mercoledì 28 febbraio 2018

IL FANTASMA DELLA RIPRESA

Italia Sociale

Il fantasma della ripresa

Carmelo R. Viola

Mi viene da ridere mentre mi pervade una grande tristezza… Mi pare di trovarmi in un grande asilo per “bambini adulti”, che non hanno smesso di confondere la fantasia con la realtà, il sogno con la veglia, con la seriosità tragicomica di chi non si rende conto di produrre caos e conflittualità.
Letteralmente da sempre ho sentito parlare di ripresa. Perfino il cosiddetto “boom economico” (mi scuso per la ridicola voce onomatopeica angloamericana) fu una ripresa dalle rovine di cinque anni di guerra. Oggi – invito chi mi legge a stare all’erta – se ne parla tutti i giorni alla televisione. Ci sono versioni variegate per tutti i gusti: da quella lenta, a quella rapida, da quella che stenta a quella decisa. La gente ha ragione di chiedersi che sia mai la ripresa. Sa comunque che ha a che fare con l’economia.
Pare di ascoltare le previsioni del tempo. Il linguaggio si fa più sibillino, ovvero più metereosimile, quando si dice (per esempio) che la Germania, locomotiva dell’Europa, sta dando un impulso alla ripresa, seguita dalla Francia e che l’Italia ne trarrà senz’altro beneficio. Il quarantenne disoccupato, ignaro di liberismo, può dimenticare per un momento di essere abbandonato a sé stesso. Ci si trova davanti ad una teatralità i cui attori sono addirittura delle Nazioni come persone vere e proprie. Il linguaggio diventa più oscuro per l’uomo della strada che, se in difficoltà, aspetta che la Germania faccia di meglio dato che a beneficiarne sarebbe anche l’Italia.
Tutti i giorni la rassegna della stampa economica è un giostrare di nomi e di circostanze, che sanno di mistero, come tutti i linguaggi esoterici (voglio dire “per gli iniziati”) e la parola ripresa è puntualmente presente. Ed è il punto di forza dell’esoterismo del politicante. Vadano come vadano le cose: quel che conta è che ci sia la ripresa. E la ripresa c’è, sorniona, furtiva, dolce, vigorosa ma diciamo piuttosto indefinibile e inafferrabile. Come un fantasma, appunto. Ma dopo la crisi, una ripresa è più credibile perché sa di relitto salvavita se non addirittura di terra ferma per un naufrago.
Forse neanche i più smaliziati si sono accorti che la parola ripresa è un espediente demagogico: è come promettere a chi attende un maggiore potere di acquisto o un lavoro: che qualcosa sta per avvenire. Ma che cosa mai? In passato ci sono stati altibassi. Pochi sanno che più alto diventa il tasso tecnologico del liberismo – estremizzazione del capitalismo – più improbabile diventa il vecchio sogno della piena occupazione, e la ragione è perfino ovvia. La combinazione “liberismo-tecnologia” è il peggiore nemico della giustizia sociale. Il liberismo non sarebbe tale se la sua sola ragion d’essere non fossero i profitti in totale contrasto con l’ideale socialista, che vuole il bene di ogni singolo cittadino.
