa se il 99 per cento di questi ‘profughi’ sono islamici, e che nel 90 per cento dei casi vorrebbero la morte di ogni ebreo: questo è un optionale per chi fa dei morti un feticcio. Sfruttando l’ignoranza della popolazione.
Ma tra qualche decennio, i ‘nuovi europei’ festeggeranno un altro giorno della memoria, ricordando la grande sostituzione etnica che li avrà portati a spadroneggiare sul continente una volta chiamato Europa. Ricorderanno, con divertimento e un pizzico di incredulità, come tutto sia avvenuto per volontà o ignavia degli europei stessi, che li hanno fatti entrare con tutti gli onori. Ricorderanno con divertimento e incredulità i nomi Merkel, Renzi, Hollande e di altri politici. Ricorderanno come sia bastato sacrificare qualche bambino, per fare calare ogni difesa ad una civiltà moralmente decadente: e quando parliamo di ‘decadenza’, non ai soli costumi ci riferiamo, che pure ne sono parte, ma in primis al nichilismo e alla mancanza di volontà di potenza.
Oggi viviamo l’epoca del ‘grande vittimismo’, la vittima, vera o presunta (quasi sempre presunta) ha sempre ragione. E allora, fate un piccolo sforzo di immaginazione, piangete la vittima di oggi che verrà ricordata in futuro. E magari, evitate che divenga vittima, perché la Storia non è scritta.

venerdì 10 novembre 2017

EPURAZIONI CONTRO I FASCISTI



La commissione di epurazione fu un organo che, dopo la caduta del fascismo, fu incaricato di rimuovere dai loro incarichi le persone più coinvolte con il passato regime.
Il problema cominciò a sentirsi in Sicilia prima regione liberata dagli alleati ma il Governo militare d'occupazione (l’AMGOT, Allied Military Government of Occupied Territories) preferì dedicarsi prima agli immani problemi di estrema urgenza e si limitò a compilare una lista nera degli elementi giudicati pericolosi.
Ci fu una certa differenza di comportamento tra gli americani che amministravano la Sicilia occidentale rispetto agli inglesi che nella Sicilia orientale furono più rigorosi. Nel complesso, però, salvo sporadiche eccezioni, solo i prefetti e i podestà dei comuni più importanti furono sostituiti. I podestà dei piccoli paesi, continuarono a collaborare con l’amministrazione Alleata, così come i funzionari comunali.
Nell'Italia amministrata dal governo Badoglio, prima dell'armistizio di Cassibile non ci fu quasi epurazione salvo singoli episodi anche controversi come la morte di Ettore Muti.
Dopo l'8 settembre gli Alleati continuarono, in genere una linea morbida e il governo italiano assumeva solo gradualmente compiti amministrativi nei territori riconsegnati dalle autorità militari.
Nel dicembre del 1943 fu emanato un primo decreto: “Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali, degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o d’interesse nazionale”. Apposite Commissioni d'epurazione dovevano giudicare i soggetti che erano allontanati dalle loro cariche e dichiarati temporaneamente sospesi e che avevano dovuto compilare appositi questionari.




PROCESSO AD ADERENTI ALLA R.S.I.


EPURAZIONE” ALL'AMERICANA.....CHI FASCISTA E CHI NO....
La rivista online Slate ha pubblicato alcune fotografie di un documento dell’esercito statunitense del 1944. L’esercito elenca dettagliatamente tutte le persone che il governo militare in Italia avrebbe dovuto considerare fascisti e quindi rimuovere e isolare dalla vita politica del paese. Il documento doveva serviva alla Commissione di Controllo Alleata (ACC), l’organo militare incaricato dell’amministrazione civile nei territori liberati degli eserciti alleati. In Italia l’ACC venne stabilita dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e cominciò i lavori nel novembre di quello stesso anno. I compiti principali della ACC erano assicurarsi che i vari servizi civili continuassero a funzionare, che la popolazione venisse sfamata e che fosse ragionevolmente protetta dalle malattie e genericamente da altri rischi. In sostanza svolgeva le funzioni di un normale governo civile, e in alcuni casi le svolse in maniera piuttosto sbrigativa e autoritaria. Tra gli altri compiti, però, c’era anche preparare il terreno per una restituzione dei poteri agli italiani: per fare questo serviva assicurarsi che le persone compromesse con il regime fascista restassero lontane dalle istituzioni. Per questo motivo venne stilato questo documento, che indicava dettagliatamente chi era da considerare un fascista e chi no. Alla fine, mettendo insieme tutte le categorie elencate, la lista finiva per includere una larga maggioranza della classe dirigente italiana: nella lista erano inclusi tutti i dirigenti del partito fascista, tutto il governo, parte della magistratura, tutti i direttori e capiredattori dei giornali, tutti gli amministratori locali e tutti quegli imprenditori che avessero avuto a che fare in un modo o nell’altro con l’amministrazione pubblica .
La lista che segue definisce le categorie di persone che devono essere considerate Fascisti e che quindi sono soggetti al contenuto di questo ordine:
a. le persone che hanno il titolo o la qualifica di “Sansepolcrista”, “Squadrista”, “Antemarcia”, “Marcia su Roma”, “Sciarpa Littoria”;
b. una persona che durante il regime fascista era: un membro del governo centrale, un membro del Gran Consiglio, un membro dell’Accademia d’Italia, o un membro del Tribunale Speciale per la difesa dello stato;
c. una persona che è stata presidente, vice-presidente o direttore di una Corporazione, confederazione, federazione o sindacato;
d. una che è stata segretario nazionale, vice segretario nazionale del partito fascista, oppure un membro del Direttorio nazionale, o un ispettore nazionale;
e. una persona che sia stata membro del partito fascista e che è stata nominata Senatore dopo il 3 gennaio 1925 e che in conseguenza di questa nomina ha ottenuto un ruolo in una qualunque amministrazione pubblica o impresa che sia inclusa nel paragrafo 2;
f. una persona che è stata nominata senatore prima del 3 gennaio 1925 e che successivamente a questa data è entrata a far parte del partito fascista e in conseguenza ne ha ottenuto un ruolo in una qualunque amministrazione pubblica o impresa incluse nel paragrafo 2;
g. i membri fascisti del parlamento;
h. una persona che è stata segretario federale, vice segretario federale o segretario amministrativo del partito fascista;
i. una persona che ha fatto parte di un Direttorio Federale o del Direttorio dei fasci di combattimento o un fiduciario rionale di un capoluogo di provincia;
l. una persona che è stata ispettore federale o ispettore di zona del partito fascista;
m. una persona che ha fatto parte del Tribunale centrale della disciplina federale del partito;
n. una persona che durante il regime fascista è stata presidente, vice presidente, consigliere o rettore di un’amministrazione provinciale;
o. una persona che durante il regime fascista è stato sindaco, vice-sindaco, commissario governativo o commissario prefettizio di un capoluogo di provincia;
[I sindaci in epoca fascista erano chiamati podestà ed erano nominati direttamente dal governo]
p. una persona che durante il regime fascista è stato sindaco di un comune che alla data dell’ultimo censimento aveva una popolazione di più di 50 mila abitanti;
q. i segretari politici del partito fascista;
r. i fiduciari provinciali dei fasci femminili;
s. i presidenti, vice presidenti, direttori o amministratori di amministrazioni pubbliche o imprese incluse nel paragrafo 2;
t. i commentatori radio politici;
u. i direttori e caporedattori di giornali o riviste politiche;
v. giornalisti professionisti o pubblicisti che dopo il 3 gennaio hanno fatto propaganda alle idee e agli scopi politici del fascismo;
x. membri della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale in servizio permanente e attivo e che mentre erano membri di questa organizzazione erano anche:
1. membri della Milizia Contraerea o della Milizia Costiera;
2. membri della Milizia Forestale o impiegati nella vecchia amministrazione forestale prima della creazione della Milizia Forestale;
y. le persone decorate dal governo tedesco per servizi politici resi al partito nazista;
z. chiunque sia stato membro della commissione per il Confino di polizia.
2. Le posizione nelle amministrazioni direttamente o indirettamente controllate dal governo dalle quali coloro che sono considerati fascisti saranno rimossi includono:
a. qualunque amministrazione controllata dallo stato italiano incluse le amministrazioni parastatali;
b. qualunque amministrazione di polizia tranne le unità di polizia che fanno parte dell’Esercito Italiano e che sono soggette a un separato processo di defascistizzazione;
[La specifica serve ed escludere l'Arma dei carabinieri, che era considerata fedele al re e quindi in opposizione al fascismo dopo l'8 settembre 1943]
c. i vigili del fuoco;
d. tutte le amministrazioni che facevano parte del Governatorato di Roma;
e. un’impresa che in qualunque momento a partire dal 28 ottobre 1922 ha ricevuto direttamente o indirettamente assistenza finanziaria o sussidi dello Stato italiano, dalle amministrazioni provinciali o comunali o dall’ex Governatorato di Roma;
f. un’impresa che controlla o opera, direttamente o indirettamente:
1. [manca]
2. la produzione o la distribuzione di gas o elettricità;
3. la raccolta e distribuzione di acqua;
4. servizi radio e telefonici;
5. cooperative agricole;
6. consorzi di ogni tipo;
7. enti di bonifica;
g. un’impresa che controlla o opera, direttamente o indirettamente, istituzioni finanziarie, di previdenza o assicurazione;
h. La Banca d’Italia o qualunque altra impresa bancaria;
i. un’impresa che è controllata direttamente o indirettamente dallo stato italiano o un ente di diritto pubblico.