Tutti i servizi sociali privatizzati seguono un percorso analogo: tagliano i rami secchi, cioè i settori meno produttivi (una linea ferroviaria come un pronto soccorso o un ambulatorio o uno sportello), riducono il personale e fanno crescere la disoccupazione. Il servizio pubblico dato in pasto ai privati non va dai cittadini – cioè non si fa capillare – ma è il cittadino che deve andare dal servizio pagando sempre di più. Il sanitario, il ferroviario e il postale sono servizi pubblici, consegnati al mercato, che illustrano perfettamente questa triste decrescita sociale.
A questo punto possiamo tradurre il linguaggio esoterico in terminologia essoterica (cioè per i non iniziati), dare un volto alle Nazioni e un contenuto alla parola ripresa. Per la verità dobbiamo cominciare dall’economia. La quale non è niente di arcano anche se ha due ordini di significati. Uno si riferisce alla produzione e al consumo di beni e servizi (come dire al mercato), senza riferimento al modo (rapporto) di produzione. L’altro si riferisce proprio a questo che, nel caso del liberismo, è la depredazione dell’uomo da parte dell’uomo. Perciò pensiamo, che, limitatamente a questo, sia meglio usare il termine predonomia, che sta per “caccia alla preda e gestione della stessa”. Il primo non comprende – e qui sta la chiave di lettura – tutti i produttori e tutti i mercanti: dal calzolaio e dall’esercente sotto casa ai magnati delle auto e dei farmaci, ma - e siamo al punto – soltanto i secondi. La ripresa, di cui quotidianamente si parla – non è la ripresa del nostro calzolaio e del nostro panettiere ma la ripresa di coloro che hanno nelle loro mani il grosso delle materie prime e dei mezzi di produzione.
I soggetti dell’economia e della ripresa sono dunque solo i più grossi uomini d’affari: questa è la realtà tale e quale. Il compimento tecnologico-liberista comporta la scomparsa dei piccoli operatori e, quel ch’è peggio, degli artigiani, a favore dei grandi magazzini, dei supermercati e delle catene di vendita, nazionali e internazionali. E’ quanto sta avvenendo. Chi nasce povero ha 99% di probabilità di restarlo per tutta la vita. La competitività, la meritocrazia e la stessa uguaglianza davanti alla legge – con pari potere di autodifesa – sopravvivono come figure retoriche.
Ripresa non vuol dire che “ti possa cadere un posto dall’alto” ma soltanto funzionalità degli affaristi maggiori, di quelli che fanno la borsa e la storia dei nostri giorni. La ripresa di oggi non significa nemmeno modifica del triste fenomeno della “liberizzazione” dei servizi pubblici, di cui aumentano i costi e la loro distanza dagli utenti ridotti a “clienti” ovvero a consumatori. La ripresa del “mercato del lavoro” è la ripresa di una vergogna, non la fine del bisogno.