" GIORNALE DEL POPOLO " 


"L' AVANTI" 8 AGOSTO 1945

Corte di assise di Napoli
Processo contro  Eugenio Caradonna, questore di Alessandria
Dalla condanna a morte all'assoluzione per amnistia


L'ALTO COMMISSARIO 
PER LE SANZIONI CONTRO IL FASCISMO

Il 27 luglio 1944 (nel frattempo capo del governo era Ivanoe Bonomi) fu emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 159,: “Sanzioni contro il fascismo”, che regolava l’epurazione dell’amministrazione pubblica e, art.40, istituiva l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, alla cui guida veniva nominato il conte Carlo Sforza, repubblicano, coadiuvato da un Commissariato aggiunto per l’epurazione, a cui venne preposto il comunista Mauro Scoccimarro. Vennero poi articolate le Delegazioni Provinciali. L’Alto Commissariato aveva il compito di dirigere e vigilare sull’operato di tutti gli organi che irrogavano le sanzioni contro i fascisti (art. 41). Secondo le altre norme:tutti coloro che avevano partecipato attivamente alla vita politica del fascismo, conseguendo nomine od avanzamenti per il favore del partito (anche nei gradi minori); sarebbero altresì stati allontanati i dipendenti delle amministrazioni che durante il ventennio fascista avevano rivestito cariche importanti o che, dopo l’otto settembre 1943, erano rimasti fedeli al Governo della RSI sarebbero stati dispensati dal servizio mentre sarebbero state previste norme di minore severità nei confronti dei dipendenti con qualifiche fascisteche non avessero fornito alcuna prova di settarietà, intemperanza o di mal costume Dispense erano previste per chi dopo l’8 settembre 1943, si fosse distinto nella lotta contro i tedeschi, poteva invece essere esentato dalla dispensa e da ogni misura punitiva.

L'ultimo Alto Commissario in carica fu Pietro Nenni.



LE COMMISSIONI DI EPURAZIONE

Le "commissioni per l'epurazione", furono regolamentate dal decreto legislativo luogotenenziale del 13 settembre 1944, n. 198. Il Commissario proponeva le sanzioni alle "commissioni per l'epurazione", oppure, per membri del Governo, delle Assemblee legislative o alti gerarchi, all'"Alta corte di giustizia". Nei procedimenti l'Alto commissariato aveva funzioni di pubblico ministero.

Il Decreto Luogotenziale n. 159 del 22 aprile 1945 regolamentò ulteriormente.

Secondo le statistiche ufficiali ci fu un gran numero di procedimenti aperti a carico dei funzionari, ma prevalse presto un atteggiamento meno rigoroso. Su proposta del ministro della Giustizia e leader del Partito comunista Palmiro Togliatti fu poi prevista una amnistia generale.



L'UFFICIO SPECIALE PER LE SANZIONI CONTRO IL FASCISMO

L'Alto Commissariato cessò di esistere nel febbraio del 1946 con il passaggio delle sue attribuzioni all'"Ufficio speciale per le sanzioni contro il fascismo", alla diretta dipendenza della Presidenza del Consiglio dei ministri. L'Ufficio venne affidato a Pasquale Carugno e si avvalse della collaborazione dei magistrati: Ruta, Jannaccone, Curcio (futuro segretario della Commissione per l'esame dei ricorsi dei confidenti dell'OVRA), Ponzi, De Martino, Milanese, Gabrieli e Caracciolo; e dei commissari di PS: Scienza e Fontana. Si occupò anche di redigere gli elenchi dei confidenti OVRA da sottoporre alla Commissione per la pubblicazione delle liste dei fiduciari OVRA.