 

mercoledì 21 febbraio 2018

La longa manus del negazionismo

La longa manus del negazionismo

Articolo tratto dal sito : L'Arena di Pola
(Associazione del "libero comune di Pola in esilio".
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di Piero Tarticchio
(esule istriano del 1947, oggi giornalista e scrittore)
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Tutto era cominciato il 10 febbraio di due anni fa.
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Per commemorare il «Giorno del Ricordo», l’Ente «Provincia di La Spezia» aveva invitato a parlare la signora Alessandra Kersevan, nota giustificazionista filo-slovena, la quale addossava la responsabilità degli eventi legati alle foibe e all’esodo unicamente al fascismo reo di essersi macchiato dei più atroci delitti contro le minoranze croate e slovene.
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In poche parole, il Giorno del Ricordo, con stupore dei presenti, si era trasformato in un peana sul comunismo titino, una sorta di caccia alle streghe responsabili del revanscismo jugoslavo, tema più volte evocato dalle sinistre più estreme che avevano ribattezzato il 10 febbraio con l’appellativo di « Il giorno dell’orgoglio fascista ».
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Tutto ciò era l’esatto contrario di quanto scritto sul manifesto degli organizzatori della manifestazione intenzionati a far conoscere alla cittadinanza la nostra tragedia.
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Una normale commemorazione si stava rivelando come la più bieca « contro-giornata del ricordo » di stampo negazionista.
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Vittorio Sopracase
Alla conferenza, insieme agli esuli indignati per tanta spudoratezza, era presente il pittore Vittorio Sopracase, un personaggio assai noto nel campo della cultura cittadina.
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Nativo di Gallesano (Pola) e profugo a La Spezia, suo padre (insieme al mio) era stato infoibato nei primi quaranta tragici giorni dell’occupazione titina in Istria.
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Durante la mattinata, Sopracase si era recato in prefettura per ricevere un attestato di riconoscimento e una medaglia conferita dal Presidente della Repubblica ai figli degli infoibati.
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Sventolando il diploma, Sopracase si era scagliato contro la Kersevan accusandola di dire falsità, di distorcere la Storia e di vilipendio a una Legge dello Stato.
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La sollevazione di una parte del pubblico in breve si era trasformata in tafferugli costringendo la Kersevan prima a interrompere la conferenza e poi ad abbandonare l’aula.
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Dovette intervenire la Digos e la protesta della Spezia diventò un caso nazionale dibattuto sui principali giornali della Penisola.
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Sopracase pretese le scuse del Presidente della Provincia e quelle del Sindaco nonché la promessa, per rimediare alle distorsioni della Kersevan, di organizzare, per par-condicio, anche la testimonianza del suo compaesano Piero Tarticchio, fratello di sventura.
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Due anni dopo, il 10 febbraio 2011, Sopracase ha potuto realizzare il suo desiderio e con lui il mio intervento.
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Hanno partecipato :
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il Sindaco, il nuovo Presidente del Consiglio Provinciale (il precedente era caduto in seguito ai fatti legati alla Kersevan), il Prefetto, una nutrita rappresentanza delle scuole cittadine e le autorità civili e militari della Spezia.
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Nell’atrio del palazzo della Provincia era allestita una mostra che illustrava 20 secoli di Storia delle nostre terre, un percorso che andava dal periodo Romano fino alla Giornata del Ricordo.
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Dopo le brevi introduzioni del Sindaco Massimo Federici, del Prefetto Giuseppe Forlani e delle autorità presenti ha preso la parola il Presidente del Consiglio Provinciale Mario Fiasella il quale ha aperto il convegno dicendo :
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« … oggi cercheremo di chiarire di chi fu la responsabilità degli accadimenti avvenuti lungo il confine orientale italiano alla fine della Seconda guerra mondiale ».
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Piero Tarticchio
E, dopo avermi presentato all’uditorio, ha aggiunto :
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« … ora sentiremo la versione di Piero Tarticchio ».
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Prendendo la parola ho subito chiarito che il mio intervento non doveva intendersi come una versione dei fatti, ma come la legittima testimonianza di una persona che aveva vissuto sulla propria pelle le tragedie delle foibe e dell’esodo.
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Per onestà intellettuale ho prima elencato le azioni e il comportamento oltremodo nazionalista del fascismo nei confronti delle minoranze slave, ma anche la risposta barbara degli slavo-comunisti di Tito, ferocemente avversi agli italiani, oltretutto autoctoni.
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Citando documenti e fonti ho dimostrato come il Maresciallo jugoslavo non abbia condotto, nella Venezia Giulia e in Dalmazia, una guerra di liberazione ma di conquista territoriale.
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Ho rilevato come Tito voleva ad ogni costo balcanizzare quelle terre, ma per farlo scientificamente doveva prima sbarazzarsi degli italiani.
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Nel corso del mio intervento – durato un’ora circa – ho ricordato il modo in cui 1.100 esuli da Pola furono accolti nella caserma Ugo Botti della Spezia.
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Ho illustrato le ragioni che hanno portato Tito, espulso nel giugno 1948 dal Cominform, a diventare capo dei paesi non allineati, e pertanto ago della bilancia – durante la guerra fredda – tra il blocco Orientale comunista e quello Occidentale capitalista.
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Forte della sua carica, Tito si guadagnò la riconoscenza e il plauso di tutti i Paesi occidentali.
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Josip Broz Tito visto dal
pittore Charles Billich