Istituito con decreto legislativo il 27 luglio 1944, lo stesso decreto che istituisce le “Sanzioni contro il fascismo”, è l’organo che disciplina l’applicazione dei provvedimenti stabiliti dal decreto riguardanti la defascistizzazione dello Stato, come la dispensa dal servizio o la retrocessione in caso di nomina ottenuta in seguito all’ attività politica svolta sotto il regime fascista. 
Presieduto dal repubblicano Carlo Sforza fino al dicembre 1944, nel gennaio 1945 l’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo è riorganizzato: le funzioni dell'Alto commissario vengono assunte collegialmente dai quattro Alti commissari aggiunti sotto la presidenza del Consiglio dei ministri.
L’attività dell’Alto Commissariato rimane sostanzialmente contenuta per tutto il 1945: le sanzioni vengono applicate con lentezza e ottengono scarsi risultati pratici perché la legge del 1944 e le successive disposizioni, come quella che prevede l’estensione delle indagini e delle sanzioni alle imprese private e i provvedimenti volti ad accelerare e a rendere più rigorosi i processi epurativi, contengono formulazioni ambigue che si prestano all’interpretazione soggettiva. Parallelamente il Nord diventa teatro di atti di giustizia popolare verso i fascisti. 
Nel 1946, dopo la crisi del governo di Ferruccio Parri (che ha tra le sue cause scatenanti proprio i contrasti in materia di epurazione), il nuovo governo di Alcide De Gasperi, accogliendo le istanze dei liberali, provvede alla liquidazione formale dell’Alto Commissariato e di tutta la struttura amministrativa preposta all’epurazione.