Ho rilevato come l’Italia repubblicana si guardò bene dall’accusare il Maresciallo jugoslavo di essersi macchiato di crimini contro l’umanità, ma, per ragioni di stato, i nostri governanti preferirono tacere e confinare nell’oblio e nell’indifferenza il popolo degli esuli, la cui memoria è stata restituita, con la Legge n. 93, dopo 57 lunghi anni di colpevole silenzio.
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Ho denunciato quanto sia particolarmente difficile, per noi esuli, entrare nelle scuole per fare memoria e quanto sia invece incisiva la voce delle sinistre più estreme che non hanno mai perdonato agli istriani, fiumani e dalmati di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito.
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Ho accusato gli editori di testi scolastici di storia di aver proditoriamente trascurato, con omissioni e grossolani errori, gli avvenimenti legati alle foibe e all’esodo.
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Ho puntato il dito sulla politica italiana sempre tesa a strumentalizzare le nostre vicende, anziché risolverle.
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Ho terminato il mio intervento con la frase :
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« gli italiani finiti nelle foibe hanno il solo torto di essersi fatti ammazzare dagli slavocomunisti di Tito ;
se a sopprimerli fossero stati i nazifascisti oggi quei martiri sarebbero nell’olimpo degli eroi ».
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Dissenso
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sabato 17 febbraio 2018

GANDHI IN ITALIA PER CONOSCERE IL FASCISMO



GANDHI IN ITALIA PER CONOSCERE IL FASCISMO
LA VISITA A ROMA DEL GRANDE LEADER INDIANO
L’incontro con Mussolini a Palazzo Venezia. Giudizi altamente positivi sulla personalità del Duce e sullo sforzo di affermazione sostenuto in quegli anni dalla nazione italiana.
Di LUIGI CAPANO

 

 

         Il primo documento che testimonia l’interesse di Mussolini per l’India è, con tutta probabilità, un articolo apparso sul “Popolo d’Italia” il 4 settembre 1921 intitolato “Verso il Suolo Asiatico” che, traendo spunto dalla notizia di una rivolta dei musulmani Moplah nel Malabar, dava ampio spazio a considerazioni politiche di interesse più vasto, soffermandosi in particolare sulla figura dell’agitatore Gandhi, “il paziente e costante messia delle Indie” (1), uno dei grandi protagonisti della ribellione del popolo indiano contro il giogo inglese.

            “Che cosa succede, che cosa è successo in una plaga dell’India grande e favolosa, in quella penisola che ha la forma di un cuore fra due oceani? E’ una rivolta, limitata ad una sola tribù, quella dei Moplas, o è l’inizio di una rivoluzione?” (2). Quel risveglio asiatico che Mussolini intuiva dai fermenti rivoluzionari che costellavano per ogni dove le terre d’Oriente avrebbe, secondo il suo pensiero, segnato inesorabilmente il tramonto dell’egemonia europea, perché gli inglesi avrebbero sì potuto sedare temporaneamente una rivolta ma sarebbe stata, di fatto, una vittoria di Pirro: “La razza si è risvegliata. E’ in piedi. Il raggiungimento della sua indipendenza non è più una questione di possibilità; è una questione di tempo” (3).

            L’attenzione di Mussolini verso la politica indiana è testimoniata tra l’altro – come diceva Renzo De Felice (4) – dalla presenza di alcuni testi nelle biblioteche di Villa Torlonia e in Romagna, di cui molto poco è giunto fino a noi. Tra i molti libri recuperati citiamo: C. Formichi, India ed indiani; Viator (5), L’India dove va?; G. De Lorenzo, L’Oriente e L’Occidente.

            Soprattutto nei primi anni ’30 vi fu in Italia un fiorire di studi politici e culturali sui paesi asiatici e segnatamente sull’India, culminato nella fondazione dell’IsMEO ad opera di Giuseppe Tucci (1933).

            C’era un fermento che vivificava quei popoli orientali e che risuonava variamente nell’Italia di quegli anni, attenta a raccogliere e ad assimilare, come di rado è accaduto nella nostra storia, ogni sollecitazione che spingesse verso un profondo rinnovamento della vita in ogni suo aspetto. Questo elemento dinamico, sempre presente nel pensiero di Mussolini, è uno degli aspetti più rilevanti della Weltanschauung fascista: “Non crediamo a una soluzione unica – sia essa di specie economica o politica o morale -, a una soluzione lineare ai problemi della vita perché – o illustri cantastorie di tutte le sacrestie – la vita non è lineare e non la ridurrete mai ad un segmento chiuso fra bisogni primordiali” (6).