LE SANZIONI CONTRO IL FASCISMO
Era stato lo stesso Governo del re ad inaugurare, accanto ai provvedimenti rivolti a defascistizzare l’apparato pubblico, quelli contro i responsabili del regime appena rovesciato, quando aveva adottato il 9 agosto del ‘43 il decreto-legge sull’avocazione “dei profitti di regime”. Era trasparente l’intento della monarchia di prendere le distanze dal fascismo per evitare di restare coinvolta dal crollo di un sistema di cui pure era storicamente responsabile.
Dopo l’armistizio vi fu una ragione in più, per l’obbligo imposto dagli alleati di fare l’epurazione. Cioè di rimuovere dai posti occupati nelle amministrazioni pubbliche e nelle aziende di interesse nazionale i fascisti più espressivi.
A tanto provvide il decreto-legge 28 dicembre ‘43, che applicò l’epurazione a tutti gli appartenenti alle amministrazioni civili e militari dello Stato ed ai dipendenti di ogni altro ente e istituto pubblico o sottoposto a tutela o vigilanza dello Stato, nonché delle aziende concessionarie di pubblici servizi o di interesse nazionale, che avessero militato nel partito fascista con le qualifiche di “squadrista”, “marcia su Roma”, “sciarpa littorio”, o di gerarca. Per gerarchi si intendevano i dirigenti nazionali e federali, i presidi delle province, i segretari politici ed i podestà dei comuni superiori ai 50 mila abitanti.
L’applicazione delle sanzioni fu estesa ai fascisti che si fossero resi colpevoli di “fatti costituenti attentato alla libertà individuale”. Poche le deroghe; in particolare per i fascisti che dopo l’8 settembre avevano collaborato alla lotta contro i tedeschi e per quelli che, avendo svolto scarsa attività politica, meritavano di restare in servizio per particolari competenze o benemerenze.
I provvedimenti relativi agli alti gradi furono demandati al Consiglio dei ministri; tutti gli altri a speciali Commissioni. La complessiva azione “per l’epurazione della Nazione dal fascismo” fu ricondotta ad un Alto Commissariato istituito con decreto-legge del 13 aprile 1944 (ma il primo Alto Commissario, Tito Zaniboni, era stato insediato nella carica fin dal febbraio precedente).
Le sanzioni salirono di tono con i governi espressi dalla coalizione antifascista, per impulso dei partiti di sinistra. Il decreto-legge 26 maggio 1944, n. 134, adottò provvedimenti di carattere penale per la “punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo”, che trovarono una migliore sistemazione nel successivo decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, nel quale furono accorpate tutte le “sanzioni contro il fascismo”.
In materia penale, con l’abrogazione di tutte le disposizioni emanate a tutela delle istituzioni e degli organi politici creati dal fascismo ed il conseguente annullamento delle sentenze già pronunciate in base a tali disposizioni, si volle affermare una responsabilità penale di livello costituzionale per gli atti con i quali era stato favorito l’avvento del regime compromettendo la sicurezza e l’ordinamento dello Stato.
Per i membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo “colpevoli di aver annullate le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese” fu prevista la punizione “con l’ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte” (da notare che quando di lì a poco l’Italia cancellò la pena di morte dal suo ordinamento, il relativo provvedimento mantenne ferme non solo le disposizioni dei codici penali militari, ma anche quella contenuta nelle sanzioni contro il fascismo).
I giudizi relativi furono demandati ad un’Alta Corte di giustizia composta da un presidente e da otto membri “nominati dal Consiglio dei ministri fra gli alti magistrati, in servizio o a riposo, e fra alte personalità di rettitudine intemerata” (della quale fu poi previsto lo sdoppiamento). Si trattava in buona sostanza di un tribunale straordinario, di nomina del potere politico.
Al giudizio della magistratura ordinaria furono sottoposti gli organizzatori di squadre fasciste responsabili di violenze e devastazioni e coloro che avevano diretto “l’insurrezione del 28 ottobre 1922″, in base all’articolo 120 del codice penale del 1889, nonché coloro che avevano promosso o diretto “il colpo di Stato del 3 gennaio 1925″ e coloro che avevano in seguito “contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista”, secondo l’art. 118 dello stesso codice. Secondo le leggi del tempo sarebbero stati puniti invece i responsabili di altri delitti commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo”.
E’ palese, nell’insieme di queste norme, il superamento del principio di irretroattività della norma penale, che tuttavia non sarebbe stato sufficiente di per sé solo senza il concorrente travolgimento di altre barriere, quali l’autorità della cosa giudicata, la prescrizione, le cause estintive del reato e della pena. Vi provvide l’articolo 6 del decreto del 27 luglio. Restarono fuori dalla previsione solo i delitti punibili con la pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni.
Fu disposta altresì la sospensione temporanea dai pubblici uffici o dall’esercizio dei diritti politici nonché l’assegnazione a colonie agricole o a case di lavoro fino a dieci anni per coloro che, avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo o per motivi fascisti avevano compiuto fatti di particolare gravità che, pur non integrando gli estremi di reato, fossero apparsi “contrari a norme di rettitudine o di probità politica”.
Per i membri delle Assemblee legislative o di enti ed istituti che con i loro voti ed atti avevano contribuito “al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra” fu prevista la declaratoria di decadenza da parte dell’Alta Corte, senza pregiudizio delle altre sanzioni.
Furono considerate come circostanze attenuanti un atteggiamento ostile al fascismo prima dell’entrata in guerra e la partecipazione alla lotta contro i tedeschi; motivo di non punibilità l’essersi “particolarmente distinti con atti di valore” nella lotta ai tedeschi.