            Era in particolare dall’India che provenivano più numerosi i segnali della ribellione. La situazione stava precipitando. Gli inglesi, a quanto pareva, avevano i giorni contati e la loro avventura coloniale in quelle terre sembrava volgere ormai irrimediabilmente al termine.

            La conquista britannica delle Indie è stata, in realtà, il frutto di una imponente azione commerciale e affaristica sostenuta dalla forza delle armi e condotta dalla celeberrima British East India Company, nata come una vera e propria compagnia di avventurieri del mare e divenuta in seguito padrona del più grande e più ricco fra tutti i domini britannici. Le numerose rivolte che costellarono i momenti più drammatici di questa impresa furono ferocemente domate: ricordiamo fra tutte la rivolta dei sepoys – milizie indigene al soldo della Compagnia – avvenuta nel 1856. Un tenente dell’esercito coloniale inglese scrisse una lettera alla madre esprimendosi in questi termini: “Siamo stati finora occupati a disarmare lungo le strade i reggimenti e a giustiziare i ribelli. Il genere di morte, che a quanto pare, produce un’enorme impressione sulla folla consiste nell’essere soffiati via dal cannone. E’ veramente orribile a vedersi, ma in simili tempi non possiamo fare tanti complimenti…” (7).

            Con la fondazione del Congresso Nazionale Indiano (1885), avallata dallo stesso Governo Britannico nell’intento di controllare il nascente sentimento nazionale tramite un organismo politico “addomesticato”, vengono di fatto gettate le basi per un forte movimento anti-britannico. Gradualmente, col formarsi di un’autentica coscienza nazionale, il Congresso comincia ad assumere la funzione di un vero e proprio organismo unificatore dell’India, sino a divenire oppositore assoluto della dominazione inglese.

            Nel 1919 si impone sulla scena politica indiana la figura di Mahandas Karamchard Gandhi che si farà portavoce del malcontento popolare e condurrà fino alla fine dei suoi giorni una lotta senza tregua contro l’invasore britannico con le armi implacabili dell’ahimsa e del satyagraha (8).

            La situazione precipitò verso la fine del ’29 quando il Congresso, riunitosi a Latore, approvò un documento che dichiarava aperta la lotta per l’indipendenza del popolo indiano. Questo evento ebbe grande risonanza anche nel nostro paese. In quell’occasione Virginio Gayda, direttore del “Giornale d’Italia” ebbe a scrivere: Il risveglio dell’India riempirà di sé, esso pure, la storia di questo secolo che leva di fronte alla razza bianca e alla civiltà occidentale le razze di colore e lo spirito di altre tradizioni e di altre civiltà, più forti di numero e più vergini nella loro coscienza” (9).

           

 

Conferenze fallite

 

         Dietro la spinta dei disordini provocati dalla disobbedienza civile fomentata da Gandhi il governo britannico decise di convocare per il 12 novembre 1930 una Conferenza a Londra per discutere il futuro dell’India ma non si ottenne alcun risultato. Venne quindi convocata una seconda Conferenza per la fine del ’31 ed il Congresso decise di inviare a Londra Gandhi come suo unico rappresentante ufficiale. Ma anche questa seconda Conferenza, conclusasi ai primi di dicembre, si rivelò un vero e proprio fallimento.

            Durante il viaggio di ritorno il Mahatma (10) visitò Parigi; poi fu in Svizzera, ospite di Romani Rolland, uno dei maggiori divulgatori del pensiero di Gandhi in Europa. La tappa successiva è l’Italia: Milano l’11 dicembre ed il giorno seguente, Roma dove è ospite, a Monte Mario, nella villa del generale Moris, pioniere dell’aviazione militare italiana. Nella capitale sosterà due giorni durante i quali sarà trattato con ogni riguardo dalle autorità e dividerà il suo tempo tra escursioni turistiche ai musei, alle grandi chiese, ai celeberrimi monumenti romani e alcune visite ufficiali alle più importanti istituzioni fasciste. Verrà ricevuto a Palazzo Venezia (e verosimilmente anche a Villa Torlonia, come testimoniato da Donna Rachele e dal figlio Vittorio) da Mussolini e a Palazzo Vidoni da Storace, da pochi giorni segretario del Partito.

Sulla base dei documenti di cui disponiamo traspare indubitabilmente il desiderio di Gandhi di visitare l’Italia, conoscere da vicino il fascismo ed incontrare Mussolini, nonostante l’opera di dissuasione di Rolland e di altri suoi amici antifascisti (11). In un’intervista rilascita al “Giornale d’Oriente” (8 settembre 1931), organo della comunità italiana del Cairo, il Mahatma confessa: “L’Italia mi ha sempre interessato e desidero visitarla. Spero, anzi, che io possa tradurre in realtà questo desiderio presto. Forse, al ritorno da Londra, dopo la Conferenza della Tavola Rotonda, il mio itinerario mi condurrà a Roma”. E aggiunge: “tra tutte le nazioni che, dopo la guerra, tendono con sforzi vigorosi, ad affermarsi ed a creare una realtà,  l’Italia occupa un posto privilegiato e distinto. Perciò Mussolini, che è l’animatore di questo risveglio, ha tutta la mia ammirazione”.

Il 12 dicembre alle ore 18,00 Gandhi è a Palazzo Venezia dove si intrattiene con il Duce in una breve conversazione. Di questo colloquio si conosce pochissimo. Miss Slade, fedele seguace del Mahatma, assistette all’incontro e, molti anni più tardi, in una sua memoria scrisse: “Mussolini si rivolse a Bapu (Gandhi n.d.r.) in un ottimo inglese e gli pose un certo numero di domande riguardanti l’India…Quando furono passati dieci minuti, si alzò dalla sua sedia dandoci così il segnale che l’udienza era finita, e ci accompagnò dritti alla porta all’altra estremità della stanza. Il generale (Moris, n.d.r.)ci disse poi che questo era un comportamento del tutto inconsueto per Mussolini, che di solito non si alzava dalla sua sedia, e neppure sollevava gli occhi quando i visitatori entravano” (12). E Gandhi porterà sempre con sé il ricordo di quegli occhi. Racconterà un paio di anni dopo al suo segretario: Mussolini ha gli occhi di un gatto. Alla sua presenza si viene storditi…I suoi occhi si muovono intorno, in ogni direzione, come se fossero in rotazione costante. Il visitatore finisce per soccombere totalmente allo sgomento di fronte al suo sguardo, come un topo che corra direttamente in bocca ad un gatto solo perché è stato spinto dalla paura” (13).

La sera del 13 il Mahatma lascia la capitale. Il mattino successivo, a Brindisi, si imbarca per l’India.

Fa notare De Felice che Gandhi, contrariamente a quanto asserito dai suoi biografi (14), dovette trarre dal soggiorno romano una impressione nel complesso positiva, a giudicare dal contenuto di una lettera da lui scritta a Rolland il 20 dicembre, durante il viaggio di ritorno in India (15) e dal fatto che un anno e mezzo dopo pare abbia detto ad un connazionale in partenza per l’Europa che vi erano due persone che avrebbe dovuto conoscere: Mussolini e Rolland (16).

Gandhi sbarca a Bombay il 28 dicembre e vi trova una situazione di grande tensione aggravata dai severi provvedimenti repressivi adottati dagli inglesi. Con l’avallo del Congresso decide di riprendere la lotta contro il governo. Una settimana  dopo – era il 4 gennaio 1932 – viene arrestato e rinchiuso per quindici mesi nel carcere di Yerawada.