Accanto alle norme penali dirette a colpire le responsabilità connesse all’avvento ed al mantenimento del regime fascista, il decreto del 27 luglio 1944 introdusse il reato di collaborazionismo con l’occupante tedesco. L’ipotesi fu ricondotta ai delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato contemplati dal codice penale militare di guerra, rinviando alle pene relative che furono estese ai non militari.
In materia di epurazione il decreto integrò la disciplina del precedente provvedimento del ‘43. La dispensa dal servizio in ragione della qualifica ricoperta fu confermata per gli squadristi, per i partecipanti alla marcia su Roma e per gli insigniti di “sciarpa littorio” ed estesa ai sansepolcristi, agli “antemarcia” ed agli ufficiali della Milizia, con la possibilità di misure disciplinari meno gravi per coloro che non avevano dato prova “di settarietà e di intemperanza fascista”. La dispensa fu prevista in via generale: per coloro che, specialmente in alti gradi, col partecipare attivamente alla vita politica del fascismo e con manifestazioni ripetute di apologia fascista, si erano “dimostrati indegni di servire lo Stato”; per coloro che, anche nei gradi minori, avevano “conseguito nomine od avanzamenti per il favore del partito o dei gerarchi fascisti”; per coloro i quali avevano dato “prova di faziosità fascista o della incapacità o del malcostume introdotti dal fascismo nelle pubbliche Amministrazioni”.
Nel caso di indebiti avanzamenti o di preferenze nei concorsi per titoli fascisti, in luogo della dispensa poteva essere disposta la retrocessione o la restituzione ai ruoli di provenienza.
In parallelo con l’istituzione in sede penale del reato di collaborazionismo con l’occupante tedesco, fu prevista in sede disciplinare la dispensa dal servizio degli impiegati che dopo l’8 settembre avevano seguito il governo fascista, con la possibilità di misure meno gravi quando gli interessati avessero dimostrato di essersi trovati esposti a gravi minacce. Costituiva esimente la partecipazione alla lotta dei patrioti contro i tedeschi e contro il governo fascista repubblicano.
I criteri dettati per l’epurazione dei dipendenti pubblici e delle aziende concessionarie di pubblici servizi o di interesse nazionale furono estesi infine agli albi per l’esercizio di professioni, arti e mestieri, dei quali fu disposta a tal fine la revisione.
In tema di avocazione dei profitti di regime, il decreto legislativo 27 luglio 1944 definì come “profitti derivanti dalla partecipazione o adesione al regime fascista” gli incrementi patrimoniali conseguiti dopo il 28 ottobre 1922 da chi aveva “rivestito cariche pubbliche o comunque svolta attività politica come fascista” – nonché dagli ascendenti, dai discendenti, dal coniuge e da terzi legati da rapporti di associazione o di cointeressenza – a meno che gli interessati non ne avessero dimostrato la lecita provenienza.
Approssimandosi la liberazione dell’Alta Italia, fu data particolare enfasi all’azione diretta a punire i collaborazionisti, sottolineando il ruolo popolare nel fare giustizia sul grande dramma che aveva spaccato il Paese. Il decreto legislativo 22 aprile 1945, n. 142 demandò il giudizio sui reati contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato, commessi dopo l’8 settembre “con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore e di aiuto o di assistenza ad esso prestata”, a Corti straordinarie d’assise presiedute da un magistrato e composte da quattro giudici popolari, scelti negli elenchi proposti dai Cln. A sostenere l’accusa furono ammessi anche avvocati scelti fra quelli designati dai Cln. Una sezione speciale della Cassazione fu costituita per i ricorsi contro le sentenze delle Corti straordinarie.
Il decreto si preoccupò di stabilire una sorta di presunzione di legge circa la sussistenza del reato di collaborazione con il tedesco invasore per coloro che avevano ricoperto – e per ciò solo – particolari cariche nel regime di Salò: componenti del governo, dirigenti nazionali del Pfr, capi provincia e segretari federali del partito, direttori di giornali politici, ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politico-militari.
Mentre si perseguiva l’attività fascista pregressa, non si mancò di colpire qualsiasi tentativo di riproporla nella vita del Paese. Con il decreto legislativo 26 aprile 1945, n. 195 divennero reati la ricostituzione sotto qualsiasi forma o denominazione del partito fascista (punita con la reclusione da dieci a venti anni) e lo svolgimento di “attività fascista impedendo o ostacolando con atti di violenza o di minaccia l’esercizio dei diritti civili o politici dei cittadini” (reato punito con la reclusione da tre a dodici anni). La promozione e il finanziamento di bande armate al fine di svolgere attività fasciste furono puniti con la reclusione fino a trent’anni.
Questo insieme di misure e di sanzioni – penali, disciplinari, amministrative, finanziarie – se corrispondeva al giudizio storico-politico sul fascismo di chi vi si era opposto o aveva dissentito, non risultava accettabile a quanti avevano costituito la base del sostanziale consenso su cui il regime si era retto fino alla sconfitta. Questi potevano riconoscere di essersi sbagliati e convenire largamente sulla improponibilità di qualsiasi ritorno a un’esperienza condannata dalla storia, ma ricusavano comprensibilmente la criminalizzazione indiscriminata della loro partecipazione a quella esperienza.
La delusione provocata dalla sconfitta e la condanna dell’estrema protervia che aveva spaccato il Paese avrebbero propiziato una larga accettazione di una qualche forma di giustizia politica ristretta ai massimi responsabili delle decisioni che avevano portato al drammatico epilogo della guerra, nonché del corso anche tardivo della giustizia senza aggettivi per punire i delitti che erano tali secondo la legge del tempo, commessi in nome del regime.
Ma le sanzioni contro il fascismo andarono ben al di là, con un rigore e un’ampiezza che solo una rivoluzione avrebbe potuto legittimare.
Una rivoluzione fatta e vinta.
Senonché la rivoluzione non c’era stata, essendo caduto il fascismo per linee interne e non avendo avuto le forze potenzialmente rivoluzionarie la possibilità di farla. Non essendo stata fatta, non poteva ritenersi vinta.