 

 

NOTE

 

1)      G. D’Annunzio, Carteggio D’Annunzio-Mussolini (1919-1938) a cura di R. De Felice.

2)      Mussolini, Verso il Suolo Asiatico, in Opera Omnia XVII, p. 120.

3)      Mussolini, op. cit.

4)      R. De Felice, L’India nella strategia politica di Mussolini, in “Storia Contemporanea”, dicembre 1987.

5)      Pseudonimo di Gino Scarpa: console generale a Calcutta, organizzò il viaggio di Gandhi in Italia nel ’31.

6)      Mussolini, La Dottrina del Fascismo (a cura di Marcello Gallina). Questa concezione dinamica della realtà occhieggia più volte fra le pagine dell’opera. Si legge ad esempio che “lo spirito fascista rifugge da tutto ciò che è ipoteca arbitraria sul misterioso futuro”.

7)      In Massimo Scaligero, L’India contro l’Inghilterra, p. 10.

8)      Rispettivamente “non-violenza” e “forza della verità”, due principi che nel pensiero di Gandhi sono inscindibili, come emerge ovunque nei suoi scritti: “Nell’applicazione del satygraha ho scoperto fin dai primi momenti che la ricerca della verità non ammette l’uso della violenza contro l’avversario, ma che questo deve essere distolto dall’errore con la pazienza e la comprensione. Infatti ciò che sembra la verità ad uno può sembrare un errore ad un altro…In campo politico la lotta per il bene del popolo consiste soprattutto nell’opporsi all’errore nella forma delle leggi ingiuste”. E ancora: “Credo che nel caso in cui l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza…Tuttavia sono convinto che la non-violenza è infinitamente superiore alla violenza, che il perdono è cosa più virile della punizione. La clemenza nobilita il soldato. Ma si ha v era clemenza soltanto quando esiste il potere di punire.; essa è priva di senso quando proviene da una creatura impotente” (da M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non violenza).

9)      Il Risveglio nell’India, in Gerarchia, gennaio 1930. Dallo stesso articolo può essere utile estrapolare questa interessante osservazione: “Non è da Mosca, come generalmente si crede, ma dall’America e dalla Germania, che parte l’incitamento alla resistenza antibritannica; in India come in Cina. La Germania spende molto per avvicinare alla sua cultura e alla sua influenza spirituale, attraverso le scuole, le università ed i libri, la gioventù intellettuale dell’India. Ma lavora anche con le sue banche, le sue compagnie commerciali e la sua navigazione. Gli Stati Uniti uniscono all’azione economica quella politica, con una sottile propaganda che rincuora la resistenza e la silenziosa rivolta indiana in una quotidiana corrosione del prestigio britannico”.

10)  Letteralmente “Grande Anima”, come Gandhi veniva chiamato dal suo popolo.

11)  Si legge nel diario di Rolland: “Mussolini ha espresso il desiderio di vederlo, e poiché questo desiderio era condiviso…Gandhi è andato dal Duce, con Mira, Desai e il generale Mosir”.

12)  In Gianni Sofri, Gandhi in Italia.

13)  In “Harijan” (il giornale di Gandhi), 24-10-1948.

14)  Si veda, ad esempio, Giorgio Borsa, Gandhi.

15)  Nella lettera a Rolland si legge: “Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attirano… La sua attenzione per i poveri, la sua opposizione alla superurbanizzazione, il suo sforzo per attuare una coordinazione tra capitale e lavoro, mi sembrano richiedere un’attenzione speciale…Il mio dubbio fondamentale riguarda il fatto che queste riforme sono attuate mediante la costrizione. Ma accade anche nelle istituzioni democratiche. Ciò che mi colpisce è che, dietro l’implacabilità di Mussolini, c’è il disegno di servire il proprio popolo. Anche dietro i suoi discorsi enfatici c’è un nocciolo di sincerità e di amore appassionato per il suo popolo. Mi sembra anche che la massa degli italiani ami il governo di ferro di Mussolini”.

16)  Dal Diario di R. Rolland.