Era soltanto collassato il regime da abbattere. Ma era collassato senza travolgere lo Stato storico che si accingeva a rinnovarsi nella continuità.
L’applicazione di una normativa di tipo rivoluzionario, che costituiva una rottura rispetto alla continuità dell’ordinamento, affidata a strutture che di quella continuità erano espressione, non poteva che vanificarla. Ciò sia per ragioni oggettive di tipo sistematico, sia per il comportamento dei soggetti che incarnavano gli apparati pubblici che si trovarono ad essere al tempo stesso vittime e irrogatori delle sanzioni.
Le difficoltà oggettive di ordine sistematico trassero alimento dallo stesso linguaggio usato dalla normativa sulle sanzioni: un linguaggio idoneo a condannare il fenomeno fascista in termini storico-politici, ma scarsamente adatto a definire con rigore tecnico ipotesi di illecito penale o amministrativo al livello delle responsabilità personali di chi vi aveva concorso. Tanto più considerando che ad applicare le sanzioni avrebbero dovuto attendere non già organi di giustizia politica, ma organi giurisdizionali (la stessa Alta Corte era composta di magistrati) e amministrativi, operanti nel quadro segnato dai princìpi generali dell’ordinamento preesistente e dagli indirizzi giurisprudenziali consolidati.
A riprova di ciò che determinò l’inidoneità tecnica della normativa, coniugata con l’azione riduttiva degli organi chiamati ad applicarla, gioverà qualche richiamo.
Al di là della casistica riferita a specifiche qualifiche di regime, la previsione di reato consistente nell’aver contribuito a mantenere in vigore il regime fascista “con atti rilevanti”, si prestava per l’ambiguità della definizione, ad un ventaglio di interpretazioni oscillanti fra una lettura del termine nel senso di “apprezzabili” fino al significato di “determinanti”. Nel primo caso sarebbe stata riferibile a qualsiasi forma di concorso al sostegno del regime, cioè in pratica quasi a tutti, nel secondo soltanto ai vertici che avevano realmente pesato nella vicenda. Lo spazio lasciato all’interprete da una formulazione così approssimativa consentì una lettura restrittiva che vanificò ampiamente la portata della previsione.
Non diversamente accadde per le ipotesi di reato demandate al giudizio dell’Alta Corte, se questa in una rilevante sentenza del 20 giugno 1945 ritenne “necessaria la dimostrazione di fatti concreti in nesso causale con la distruzione delle libertà popolari o con l’annullamento delle garanzie costituzionali, con la creazione del regime fascista e con l’aver compromesso e tradito le sorti del Paese”. Parimenti non si ritenne che le sole mansioni ricoperte potessero deporre per la responsabilità degli inquisiti, senza un accertamento sui comportamenti posti in essere. Sintomi questi della difficoltà di trasformare responsabilità politiche in penali, quando l’azione collettiva di tipo politico si scompone e si segmenta in una serie di comportamenti personali.
Difficoltà analoghe comportò l’applicazione delle misure di sicurezza per fatti che, pur non costituendo reato, fossero risultati “contrari a norme di rettitudine e di probità politica”: rispetto a quali canoni traducibili in una definizione giuridica certa ed oggettiva?
Ancora più problematica risultò l’applicazione dei criteri sui quali si attestò l’epurazione, quando si vollero colpire “la faziosità fascista”, considerata come manifestazione di “indegnità di servire lo Stato”, e gli avanzamenti di carriera per benemerenze fasciste o per i favori dei potenti del regime e si considerò lo zelo fascista alla stregua di una prova “della incapacità o del malcostume introdotti dal fascismo nelle pubbliche Amministrazioni”. Questi erano i giudizi che del regime dava l’antifascismo e come tali erano legittimi. Funzionavano meno come canoni di valutazione ex post di comportamenti che, quando erano stati posti in essere, erano considerati come benemerenze patriottiche (talvolta dalle leggi del tempo, come per i benefici di carriera).
L’ampiezza e la severità delle sanzioni crearono un allarme ampio e diffuso negli apparati burocratici, che risposero con una chiusura a quadrato di pari ampiezza ed intensità. Fu una reazione di difesa, o se si vuole di autoconservazione, perfettamente comprensibile e prevedibile, alla quale non si può attribuire un significato politico altro che per gli effetti che determinò. A caldo essa fu una reazione di tipo qualunquistico, come si prese a dire dalla testata del battagliero e colorito periodico (“L’Uomo qualunque”) fondato nel dicembre ‘44 dal commediografo napoletano Guglielmo Giannini per dare voce al disorientamento dei più ed all’avversione per l’esarchia del Cln. Successivamente divenne una ragionata ricerca all’interno del quadro politico espresso dal Cln delle posizioni che potevano assicurare la pacificazione nazionale.
Non può meravigliare, pertanto, che la defascistizzazione dello Stato divenne una ragione di coagulo di forze assai estese, e certamente non marginali per il ruolo ricoperto nella vita del Paese, contro i partiti di sinistra, che dell’epurazione e più generalmente delle sanzioni contro il fascismo si erano fatti alfieri ed ispiratori, tenendo vistosamente il controllo dell’Alto Commissariato. Meraviglia semmai lo stupore opposto e la spiegazione in chiave di mene reazionarie.
Se della rivoluzione erano mancati i presupposti e le condizioni, il rinnovamento democratico passava per la continuità dello Stato, che non voleva significare conservazione istituzionale (non lo fu), ma solo mantenimento dell’alveo della legge per una transizione ordinata, cioè tale da garantire le libere scelte dei cittadini elettori. In una situazione del genere occorreva recuperare il massimo possibile dei consensi al rinnovamento senza provocare traumi velleitari alla continuità.
Criminalizzando indiscriminatamente un’intera fase della storia nazionale, che era stata vissuta dal Paese con larga ed indiscutibile partecipazione, le sinistre si alienarono l’attenzione dei ceti colpiti dalle “grida”, senza avere la forza di portare alle estreme conseguenze le liste di proscrizione, salvo poi ad attribuire alla “restaurazione clandestina” (l’espressione é di Calamandrei) gli effetti di un loro errore di calcolo politico.


DIFFAMATE, DIFFAMATE, QUALCOSA RESTERA’

Un documento interessante: il Comando Regionale Lombardo del CLN invita a:
- intraprendere una “campagna diffamatoria-denigratoria” nei confronti degli esponenti della RSI;
- attribuire loro ogni sorta di violenze nei confronti di persone e cose;
- scrivere contro di loro lettere anonime diffamatorie ai loro diretti superiori
(in: Giuseppe Rocco, Com'era rossa la mia valle, Milano 1992)

Letta così sembrerebbe una “normale” attività di propaganda (anche un po’ stupida), se non fosse che, sulla base di queste diffamazioni e lettere anonime sono stati costruiti molti processi del dopoguerra e più di uno ci ha rimesso la pelle a ridosso del 25 aprile
LA SERIETA’ E LO STILE DI QUESTA AULA DI GIUSTIZIA DI UN TRIBUNALE DI UNA CITTA’ DEL NORD, NON DA CREDITO A QUESTI TRE “GIUDICI” CON ARMI ALLA MANO, CHE INTENDONO GIUDICARE LE  LORO VITTIME

IL PROCESSO AL MARESCIALLO RODOLFO GRAZIANI


IL PROCESSO AL COMANDANTE VALERIO BORGHESE
Guido Buffarini-Guidi, ministro dell’interno della Repubblica Sociale di Salò, 
a giudizio davanti alla Corte d’Assise Straordinaria, Milano, 22 luglio 1945.

BUFFARINI GUIDI PRIMA DELLA FUCILAZIONE
Fra i maggiori processi politici effettuati a Roma ancora prima del termine della guerra, era quello contro il questore di Roma Caruso. Il tribunale riconosceva l'imputato colpevole, e lo condannava alla pena capitale, che veniva eseguita, mediante fucilazione alla schiena. Subito dopo la cessazione delle ostilità, invece, veniva processato il Ministro degli Interni della RSI Buffarini-Guidi, sfuggito alla sorte della maggior parte dei suoi colleghi, fucilati a Dongo senza processo. Buffarini-Guidi veniva condannato a morte e benché in gravi condizioni di salute, veniva fucilato


UNA PAGINA DEL SETTIMANALE “FOLLA” EDITO A MILANO  NELL’ IMMEDIATO DOPO GUERRA. VIENE DOCUMENTATA  L’ ESECUZIONE DI BUFFARINI GUIDI


                                IL PROCESSO A PIETRO CARUSO QUESTORE DI ROMA


MILANO GIUGNO 1945 
I DETENUTI FASCISTI RINCHIUSI NEL CARCERE DI SAN VITTORE  SI AFFACCIANO AI FINESTRONI PER COMUNICARE CON I LORO FAMIGLIARI


La professoressa Silvia Zappi, segretaria del Fascio Femminile di Biella durante il ventennio ed anche nel periodo della Repubblica Sociale Italiana.
Le foto la ritraggono durante manifestazioni ed attività organizzative , intenta a befane fasciste e corsi di cucito.
Nonostante ciò, già alle manifestazioni del 25 aprile viene citata in una scritta vergata col gesso su una vetrina di via Italia :"Dove sono Giraudi, Zappi e Raviglione?" (Giraudi verrà ucciso e gettato nel canale Cavour e mai ritrovato, Raviglione maciullato insieme ad altri fascisti da un grosso autocarro a mo di rullo compressore sul piazzale dell'Ospedale Psichiatrico di Vercelli). Venne condannata a 20 anni di reclusione, alla interdizione dai pubblici uffici (per una professoressa al licenziamento) ed alla confisca di tutti i suoi beni. L'eccezionale documento, ritrovato fortuitamente nell'archivio personale di un capo partigiano, riporta la distinta dei mobili e degli oggetti personali della sua modesta abitazione distribuiti ad estranei.